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[Sulla prima linea] Il punto di vista di un’epidemiologa

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Il punto di vista di chi, nel campo dell’epidemiologia sociale, ha lavorato e sta continuando ad intervenire per arginare la pandemia Covid-19 ci pare molto interessante. I motivi sono essenzialmente due: primo, perché lo sguardo causa-effetto proposto dai media mainstream è sostituito da una visione processuale in cui si cerca di comprendere come agire a supporto della salute personale e collettiva; secondo – questione legata e dipendente al primo aspetto – perché tale prospettiva rivela tutti gli elementi critici della condizione sociale, economica e politica pre-pandemia, ossia le mancanze strutturali e decisionali, le scelte inopportune e pericolose prese fino a questo punto. Ringraziamo, quindi, Luisa Mondo, epidemiologa in Piemonte, per aver rilasciato l’intervista che tocca anche due tematiche importanti: quella delle donne incinta positive e delle persone che, costrette a casa durante la pandemia, sono stato oggetto di violenza.

 

Prima puntata: Intervista dalla terapia intensiva

Seconda puntata: «Ci sono una serie di limiti e problemi che questo sistema ha sempre avuto»

Terza puntata: Voci dalla corsia, tampone sì tampone no

Quarta puntata: Cosa vuol dire lavorare in una USCA?

Quinta puntata: «Una medicina più medicalizzata e molto meno umana»

 

Quanti anni hai?
53.

Da quanto tempo lavori in questo settore?
Dal 1993.

Che tipo di inquadramento hai?
Sono dirigente medico a tempo indeterminato, dal 1998.

Il tuo lavoro in cosa consiste?
Sono una epidemiologa.

Cosa è un’epidemiologa?

Adesso tutti lo dicono, ma nessuno lo sa. Spesso è un medico, ma non è detto… ci sono sociologi, statistici, persone laureate in scienze internazionali che interpretano i fenomeni. Per quanto riguarda gli epidemiologi medici sono persone che curano delle persone che non sai che le stai curando e che non ti hanno chiesto di curarle. Noi analizziamo i flussi correnti, tipo le schede degli stati di nascita o di morte, i certificati di assistenza al parto, le dimissioni ospedaliere, qualsiasi cosa che abbia a che fare con la salute, le prescrizioni farmaceutiche… li analizziamo per età, per genere, per luogo di residenza, per i luoghi di ricovero o per tipologia di lavoro ed evidenziamo delle criticità. Poi li portiamo a dei decisori. Per dire “oh, guarda che qui, nel tuo ospedale, si muore troppo, si fanno troppi cesarei, questa ditta fa schifo e ci sono un sacco di tumori”, quindi, ecco, è un lavoro sottotraccia, tra le righe, che, però, cerca di leggere la salute della popolazione.

Che esperienza hai con il Covid-19?

Inizialmente, abbiamo avuto la reazione che hanno avuto tutti. Abbiamo detto “sarà un’influenza, un po’ più grave”. Le prime indicazioni che ci chiedevano da fuori… per esempio ditte che mandavano persone a lavorare in Cina, erano: “ok, fate attenzione, prendete tutte le cautele del caso”. I primissimi giorni – quindi parliamo delle vacanze di Natale – non era ancora chiaro, ovviamente, quale poteva essere la portata della cosa che stava accadendo. E poi all’improvviso, ci siamo tutti resi conto che la cosa stava esplodendo, e non era immaginabile che l’Italia fosse un focolaio così esteso. Quindi, sulla carta eravamo tutti preparati, tutti noi abbiamo studiato il contenimento, però nella pratica eravamo tutti molto in difficoltà. E quindi abbiamo cercato di coordinarci con gli infettivologi. E poi di dare nel nostro piccolo campo, un occhio all’epidemiologia pratica. Per esempio, io mi occupo delle gestanti positive, con un bellissimo progetto dell’Istituto Superiore della Sanità che servirà a capire quale correlazione e peso può aver avuto il virus sulle gravidanze. Banalmente – ma non proprio – sulle gravidanze molto precoci: se la mamma è malata, se il virus possa avere un effetto dannoso sul feto, o se nelle donne che partoriscono ci sono già gli anticorpi nel latte materno, nel siero cordonale. Quindi, cose molto tecniche e molto interessanti. Invece, dal punto di vista sociale, ci stiamo occupando della parte sui maltrattamenti a casa, in regime di contenimento, non solo, purtroppo, di uomini su donne – che è cosa nota – ma anche di altro tipo: badanti su anziani, genitori sui bambini… c’è tutta una serie di altri maltrattamenti che sfuggono di più al normale setaccio, ma ci sono. Poi ci sono dei problemi d’alimentazione legati ai bambini in famiglie molto povere, dove l’unico pasto garantito era quello della scuola… ma i bambini non vanno più a scuola da Carnevale. Quindi c’è tutta una serie di problemi legati al fatto che i pediatri stanno iniziando a dire “i bambini hanno fame”. Cioè, è una cosa a cui non si pensava, e quindi è necessario riflettere su come far avere i pacchi cibo, come fare a contattare le famiglie, a spiegare come approvvigionarsi degli alimenti sicuri anche per i bambini. Complicato, è molto complicato anche emotivamente.

Quali sono i settori che sono più coinvolti, che stanno accusando di più questa crisi?
In ospedale, tutti i reparti stanno accusando crisi. Ci sono quelli impegnati nelle urgenze che sono al collasso. Ma non da meno è pensare a cosa saranno le agende, per esempio, delle visite normali o delle prevenzioni oncologiche, o degli interventi chirurgici che erano programmati e sono slittati a data da definire. Le liste di attesa sono già sature in condizioni normali, adesso immaginiamo che magari, si spera, tra due o tre mesi torneremo a regime. Tutta questa gente dove la mettiamo? Ci sono già i prenotati, ma questi erano prenotati prima. Quindi è necessario pensare a un sistema già al collasso, in cui ci saranno difficoltà enormi a fare le visite di controllo, a rimettere in calendario degli interventi che erano, appunto, programmati. Questo fa veramente paura. Sono andate avanti qui in Piemonte – ma non so sinceramente le altre regioni – le campagne vaccinali. Tutto il resto è sospeso. E tutto va recuperato. Le agende sono già piene. Quindi, c’è lo stress della fase acuta, ma c’è anche la preoccupazione per una ripresa che deve essere adeguata per tutti, anche se al momento non ci sono strumenti adeguati. E dal punto di vista dell’estrazione sociale fuori dall’ospedale, quali sono le categorie, le persone, i soggetti che stanno accusando di più questa crisi?
Indubbiamente i senza fissa dimora, perché si sta affrontando un grosso problema: alcune delle mense hanno chiuso; nei dormitori è molto rischioso stare perché ovviamente le distanze sono quelle che sono. Fa ancora freddo, per cui le persone non possono dormire nei parchi, i quali, per altro, sono chiusi (ndr. L’intervista è stata realizzata un paio di settimane fa). Se non hai nulla da perdere, puoi anche dormire nel parco, ma se fa freddo non ci puoi stare. Sicuramente, ci sono delle categorie per le quali il “resto a casa” non è possibile, perché la casa non c’è. Poi ci sono altre categorie di cui noi non sappiamo niente, stiamo cercando di capire ma abbiamo grandi difficoltà. Per esempio, coloro che vendono le rose nei ristoranti dove sono? I lavavetri dove sono? I posteggiatori dove sono? Chi li sta aiutando? Cosa sta succedendo? Non ne abbiamo la minima idea. Io mi occupo di salute dei migranti da sempre. Quelli che stanno male, che hanno malattie croniche, che sono seguiti continuano ad essere seguiti, ma degli altri, in questo momento, non ce n’è traccia. Speriamo che stiano tutti bene, in questo momento. Che non ci sia qualcuno che abbia la malattia e non abbia paura di andare a farsi visitare, che tutti abbiano da mangiare e siano ospiti da qualcuno, ma non lo sappiamo…
E chiaramente c’è un pregresso, ossia la situazione in cui vivevano queste persone prima del Covid-19. Chi era già in difficoltà economica, o era in una posizione difficile dal punto di vista della cittadinanza, probabilmente, con la pandemia, la situazione si è ulteriormente aggravata. Ugualmente, stiamo cercando di fare attenzione con il garante per quanto riguarda le condizioni di detenzione, quindi sia chi è in carcere, sia chi è nel CPR. La direzione del CPR sta facendo dei filtri, non tanto per chi è detenuto ma per il personale di vigilanza, per tracciare tutta la dinamica, perché chi entra non porti la malattia dentro. È una cosa, quella, molto complessa. Immaginati se una persona portasse l’infezione dentro le mura… e come questo luogo tanti altri, come le comunità per minori, le comunità per donne vittime di tratta… ci sono dei luoghi che richiedono una grandissima attenzione, ma veramente grandissima.Prima dicevi che sulla carta l’epidemia era qualcosa che era stato studiato, ma che non ci si aspettava una situazione del genere.

C’è stato un dibattito sullo sviluppo del Covid-19?
Sì, sicuramente, il modo scientifico e culturale si è diviso tra chi ha voluto capire le cause e chi si è messo a cercare di arginare il contagio… e chi sta studiando gli effetti. Quindi le ramificazioni sono molte. Per le cause, stiamo avendo un grande aiuto dagli ambientalisti, da chi studia l’impatto degli allevamenti animali, di certi tipi di mercati, di certi tipi di inquinamento. Quindi, non è più una scienza prettamente medica, ma chiama in causa tutta una serie di professionalità che da tanto si occupano di questo argomento. E poi, dal punto di vista del contagio, è stato un lavoro grande, anche di matematici, per capire l’R0, la velocità del contagio, la questione del contenimento, delle mascherine, dei guanti o non guanti, l’isolamento o il non isolamento, cercando di comprendere in termini teorici – perché noi non abbiamo il tracciamento dei contatti – che cosa fare. E poi ci sono un sacco di persone che si stanno interrogando sul dopo. Se è vero che siamo al plateau, tra un po’ ci sarà un dopo. E questo dopo è qualcosa che chiamerà tutti a fare delle iniziative importanti.Sembra che quanto accadutonnon fosse prevedibile, ma neppure ciò che succederà, per certi versi, non è immaginabile. È così, o mi sbaglio?
Noi abbiamo dei modelli di ripresa che potrebbero essere, all’incirca, quelli del dopoguerra. Ma chiaramente, al tempo, non c’era la tecnologia di adesso. Quindi quanto stiamo cercando di capire, in maniera molto umana, è se questa infezione dia una immunità, se l’immunità sia permanente e se, invece, ci sia la possibilità di avere un vaccino e quanta parte della popolazione non immune potrebbe accettare di vaccinarsi. Quanto più avremo la possibilità di avere una popolazione non più infettabile, tanto più potremo muoverci liberamente. Dipende, quindi, tantissimo da qualcosa che ancora non sappiamo, perché ora abbiamo i primi guariti e stiamo valutando se sono o se non sono immuni, quindi siamo ancora parecchio indietro, ma proprio perché è uno studio ecologico dal vivo, come si chiama professionalmente.

E, invece, qual è la relazione tra il lavoro che stai facendo e la parte politica: secondo te c’è stata una sottovalutazione?

C’erano stati dei tagli del passato che hanno sicuramente avuto delle ripercussioni. C’è stato un decentramento rispetto allo spazio dato ai privati in passato. Sul fatto che mancassero dei posti in rianimazione, oggettivamente era imprevedibile che ci fosse bisogno di così tanti posti. E sarebbe stato da pazzi avere delle rianimazioni pronte ma vuote. Quindi, da un lato è chiaro che tutti vorremmo avere tantissimi posti in rianimazione, ma allo stesso tempo è chiaro che non erano necessari, prima, tutti questi posti. La risposta, dal punto di vista sanitario, è stata ottima. Togliamo “il teatro” dell’Ospedale di Milano Fiera, ma tutto il resto è stato molto veloce. Ci vorrebbe, secondo me e secondo noi, una buona attenzione sul dopo, sulle convalescenze, sulle persone guarite che vengono dimesse in attesa del tampone di controllo. Non abbiamo molti posti dove collocarli, e quindi tornano a casa in affidamento fiduciario. E lo stesso vale per quelli che erano positivi e asintomatici, che sono tornati a casa. La colpa, in questo caso, è nostra, che non abbiamo insegnato alle persone ad essere realmente responsabili. Questo vale per i medici, ma anche per i politici. Siamo un Paese dove, nonostante siano portate tonnellate di evidenze che dicano che se vai in moto col casco hai buona possibilità di salvarti, e se metti le cinture idem, e se guidi ubriaco hai buona probabilità di farti male, ma soprattutto di fare male ad altri, bisogna arrivare a mettere delle leggi per rendere questi comportamenti obbligatori. Ti sto facendo un favore, ti sto dicendo che in questo modo ti salvi la vita, dovresti essere solo contento di averlo saputo e di agire di tua spontanea volontà, no? E invece siamo un Paese che viaggia su altre norme. E quindi è assurda questa roba di perdere tutto questo tempo a mettere pattuglie a vigilare che le persone non vadano in giro. Ma le pattuglie dovrebbero servire per portare da mangiare agli anziani; usiamole a dare una mano a chi è in quarantena e non può andare a fare la spesa. Invece, per colpa di una mentalità che né i medici, né i politici, né in generale la società civile è riuscita a sviluppare nelle persone, di nuovo, perdiamo tempo a vigilare, anziché far rendere utili le forze dell’ordine senza mettersi a fare la multa al tizio al parco, che mi fa veramente girare le scatole…Come valuti i protocolli sicurezza per l’emergenza Covid-19?
Eh, fatta la legge, trovato l’inganno, come sempre. La gente ha trovato la scura del cane, del bambino, di piccole commissioni – che ci sta, eh – anche perché io parlo da una casa in cui ho una stanza, ho pure l’alibi del cane. E, invece, chi sta in 40 metri quadri scoppia. Però è anche vero che molta gente, invece, è uscita con i pretesti più vari. E il virus è invisibile, quindi non ti rendi conto che dove hai toccato la maniglia, lì, c’è la possibilità di contagio. I meccanismi del contagio non appaiono chiari per cui ciascuno pensa “non tocca a me” e “non sono io l’untore”, “non è pericoloso per me”. I protocolli e le linee guida non sono stati chiari, le voci sono state tante: si può uscire; no, non si può uscire; sì, si può uscire col permesso; qui sì, là no. Tutto doveva essere molto più netto. E ci sono state delle incongruenze di comunicazione. Si è lasciato parecchio al libero arbitrio e questo non ci ha fatto bene.

Dal punto di vista emotivo come hai approcciato l’emergenza?
Personalmente, ho optato per il lavoro da casa. Smart working, niente smart… Nel senso che i primi giorni c’è stato un quantitativo di ore di lavoro pazzesco perché abbiamo messo in piedi tutto il protocollo per le gestanti positive, abbiamo iniziato a seguire la parte della violenza, la parte dell’infanzia. In realtà, è stato un lavoro molto intenso. Io sono una che ama lavorare nella pratica, con le mani… ho lavorato nella guerra in Bosnia, facevo la volontaria al presidio in montagna a Bardonecchia e poi a Oulx. E quindi la scelta di recludermi, non ammalarmi –  perché sono portatrice di una malattia cronica autoimmune grave e quindi non potevo ammalarmi – ha creato in me molta frustrazione. Nei giorni dopo, mi sono resa conto che potevo essere utile anche di qui: portare avanti il lavoro perché i medici avessero i meccanismi di protezione adeguati, per aiutare a capire chi doveva essere ospedalizzato o meno, per creare una rete per le quarantene. In realtà, giorno per giorno, man mano che si chiariva chi faceva cosa, come, e chi era il tuo interlocutore per i vari argomenti, mi sono sentita utile lo stesso. Chiaro è che noi siamo abituati a pensare all’onda lunga. E quindi, la grande paura, di tutti noi, era di capire il dopo. Ossia, cosa facciamo? E se, invece, il virus muta e poi ricomincia? E se la gente pensa che siamo al plateau e riprende a uscire e riparte la seconda ondata come in Cina? Quindi, è chiaro che il pensiero era sempre lì. Giorno e notte pensi a quello. La vita è completamente cambiata. Mi racconteresti qualcosa di più sull’azione che state facendo contro la violenza?
Stanno telefonando, ma con difficoltà. C’è questa situazione che le donne non escono e i loro persecutori neppure. Sono crollate le chiamate per stalking, ovviamente. Il problema grosso sono le donne che stavano per andarsene di casa e sono rimaste bloccate in casa, con magari dei minori che assistono alle violenze. Sono periodi, comunque, esplosivi. Quello che vorremmo è che le donne tengano a mente il numero antiviolenza, la possibilità di scappare. Speriamo che la pandemia abbia dato il colpo di grazia a delle situazioni tragiche e che dopo questa esperienza, per forza, dovranno intervenire i servizi e soccorrere.

Come potrebbe cambiare il sistema socio-sanitario dopo il covid-19?
La domanda è cambierà? Io verrei che i medici di medicina generale e i pediatri ricevessero il loro adeguato riconoscimento perché sono stati anche loro utili, importanti e buttati in prima linea e anche senza i dispositivi idonei in molti casi. Poi, sicuramente dovremo imparare a cercare delle fonti certe e congruenti. Ci sarà la necessità di emergere per moltissime persone che non hanno lavorato o che prima lavoravano in nero: bisognerà pensare a degli ammortizzatori sociali. Noi epidemiologi, noi che lavoriamo nel campo dell’epidemiologia sociale, sappiamo bene che il più grande svantaggio di salute è essere in una classe sociale più svantaggiata, vivere in una zona più povera, avere un livello basso di studio. E quindi, forse, la grande lezione di questa esperienza dovrebbe essere quella di dare a tutti una opportunità. Se c’è una manovra economica, facciamo sì che l’aiuto non si esaurisca in un “una tantum”, ma che possiamo diventare un Paese che si ricorda davvero di tutti.

Dal punto di vista psicologico ci saranno delle ricadute?
Assolutamente. Tutti i sanitari – medici, ostetriche, infermieri, oss, le persone delle pulizie che lavorano negli ospedali, chi portava i pasti, chi si occupa dei funerali, chiunque… avrà bisogno di un debriefing, di un momento di allentamento perché è terribile… indubbiamente, il senso di impotenza, leggere la lista dei morti… poi ci sarà un momento critico, perché ci saranno processi, perché dei capri espiatori dovranno sicuramente essere cercati, le case di riposo – ecco, c’è ancora qualcuno che li chiama ancora ospizi…
Dal punto di vista psicologico della popolazione generale, io vorrei che fosse come nel dopoguerra: una grande festa, con la voglia di abbracciarsi, di ritrovarsi, di fare cose, di apprezzare anche ciò che era dato per scontato. Credo questa gioia potrebbe essere il modo per dimenticare. Non mi piace usare la parola resilienza in questo caso perché dovrebbe essere proprio un’altra cosa, una rinascita, una riapertura al mondo. Come quando fai un lungo digiuno per qualsiasi motivo – che tu debba fare un’ecografia o un intervento – e poi rimangi e tutto ha nuovamente un senso. Ti rompi la gamba e poi ricammini… ecco, una rinascita, coglierla come un’occasione di rinascita. Non avremo più scuse: “scusa sto guidando”, oppure “scusa sono in riunione”. Impareremo ad essere tutti un po’ più onesti. Mi piacerebbe.

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