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Obama, Hu e il convitato di pietra

Un incontro tutto sommato interlocutorio quello di Obama con il presidente cinese Hu Jintao in visita di stato a Washington, anche se non privo di segnali interessanti o, a seconda, inquietanti.

Interlocutorio perchè uno dei due, Obama, è un’anatra zoppa dopo il catastrofico risultato delle elezioni di midterm, costretto a fronteggiare un Congresso ostile e nonostante le concessioni generose per la business community. L’altro, Hu,si avvia a essere sostituito il prossimo anno con un cambio della guardia già definito ma dai contorni da decifrare. Nessun accordo eclatante, allora, e tanto meno un qualche passo significativo verso la definizione di un quadro chiaro e stabile dei rapporti reciproci. Una lacuna destinata a ripercuotersi sugli assetti globali e sul decorso della crisi, come lamentava qualche giorno fa Kissinger in un articolo dal titolo allusivo Evitare una guerra fredda tra Stati Uniti e Cina. La visita di stato ha comunque sia offerto alcuni segnali interessanti.

Innanzitutto, vi si è arrivati dopo un anno di tensioni sul piano diplomatico-militare: vendita di armi statunitensi a Taiwan, sanzioni statunitensi all’Iran, incontro Obama-Dalai Lama, crisi coreana e accuse a Pechino di esercitare scarse pressioni su Pyongyang, quasi scontro diplomatico sino-giapponese nel Mar Giallo, nobel al “dissidente” Liu Xiaobao, progressi militari cinesi, e in generale la rinnovata offensiva diplomatica dell’amministrazione Obama, dal Vietnam all’India, volta a un neanche tanto velato tentativo di accerchiamento della potenza cinese. Sul piano economico, poi, ripetute sono state le richieste statunitensi per una rivalutazione dello yuan, fino alla minaccia di contromisure protezionistiche, e per un riequilibrio dell’interscambio commerciale.

Le percezioni reciproche, insomma, sono improntate a crescente sospettosità tra le due èlites, con quella cinese che teme una possibile politica di contenimento da parte statunitense, e Washington che sottolinea i pericoli insiti nell’ascesa pacifica del Dragone cinese stigmatizzandone la mancanza di “responsabilità” (ovvero, accettazione della gerarchia e delle regole del gioco statunitensi). Questo mentre i due paesi cono costretti a collaborare pena il precipitare rovinoso della crisi globale finora evitato appunto da questo cosiddetto G2 informale.

Non è un caso allora se il viaggio di Hu è stato preceduto da una serie di discorsi e prese di posizione di alte figure dell’amministrazione statunitense – Clinton, Gates, Geithner – “inusualmente franche”, come scrive il Council on Foreign Relations, e dal contenuto non propriamente cordiale. Pechino da parte sua teme che la politica monetaria rilassata della Federal Reserve non solo causi una fiammata speculativa e inflazionistica alla propria economia ma rappresenti di fatto una svalutazione del dollaro con perdita secca per le proprie riserve denominate nella moneta verde. Hu ha espresso questa preoccupazione, seppur con cautela, e ha definito il sistema monetario internazionale dominato dal dollaro un “prodotto del passato“.

La visita stessa ha inoltre confermato che i ruoli tra le due parti si stanno invertendo, in certa misura, soprattutto rispetto al primo anno dell’amministrazione Obama allorché il segretario di stato e poi il presidente, smarriti per le conseguenze della crisi, erano corsi a Pechino in cerca di sostegno. Ora gli statunitensi si sono mostrati nuovamente determinati e aggressivi, con Hu Jintao piuttosto sulla difensiva (il che non mancherà di sollevargli critiche all’interno, in un dibattito ben altrimenti vivace di quanto lo si immagina da noi). E’ quanto ha scritto a chiare lettere il New York Times: “Mr. Obama ha tenuto un comportamento eccessivamente deferente con Mr. Hu nei loro incontri a Pechino. Questa settimana dovrà far meglio” (leggi articolo NYT). L’ostilità raggelante manifestata a Hu dal Congresso in perfetto spirito bipartizan parla poi da sè. Senza dimenticare che la campagna di midterm ha mostrato toni decisamente anti-cinesi su entrambi i fronti politici.

Cosa c’è dietro? In estrema sintesi, negli States il meccanismo della crescita dei profitti via debito, a più di due anni dall’esplosione della bolla subprime e in assenza di una ripresa economica, ha ripreso a marciare a pieno ritmo ma riversandosi all’esterno grazie alle enormi iniezioni di liquidità a tasso zero della Fed. Questa politica monetaria aggressiva volta a stornare la crisi sugli altri è indispensabile per Washington per evitare o almeno dilazionare l’insolvenza di fatto di buona parte del sistema finanziario, pubblico e privato, degli stati e delle municipalità. Ne stanno facendo le spese i debiti sovrani dei paesi europei periferici, ma anche l’Asia orientale e la Cina rischiano di non rimanerne indenni. La manipolazione “creativa” del dollaro resta as usual lo strumento principale per il controllo dei flussi globali di valore. Di contro, Pechino sta sì iniziando a prendere delle prime (timide) contromisure: diversificazione delle riserve, investimenti sui bond europei a supporto dell’euro, transazioni in yuan sulla piazza offshore di Hong Kong, e all’interno misure di raffreddamento delle tensioni speculative immobiliari. Ma non ha armi “pesanti” a disposizione a misura che non è in vista un mutamento sostanziale nel percorso di crescita degli ultimi due decenni legato a esportazioni e debito U.S. I timidissimi accenni a un corso più “socialdemocratico”, anche in rapporto alle lotte operaie della scorsa primavera-estate, restano appunto accenni difficili da misurare in prospettiva.

Per poter proseguire sulla direttrice della crescita economica ed evitare tensioni sociali l’èlite cinese deve così fare buon viso a cattivo gioco (concessioni su sanzioni iraniane, secessione sudanese, Corea del Nord, rivalutazione di fatto della moneta causa inflazione crescente). Almeno finché il gioco non si farà veramente duro. E intanto diviene via via più pressante il problema di cosa farsene dei forzieri ripieni di dollari in via di svalutazione se Wasghinton continuerà a bloccare due condizioni cruciali per un passaggio di fase del capitalismo cinese: l’acquisto di assets pesanti sul mercato statunitense e il trasferimento di alta tecnologia.

Si ripropone, con toni ad oggi attutiti ma in crescendo, l’impasse dell’attuale dis/ordine globale con gli States che svolgono un ruolo sempre più predatorio, la Cina senza alternative forti e con un’attitudine fondamentalmente reattiva e l’Europa in mezzo che abbozza tentativi di autonomizzazione. Ma del resto, nel quadro di una crisi sistemica irrisolta, non è dall’alto che ci aspettiamo alternative…

 

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