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+/ UN INVITO/+ /IL/SISTEMA/E/L/IMMUNITÀ/

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Riprendiamo, con un po’ di ritardo, questo interessante scritto di Azione Antifascista Roma Est, che sebbene venga da un substrato teorico leggermente dissimile al nostro, ci pare convincente nell’analisi dei fenomeni pandemici, mantenendo i livelli di complessità con cui ci troviamo ad interfacciarci. Il testo è frutto di un’inchiesta sul campo come si può notare dai post sulla loro pagina facebook rispetto al movimento No Green Pass di cui consigliamo la lettura. La parte conclusiva merita un’ampia discussione sugli itinerari per rendere praticabili forme di contropotere e di contesa dal basso della gestione pandemica che siano credibili e non autoreferenziali. Buona lettura!

 

La stesura di questo testo nasce da una vera e propria esigenza, un bisogno che andava soddisfatto: il bisogno di mettere in fila una serie di cose e, tracciata una linea, tirare giù le somme. Riflettere, discutere e, infine, elaborare una posizione collettiva su un evento epocale che ha sconvolto la nostra realtà in tutti gli ambiti: l’emergenza sanitaria globale e la sua gestione securitaria.

Da quando quest’emergenza è detonata abbiamo condotto una perenne inchiesta sul campo, sia partecipando alle pratiche di mutualismo che prendevano corpo nei nostri quartieri, sia attraversando quelle piazze che tentavano una qualche forma di opposizione ad una gestione della pandemia basata sullo stato di emergenza. Come gruppo antifascista abbiamo sentito l’esigenza di comprendere come la gestione della pandemia da Covid-19 sia espressione del capitalismo contemporaneo e di interrogarci sulle soggettività da esso prodotte in questa fase, a partire dai recenti fenomeni sociali di non facile lettura se visti alla luce delle consuete categorie concettuali di movimento. Di prendere una posizione su alcuni temi, tra i più divisivi di sempre, analizzare alcune tensioni e pulsioni che emergono ora in maniera forse inedita ma che, siamo sicuri, caratterizzeranno la realtà politica del prossimo futuro.

Non ci interessa raccogliere consensi o che si sposi necessariamente questa nostra posizione, né che se ne abbraccino tutte le sfumature. Ciò che ci interessa è invece comprendere l’opinione di compagni ed amici sull’attuale stato del pensiero e dell’agire militante.

1/SISTEMA/

«Canta la mia gente, che non vuol morire» Area, Luglio, agosto, settembre (nero)

L’esorbitanza di opinioni sulla pandemia e le sue cause rivela anzitutto la necessità di metabolizzare un evento che ha scompaginato la quotidianità imponendone una nuova, assolutamente inedita e imprevista; un’eventualità totalmente estranea al probabile orizzonte degli eventi della fantasia occidentale, ormai abituata alla profilassi, alla sicurezza, asettica. Un’emergenza, l’ennesima di un sistema capitalista che ormai da decenni vive amministrando disastri e traendo profitti da essi, che ha presentato all’intera società un groviglio di problemi che richiederebbero analisi e soluzioni assolutamente diverse da quelle affrontate finora: non siamo di fronte a una nuova ondata di integralisti che decide di combattere l’imperialismo occidentale facendo strage di civili in centro città il sabato pomeriggio, né a una nuova crisi finanziaria creata da speculatori tanto avidi quanto insaziabili, prontissimi a sacrificare la vita degli altri per i propri interessi.

Eppure, fin dall’inizio, le risposte delle istituzioni hanno ripercorso quelle già adottate, in Italia e altrove, quando le ‘crisi’ erano di tutt’altra portata: anche in questa occasione la retorica dell’emergenza, del sacrificio e della guerra, sono state agitate con veemenza, dimostrandoci ancora una volta che il paradigma governamentale contemporaneo coincide con mere tecniche di gestione dell’emergenza. Del resto, prevenire le cause di una catastrofe è difficile, costoso ed aleatorio, per questo è più conveniente e semplice governarne gli effetti. La gestione della crisi sanitaria a livello globale ricalca la politica del laissez faire, che da politica economica è diventata politica di governo per tutti gli ambiti dell’esistente. Il principio di gestione del rischio che da sempre governa i mercati finanziari, nell’epoca del capitalismo avanzato, del capitalismo finanziario appunto, è diventato principio di governo della popolazione anche durante la pandemia: non si prevengono i rischi di crisi ma si governano gli effetti di ogni rischio che si verifica, quale che sia l’ambito del presente in cui accade.

Se il governo punta agli effetti e non alle cause, sarà obbligato a estendere e moltiplicare i controlli.

È così che anche la pandemia da Covid-19, benché prevista come altre catastrofi, non è stata evitata ma, una volta deflagrata, è divenuta un’importante occasione di ristrutturazione, che sfrutta una paura comprensibile ma indiscriminatamente alimentata, per imporre una serie di misure altrimenti irricevibili per gli standard delle democrazie occidentali.

Il governo ha optato per una strategia di contenimento dell’epidemia tutta basata sulla gestione dell’ordine pubblico a fronte di una colpevole, quanto scontata, incapacità tecnica del sistema sanitario nazionale, nel tempo smantellato e indebolito da politiche di privatizzazione e speculazione. Anche per far fronte a questa crisi sanitaria si è proposta la solita gestione militare dei territori fatta di stati di emergenza, lockdown, zone rosse, divieti, coprifuoco, decretazione d’urgenza, dispositivi di tracciamento: misure provvisorie di gestione dell’emergenza e funzionali al ripristino della normalità che, come in ogni occasione di governo della crisi, si sedimentano come possibili dispositivi governamentali perenni, pronti ad essere estesi ad altri ambiti dell’esistente e a permeare ogni ambito della vita, radicandosi negli ordinamenti giuridici delle democrazie occidentali e piegandole sempre più in senso autoritario. Nulla di nuovo sul fronte occidentale potremmo dire. Tutto questo condito da un nazionalismo idiota che si dispiegava puntuale alle 18:00 dai balconi dei palazzi, quasi a esorcizzare il resoconto di contagi e morti che veniva trasmesso in TV in contemporanea; i negozi chiusi, le strade in un vuoto silenzio, le file ai supermercati, le autocertificazioni per andare al lavoro nei servizi essenziali e le ronde della polizia a garantire l’ordine, mentre a reti unificate circolava la promessa catartica, finale, che tutto sarebbe andato per il meglio. Mesi di incubo in cui tutto, bene o male, ha tenuto: il sacrificio richiesto era alto, è vero, ma lo era anche il livello dell’emergenza dato dal virus che, in quei primi mesi, era arrivato a mietere circa mille vite al giorno; e il primo lockdown, a fronte di un sistema sanitario globale al collasso, è stato l’unico strumento funzionale alla riduzione del contagio.

Uno scenario che avrebbe un sapore quasi epico, di un’epica ottocentesca: la nazione stretta ‘a coorte’ nel momento del dramma. Eppure già in quei primi mesi c’era qualcosa che, si vedeva, non andava. Le fabbriche al nord che rimanevano aperte, anche quelle non essenziali, anche nelle zone in cui il morbo colpiva con più violenza, e in cui si continuava a morire come si muore normalmente di lavoro in Italia; la palese insufficienza della sanità pubblica e le speculazioni di quella privata in combutta con la parte più corrotta della politica italiana; i pestaggi e le violenze della polizia che, pur non essendo una novità, diventavano tanto più insopportabili in un contesto in cui la libertà di movimento si era fatta limitatissima. E nel frattempo i responsabili del contagio diventavano quelli che portavano il cane a spasso, o quelli che andavano a correre al parco: la responsabilità del dramma collettivo, delle carenze strutturali di uno stato che abdica alla sua funzione sociale, veniva riversata sui singoli e sui loro comportamenti quotidiani, ovviamente solo quelli slegati dall’immediata logica della produzione e del consumo. Un rinnovato spirito illuministico tutto volto ad incentivare un individualismo atomizzante, dove ciò che rileva è solo il singolo, la sua libertà da orientare o comprimere e la sua responsabilità personale.

Cominciava a girare un altro slogan, e anch’esso sapeva di promessa. “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”.

Lo scenario si è ripetuto, anche se attenuato, nell’autunno successivo. Al Paese, dissanguato economicamente e psicologicamente esausto, venivano imposte nuove e discutibili misure di contenimento e la situazione cominciava a farsi grottesca: una nazione arlecchina vedeva le sue regioni assumere i colori più vivaci in base al numero di contagi e morti che ciascuna di esse contava; più era grande il numero di decessi più festoso era il colore. A Milano, Torino e Napoli le piazze si sono riempite di commercianti esausti, lavoratori a nero, ragazzi migranti di seconda generazione, che scandivano a piena voce una richiesta semplice e immediata: tu ci chiudi, tu ci paghi. Dopo la prima ondata, l’inevitabile seconda colpiva il Paese: nel mezzo un’estate di “liberi tutti”, senza restrizioni o controlli, con bonus statali finalizzati ad incentivare il consumo ludico e nel contempo senza programmazioni e senza rifinanziamenti della sanità statale, mentre nel discorso pubblico si irrobustiva la tendenza alla criminalizzazione dei comportamenti individuali. Uno scenario che si è ripetuto, con poche sfumature di differenza, ancora nell’anno successivo come un surreale ed apocalittico eterno ritorno del rimosso.

Nel suo normalizzarsi la crisi prodotta dalla pandemia si andava delineando, come sempre, come una contrapposizione tra l’economia e la vita.

2/L/ORDINE/

«Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità Abbiamo perso di vista quella collettiva L’abbiamo frammentata. Noi, loro e gli altri. Noi, loro e gli altri. Persone» Marracash, Cosplayer

Per anni il dibattito politico interno è stato dominato dal tema dell’immigrazione, agitato per solleticare e sviare la percezione dell’opinione pubblica, dividendola tra “favorevoli” e “contrari”, come se un tema del genere fosse riducibile a una semplice dichiarazione, a una presa di posizione piatta e priva di profondità.

Un gioco retorico, un falso problema in nome del quale si sono imposti controlli, divieti, si sono avallati pestaggi, uccisioni e aberrazioni di ogni tipo. “Danni collaterali”, come ci è stato insegnato dal cinismo di Stato in decenni di cronaca della Guerra al terrore. Un discorso pompato ad arte che ha oscurato tutti gli altri, imponendosi come un de facto, una verità incontrovertibile, tanto indiscutibile da permettere ai razzisti di poter dire: «Io non sono razzista, ma…».

L’immigrazione diventava quindi il problema per antonomasia, il prisma attraverso cui leggere la realtà. I fautori di questa narrazione hanno passato anni a spiegarci che se i lavoratori avevano scarse tutele e scarsi salari non era colpa di contratti infami e di imprenditori criminali ma degli immigrati che abbassavano il costo del lavoro; che se i fondi e le risorse del pubblico erano pochi era perché venivano destinate agli immigrati, addirittura preferiti rispetto agli autoctoni. Ci hanno spiegato che questa immigrazione di massa era in realtà pianificata dalle élite europee per peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori bianchi nati in Europa; e nel frattempo gli annegamenti e le legislazioni labirintiche, la marginalità costretta veniva giustificata da una fittizia realpolitik in cui dei privilegiati sovvertivano la realtà e, vestito l’abito delle vittime, si dichiaravano prontissimi a sacrificare la vita di qualcun altro in una totale assenza di empatia.

Si trattava di un tema centrale nella costruzione dell’architettura politica di una nuova forma di nazionalismo che si è imposta così, per anni, all’ordine del giorno nel discorso pubblico. Razzista in maniera ora esplicita, ora criptica in base alle necessità del caso, in grado di solleticare il disagio esistenziale e lo smarrimento creato dalla crisi economica, in grado di annusare la rabbia e dirigerla verso vecchie e nuove figure marginali come gli immigrati. In tutto questo la sinistra, intesa in senso generale, in nessun modo provava ad intaccare la gerarchia della produzione, a parlare di salari. In nessun modo provava a porre un freno allo sgretolamento dei diritti collettivi, favorendo, anzi, quegli ideali di individualismo e quella realtà di atomizzazione che sono le colonne portanti della società capitalista.

Una caccia al nemico continua e costantemente orientata verso la porta del vicino di casa: una guerra civile permanente che andava a sostituire la lotta di classe.

Il conflitto orizzontale prendeva il posto di quello verticale.

L’individualismo e lo spirito concorrenziale, tipici delle società occidentali dei paesi a capitalismo avanzato, hanno ormai pervaso i corpi ed i cuori di una gran parte della popolazione, definendo nel contempo il substrato perfetto per la diffusione di un fascismo molecolare che vede nella alterità (in qualunque forma si manifesti) una limitazione della propria libertà personale che, spinta al limite estremo, diventa confine invalicabile, proprietà da difendere. Libertà totale di riprodurre se stessi in modo sempre uguale. Riproduzione che si nutre di una auto-rappresentazione del sé spasmodica e superficiale. L’atomizzazione della società e la totale mancanza di un reciproco riconoscimento tra individui che condividono le medesime condizioni e problematiche, la sostanziale assenza di una prospettiva comune e condivisa, hanno scaricato sul singolo il peso di un fallimento esistenziale, che riproduce in ogni ambito della vita quel principio tipico della concorrenza sul mercato (che prevede sempre la presenza di chi vince e chi perde) alimentando grandi sacche di frustrazione, infelicità, solitudine, insicurezza e paura. Questi sentimenti nutrono un fascismo diffuso che si è imposto nel senso comune e nel modo di pensare e interpretare le relazioni sociali; quel fascismo fumoso che si è diluito nella “società civile” e nell’“opinione pubblica”, che è stato eletto democraticamente dalla maggioranza della popolazione, che è diventato l’atmosfera che si respira nei bar, negli stadi, sui mezzi pubblici, nei quartieri periferici e nelle province dimenticate.

Ma questo humus sociale e culturale è stato ulteriormente alimentato da una gestione securitaria della pandemia con le sue campagne mediatiche di isteria di massa. Così, come scrive qualcuno già prima di noi, in un mondo che è spettro di una comunità frantumata, di reciproca diffidenza e sospetto, teatro di una aperta guerra omnium contra omnes, si fanno strada teorie complottiste e negazioniste. Nel tentativo di decifrare un mondo

illeggibile, atomizzato e privo di una “verità comune”, abitato da individui impotenti, vulnerabili e depoliticizzati, si afferma prepotente il complotto al potere, per nutrire una smania di smascheramento, di disvelamento della realtà, per trovare il colpevole, il capro espiatorio. Non più l’immigrato ma il Nuovo Ordine Mondiale. Un potere senza volto responsabile di aver creato il virus, di averlo diffuso, esserselo inventato per controllare i nostri corpi e le nostre menti, un potere che ci inietta liquidi letali per sterminarci tutti, farci ammalare, controllarci.

Un Deep State che ci nasconde grandi verità e ci propina enormi finzioni. Uno stato profondo responsabile della sparizione di migliaia di bambini, di una pandemia inventata, di una incombente invasione aliena, di una cospirazione anti-sovranista. È infatti proprio di matrice sovranista il vento che soffia sul fuoco del complotto. Il complottismo da una parte si nutre di quel brodo culturale del fascismo diffuso, dall’altra è a sua volta nutrito da quelle componenti di fascisti organizzati a livello globale. Che il movimento di QAnon sia sostenuto da Donald Trump e alimentato dai Proud Boys dell’alt-right americana e da quei suprematisti bianchi che hanno guidato l’assalto a Capitol Hill lo scorso gennaio e poi tutti i rally negazionisti e antivaccinisti in vari stati americani è ben noto. Come del resto è comprovato l’ingente investimento da parte della fondazione Saint George Educational Trust di Londra, di Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, alla associazione Vicit Leo Belli, a sua volta presieduta da iscritti alla formazione neofascista e che si occupa di studi negazionisti che annoverano titoli stravaganti tra cui “La pandemia inventata” di Stefano Scoglio, noto guru del movimento no- vax.

3/IL/DISCORSO/

«Ma il mondo che vedete non esiste, E tutto ciò che vedete non esiste, Il mondo che vedete non esiste, Esisto solo io» P. Benvegnù, Infinito 1

Nel vuoto lasciato dall’assenza di una critica radicale e rivoluzionaria contro questa scellerata gestione dell’emergenza pandemica, il movimento che in tutto l’occidente si è espresso con forza dirompente dall’Italia alla Francia, dalla Germania agli Stati Uniti, è stato quello contro il green pass, o più in generale contro la società del controllo, contro le politiche securitarie legate alla gestione della emergenza sanitaria. Un movimento sì, a tutti gli effetti, dotato di una vera e propria organizzazione, dei suoi canali di comunicazione interni ed esterni, di relazioni e connessioni nazionali ed internazionali, di una impalcatura concettuale sua propria e di una discreta capacità di esprimere una certa continuità di mobilitazione nel tempo.

Un movimento sociale massivo, con rivendicazioni e pratiche che riecheggiano in tutto l’Occidente. Un movimento che a prima vista potrebbe essere espressione propria degli ambienti militanti e di gruppi politici, come il nostro, che sulla critica al paradigma securitario di governo hanno fondato per anni il proprio agire politico. Ma a ben vedere, dopo mesi di inchiesta sul campo, questo movimento non è altro che l’espressione massima di quella antropologia ultra-liberista tipica dei paesi a capitalismo avanzato. Un movimento composto da un accumulo di singolarità: migliaia di atomi che, messi insieme, non formano una molecola ma sono la massima espressione, disorganica e sincera, di una società iperindividualista. Nei loro discorsi il contesto collettivo della pandemia, il suo aspetto più concretamente sociale è assente, il virus e la necessità di delimitarlo non sono argomenti essenziali del discorso sull’epidemia, ma accessori utili solo a mero fine retorico. La loro unica rivendicazione, a fronte di politiche che smantellano ogni residuo di diritto sociale, è quella della strenua difesa di uno status quo ante, la difesa della propria prerogativa di continuare a produrre e consumare indisturbati, in nome della libertà e contro la dittatura sanitaria. Come più di qualcuno ha già notato prima di noi, di fronte al dramma più collettivo, globale e trasversale dell’ultimo secolo ciò che conta in questa protesta è solo il proprio corpo, la propria scelta, la propria vita, la propria libertà: una libertà che sembra intrisa di quel paradigma proprietario assoluto ed inviolabile, da difendere a tutti i costi e oltre qualunque altro interesse

meritevole di tutela. Un movimento bipartisan in cui ciò che conta è la difesa di un individuo sovrano, che rivendica la libertà individuale come assoluto categorico e che assume la critica alla gestione securitaria della popolazione cambiandola di segno, complici anche celebri filosofi e studiosi di sinistra, che dopo aver teorizzato lo stato di eccezione permanente, si prestano ad un uso mistificato delle loro stesse teorie, autoaffermandosi e accreditandosi come i cattivi maestri di una contro rivoluzione che avanza. Un movimento essenzialmente reazionario e francamente inscindibile, se non per poche e non dirimenti eccezioni, da quello no-vax, no-mask, complottista e negazionista. Non è un caso che questo movimento, per cui non esistono né anziani, né poveri, né fragili, né morti, sia intriso, ad ogni latitudine, non solo di santoni che spacciano rimedi inefficaci o da guru che predicano le peggiori fake-news, ma anche di militanti neofascisti di tutte le formazioni di estrema destra occidentali. Sono proprio quest’ultime che, trovando in questa reazione il proprio habitat naturale, che peraltro hanno contribuito nei mesi a costruire alimentando un mix di paura e complotto, a fomentare queste proteste, a delimitarne l’ordine del discorso, fungendo da avanguardia organizzata egemone di questo movimento.

In Italia, a Roma, il movimento è stato per mesi guidato da Forza Nuova. La manifestazione nazionale del 9 ottobre, culminata nel celebre assalto alla CGIL, è partita dopo l’arringa di Giuliano Castellino, acclamato da una folla di migliaia di persone, in una Piazza del Popolo gremita. E oggi, con il governo italiano che estende l’obbligo vaccinale, l’incombenza della terza dose e le ulteriori restrizioni funzionali allo shopping natalizio, super pass incluso, se la dirigenza di Forza Nuova è inibita dalle misure repressive seguite alle manifestazioni di ottobre, è Casapound a tentare di conquistare l’egemonia del movimento italiano no green pass. In Germania invece è la formazione di estrema destra Freien Sachsen ad aver organizzato oltre 50 mobilitazioni no vax e contro la dittatura sanitaria in altrettante città tedesche. Florian Philippot, Nicolas Dupont-Aignan e François Asselineau, esponenti del sovranismo francese, sono molto attivi sui social network e su tv di area, contribuendo alla diffusione di fake news e di quelle manifestazioni perfino culminate in assalti agli hub vaccinali. In Olanda le proteste che hanno letteralmente incendiato Rotterdam e altre città sono trainate da un tale Baudet, controverso politico nazionalista e complottista locale.

Francamente non vediamo del potenziale in questo movimento, neanche a fronte di genuine velleità volontaristiche. Non crediamo che il problema sia solo l’egemonia fascista di questi movimenti da provare a contendere, ma la loro stessa essenza ultra-liberista ed egocentrica, matrice condivisa dallo stesso Stato oppressore che si pretende di combattere. Un movimento non da attraversare ma, ad averne la forza, da annichilire. Con questo non vogliamo dire che siamo favorevoli al green pass, che non lo riteniamo l’ennesima misura degna della società del controllo, né che ci sembra uno strumento utile ai fini del contenimento del contagio. Che sia uno strumento di soft law, espressione di uno stato che si fa stato amministrativo e di un governo che pretende di gestire la pandemia in chiave deresponsabilizzata, addossando ogni sua responsabilità al singolo individuo ci è chiaro. Ma queste proteste in fondo sono espressione di un’antropologia e di un privilegio tutto occidentale, mentre il sud di questo mondo scende in piazza per rivendicare il vaccino gratuito per tutti. Noi non siamo medici né scienziati. Non siamo esperti epidemiologi né immunologi. Non abbiamo specifiche formazioni in biologia né in farmacologia. Sappiamo che la scienza non è neutra, che è uno strumento di potere, sappiamo che la ricerca è vincolata e che la salute è diventata una merce. Sappiamo anche e soprattutto che i vaccini, dal ruolo storicamente liberatorio, che nel giro di pochi decenni hanno trasformato piaghe millenarie, malattie terribili ed endemiche in semplici voci enciclopediche, sono stati appaltati a multinazionali private, resi oggetto di speculazione, oggetto di brevetti commerciali, ennesima espressione della sacralità di una proprietà intellettuale privata assoluta e incomprimibile, neppure in nome di un interesse generale quale la salute pubblica.

Ma per dirla con una frase di Jean-Luc Nancy, che un amico ci ha fatto conoscere, siamo convinti, in questo momento storico più che mai che: «io sono ‘io’ (cioè esisto) solo se posso dire ‘noi’». Ma lo posso dire ed esistere, quindi essere libero, solamente se sono disposto a combattere chi nega quella possibilità.

4/L/IMMUNITÀ

«Se l’obbedienza è dignità, fortezza, La libertà una forma di disciplina, Rassomiglia all’ingenuità la saggezza» CCCP, Depressione caspica

Questo movimento e, più in generale, questa epoca pandemica, ci restituiscono con ancora più forza il dato della totale egemonia di una società iperindividualista ed atomizzata. La totale assenza di una percezione collettiva, di una verità comune, di un’appartenenza condivisa, di un Noi. Assenza che pervade i quartieri nelle città, i luoghi di lavoro, la comunità scientifica e accademica, le aule delle scuole, i movimenti sociali, la società tutta e, dunque, essendone parte e non godendo di troppa immunità, anche i nostri ambienti militanti. È un Noi che manca come forma di resistenza a questa emergenza e alla sua gestione, quel noi che emergeva nel movimento globale dei primi anni duemila, e poi in quei tanti noi delle resistenze diffuse a livello locale. È un Noi che abbiamo disperso nel tempo, dandolo forse per scontato, forse credendoci troppo spesso diversi dal contesto che abitiamo, forse immuni ai processi generali. La perdita di un noi ha eroso anche il senso di libertà, il nostro come quello della società tutta, che non fa più riferimento a una libertà collettiva, a quella di una comunità, ma si è ridotta a quella egocentrica dell’Io sovrano. Dobbiamo interrogarci su dove e cosa abbiamo sbagliato, sui limiti che abbiamo scontato e su quelli che tuttora scontiamo. L’epidemia ha ulteriormente messo a dura prova le relazioni sociali, i rapporti umani, ed è proprio dal recupero di questi che si deve ripartire. Dobbiamo ripartire dalla ricostruzione di un Noi. Il vangelo thatcheriano insegna che esiste solo l’individuo e non la società, a esso dobbiamo contrapporre l’eresia della solidarietà. Costruire legami solidali, di reciproca fiducia, di mutuo appoggio.

Costruire comunità resistenti, in cui ciascuno può mettere in comune il proprio sé, condividendo le sue specifiche inclinazioni e capacità a favore della collettività, conquistando così la propria libertà in un noi e non in contrapposizione al noi.

Delle comunità che siano autonome ma non aliene, capaci di soddisfare autonomamente i propri bisogni, di risignificarli, mantenendo il contatto con la realtà e con i territori che le circondano. Non comunità autoreferenziali ma che restino sempre leggibili, comprensibili ed attraversabili. Comunità capaci di modificare al proprio interno il paradigma delle relazioni sociali, basate su rapporti di mutuo aiuto, solidarietà e condivisione di saperi. Comunità capaci di adattarsi al rapido mutamento del contesto in cui agiscono senza perpetrare pericolose forme di affezione per i propri strumenti, pratiche e forme organizzative che rischino di intrappolarle in sterili meccanismi di conservazione dell’esistente. Delle comunità resistenti che non hanno il proprio centro in loro stesse, non esclusive e ghettizzanti, ma che, al contrario sappiano proiettarsi verso l’esterno, verso altre esperienze con cui collaborare, federarsi e da cui prendere spunto. Comunità che sappiano mettersi in relazione tra loro, perché senza la capacità di risuonare insieme non c’è possibilità di resistere, di liberarsi, ma forse neanche di sopravvivere.

Perché la liberazione è sempre un processo collettivo, altrimenti è un privilegio. Perché la tutela della vita e della salute di ognuno passa inevitabilmente per la tutela della vita e della salute degli altri e perché, soprattutto, non si tratta meramente di una questione di vita o di salute di ciascuno, ma della cura e della libertà della comunità tutta.

Roma, Gennaio 2022

Azione Antifascista Roma Est

 

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