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La fabbrica del sapere

 

Roberto Ciccarelli per Il Manifesto

 

Se per Dirk Van Damme, direttore del dipartimento istruzione dell’Ocse, la crisi rischia di cancellare le università europee dai vertici delle classifiche mondiali, le politiche di tagli ai fondi per l’istruzione pubblica adottate dai governi europei negli ultimi due anni condurranno molti atenei a portare i libri in tribunale. Ad un primo sguardo il verdetto contiene il tono apocalittico che ormai pervade le statistiche italiane sulle politiche universitarie. Ad ascoltare le analisi documentate e competenti svolte dagli studenti che hanno partecipato nel fine settimana a Parigi al seminario sulle «lotte contro l’austerità per una nuova Europa», la dismissione dell’università e la privatizzazione delle sue modalità di governo è un processo comune a tutti i paesi dell’Unione Europea, e non solo. Se ad esempio la Polonia ha rinviato gli investimenti nelle infrastrutture, la Lituania, la Repubblica Ceca, l’Ungheria hanno ridotto del 30 per cento gli stipendi degli insegnanti. In Irlanda, dopo una riduzione del fondo per l’istruzione del 60 per cento nel 2010, quest’anno si prevede una riduzione dei docenti universitari mentre diverse facoltà verranno chiuse. In Italia il taglio al fondo per gli atenei è stato del 14 per cento (da 7,4 a 6,1 miliardi di euro all’anno), ma la stessa cosa avviene in Austria dove da 2 anni il movimento studentesco si batte contro l’aumento delle tasse di iscrizione.

 

La bolla formativa

 

Questi tagli sono accompagnati da un crescente indebitamento degli studenti. Nel seminario organizzato dalla rete transnazionale di studenti e ricercatori «Edu-Factory» (in cui è maggioritaria la presenza degli italiani che studiano e lavorano all’estero) è stato spiegato come nei Paesi Bassi nel 2011 avverrà la trasformazione delle borse di studio in un sistema di prestiti bancari per i giovani. Questa proposta, in tutto simile al «fondo per il merito» che la riforma Gelmini ha istituito presso il ministero dell’economia facendola gestire dalla concessionaria Consap, è il principale sintomo della trasformazione finanziaria della vita studentesca. In Giappone, ad esempio, il rinvio degli investimenti, il blocco delle assunzioni, il taglio delle risorse e la precarizzazione totale dell’insegnamento sono stati l’antefatto della criminalizzazione degli studenti.

 

I dati sono impressionanti e li abbiamo appresi da una studentessa nipponica giunta a Parigi per il convegno insieme ad altri 500 coetanei di 15 paesi diversi. L’80 per cento degli studenti giapponesi laureati deve ripagare un debito medio di 8.800 euro alla Japan Student Service Organization (Jasso), un’azienda privata di riscossione che ha il compito di denunciare alle autorità bancarie chi non ripiana il debito. Le pene previste vanno dalla chiusura dei conti correnti al blocco delle carte di credito fino all’arresto degli studenti inseriti in una «lista nera». Verso questo futuro è avviata anche l’Europa che ha trasformato le scuole e le università in luoghi di formazione di lavoratori precari indebitati e non più delle élite nazionali come per molto tempo ha creduto di fare con l’università di massa. Nei paesi mediterranei come il Portogallo l’identificazione tra lo studente e il precario è quasi totale. Il 90 per cento dei nuovi lavori è intermittente. La ricerca della prima occupazione si è allungata a dismisura, mentre aumenta la domanda di specializzazione da ottenere con master o dottorati.

 

In un sistema dominato da una «bolla formativa» che rischia di esplodere da un momento all’altro, non molto diverso da quanto è già accaduto in Spagna o in Grecia, non si contano i laureati costretti ad accettare lavori dequalificati. In questo scenario che molti nell’assemblea generale tenuta venerdì scorso all’Ecole des Hautes Etudes hanno definito «regressivo», quello che domina è una spaventosa docilità. Le imprese e il settore pubblico cercano persone pronte ad accettare tutto per un lavoro. Pesa la difficoltà di organizzare il lavoro precario della conoscenza, mentre cresce il tasso di individualismo. Cambia inoltre l’organizzazione didattica dei corsi.

 

I manager della conoscenza

 

Questa trasformazione porta il nome del «processo di Bologna», una lista di linee guida (e non una legge comunitaria) che l’Italia ha applicato per prima dieci anni fa con la riforma Berlinguer-Zecchino dei cicli didattici e che oggi rappresenta il modello per tutte le università europee e statunitensi. Essa comporta la rigidità e l’iper-regolamentazione degli studi, l’assoggettamento ad un criterio efficientistico della didattica e della ricerca, la liquidazione delle scienze umane e sociali a favore delle discipline come il marketing utili per la caccia ai finanziamenti privati. Dalla Polonia all’Ucraina, dall’Inghilterra alla Grecia, le università sono guidate da rettori manager esperti nella gestione finanziaria della formazione e dei bilanci.

 

Gli esiti fallimentari di questo processo hanno convinto gli studenti a formare una rete europea di coordinamento delle lotte che entrerà in azione nella settimana tra il 24 e il 26 marzo a Londra e in molte altre città. La mobilitazione prevede l’occupazione delle banche con lezioni e assemblee, la creazione di un giornale comune e di un sito, oltre che il ricorso al «book block» – simbolo dell’autunno studentesco a Roma e Londra. Non è escluso che ad Aprile la carovana farà tappa in Tunisia, dove la generazione precaria è alla guida della rivoluzione democratica.

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