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Camminare sul campo minato. Oltre le promesse tradite del Neoliberismo

All’interno della 4 giornate romane di Sfidare il Presente si sono tenuti una serie di dibattiti interessanti, che ci auguriamo possano fornire qualche bussola utile alla costruzione di percorsi di contrapposizione e lotte sociali dentro la crisi. A tal proposito, riportiamo qui di seguito la sbobinatura dell’intervento di Raffaele Sciortino, ospite insieme a George Caffentzis, Davide Caselli e un’ attivista di UIKI Onlus, del tavolo di discussione “Camminare sul campo minato. Oltre le promesse tradite dal Neoliberismo”.

La lucidità e la puntualità dell’intervento di Sciortino pensiamo sia un importante contributo alla discussione per quelle le realtà di compagn* che cercano di dare una lettura politica macro della fase attuale. L’intervento parte dal dato di fatto che il neoliberismo è vivo e vegeto, premettendo però che con “neoliberismo” non si vuol intendere una serie di politiche ma una “fase del capitale”. 
Nel neoliberismo il capitale si ristruttura, si trasforma e ingloba vecchie e nuove istanze di lotta, a partire dall’onda lunga del ’68, in cui il capitale ha saputo sussumere-trasformando istanze di classe e collettive in istanze di “autonomia individuale”. 

Una prima fase della crisi si è chiusa oggi. Essa ha tentato un “salvataggio” capitalistico che non ha avuto alcun effetto duraturo: immissioni di liquidità e misure di austerity prima, scarico della crisi sull’Europa, frammentandola, poi. Da questa incapacità di rilancio economico, nascono forme di protesta massificate (Occupy, Indignados, paesi arabi e USA) capaci di costruire un immaginario di cambiamento pensato però non in termini radicali ma come capitalismo a misura d’uomo. Si chiude oggi questa prima fase di crisi, crisi oggettiva del capitale (con il fallimento delle misure del Quantitative Easing) e crisi soggettiva dei movimenti (con la disastrosa parabola di Syriza e della sua ipotesi di uscita socialdemocratica dalla catastrofe). 
Se il capitale oggi lavora sulla sottrazione, trovando come dicevamo nuove forme di sfruttamento e riorganizzazione sociale, sullo svuotamento in termini di diritti e di messa ai margini di fette di popolazione in eccesso, dal nostro punto di vista dobbiamo valorizzare forme di rifiuto, provare a costruire ambiti di autonomia, forme collettive di comunità in lotta per la riappropriazione, per contrastare l’ascesa di un capitale sempre più cannibale che imposta la sua azione sul ricatto della sopravvivenza.

***

Partirei da questo: gli interventi che mi hanno preceduto ci dicono che il neoliberismo è ancora vivo e vegeto. Premetto subito che però per neoliberismo preferisco intendere non tanto e non solo una serie di politiche, quanto una fase del capitalismo, quella che si è aperta con la reazione capitalistica al lungo ’68. Questo perché intenderlo solo ed esclusivamente come set di politiche porta subito a pensare all’opposizione tra neoliberismo e keynesismo, mentre in realtà il neoliberismo degli ultimi 30-40 anni è uno strano ibrido così come di rapporto Stato-mercato, anche in un certo senso di keynesismo finanziario e monetarismo.

Gli interventi che mi hanno preceduto hanno mostrato quindi in che senso il neoliberismo, comunque lo si voglia intendere, sia vivo e vegeto. Io cercherò, non in contrapposizione ma cercando di approfondire il ragionamento, di far vedere anche e soprattutto le crepe che si stanno aprendo in questo assetto. Mi concentrerò quindi su quelle che sono solo una serie di ipotesi e di pennellate per tratteggiare dei possibili scenari, sia del capitale, sia delle soggettività.

Partirei da quella che può essere la prima ipotesi di cui adesso parlano in molti, anche se in vari sensi, e cioè che potremmo trovarci alla soglia della seconda fase della crisi globale. Probabilmente a vederli poi ex post tra qualche tempo, la vicenda greca di quest’estate e quello che è successo nelle borse asiatiche e in particolare in quelle cinesi potrebbero fare da discrimine o da innesco di questa seconda fase.
Comunque sia, perché è plausibile l’ipotesi che il panorama cambierà e che quindi anche gli assetti neoliberisti cambieranno e forse alla fine non sarà nemmeno più utile parlare di neoliberismo?

Direi per due ragioni che poi alla fine convergono.

Il primo ordine di fattori risiede nel fatto che la risposta capitalistica alla crisi scoppiata nel 2008 con epicentro negli Stati Uniti si è concentrata essenzialmente sull’immissione di una pazzesca liquidità sui mercati finanziari (i cosiddetti quantitative easing, che poi sono una serie di bail out prolungati), insieme ovviamente alle misure di austerity che hanno accompagnato questo spostamento di risorse. Tutto ciò non ha funzionato. Questo è stato ammesso anche dalla Federal Reserve quando la scorsa settimana ha posposto l’aumento dei tassi di interesse. Certo, ha dato la responsabilità a quanto è successo in Cina e ai vari rischi connessi, ma ormai è abbastanza evidente, si parla abbastanza esplicitamente del fatto che questa liquidità immessa non ha rilanciato gli investimenti, non ha risollevato la produttività e quindi la profittabilità, non ha innescato cluster di innovazioni adeguate. Insomma, non ha rilanciato l’accumulazione capitalistica e questo è il problema centrale.
Non si tratta solo di una questione economica, bensì è qualcosa di più, perché le risposte date finora non hanno rafforzato quelli che sono i due pilastri qualitativi della fase neoliberista del capitalismo degli ultimi 30-40 anni. Il primo pilastro era quello per cui, detto in una battuta, la globalizzazione – allargando il mercato mondiale permettendone l’accesso ai paesi del Sud del mondo e soprattutto alla Cina, prima esclusi e sottoposti al dominio neocoloniale – avrebbe eliminato le asimmetrie a favore del gruppo più forte e dunque la caratteristica imperialista del capitalismo, cioè il prelievo da parte dell’economia occidentale, in primis degli USA, sul resto del mondo. Questa promessa non è stata solo ideologica: la globalizzazione, per quanto non abbia assolutamente parificato il mondo, se pensiamo a paesi come la Cina ha però permesso l’accesso al mercato mondiale, con le conseguenze che poi vedremo, ma con uno sviluppo che una Cina auto-isolata non avrebbe mai potuto fare; dunque non si tratta di mera ideologia. E questo lo si vede anche dal fatto che la tematica dell’imperialismo è scomparsa dal vocabolario della sinistra, quindi c’è stato un effetto forte di egemonia del discorso neoliberista.

Poi c’è il secondo pilastro che è quello rivolto alle soggettività, al proletariato, che era quello dell’“economia della promessa”, cioè di rispondere al lungo ‘68 e alla richiesta di autonomia che è venuta da quei movimenti (sia in occidente, sia nelle lotte anti-coloniali) sussumendo, inglobando, trasformando le domande portate avanti da istanze collettive in realizzazione di autonomie individuali, di un’autonomia senza classe.

 

Su entrambi questi pilastri, che ripeto non sono solo ideologici, ma hanno una loro materialità pesante e profondissima che è entrata dentro le menti e i corpi e ed ha prodotto l’individualizzazione – la risposta capitalistica alla crisi del 2008 se non ha fatto vacillare questi pilastri ha comunque aperto delle crepe in entrambi.
Quello che invece ha funzionato – e questo è da mettere bene sotto la lente d’ingrandimento – è stata l’operazione di scarico della crisi da parte degli Stati Uniti su tutti gli altri soggetti mondiali.

Se guardiamo infatti a come ci viene raccontata la crisi, è evidente. Adesso ne staremmo uscendo, l’ha detto anche il capo del Bundestag, ma pensiamo a come ci hanno raccontato la crisi e la sua dinamica: Stati Uniti 2008-2009, debito sovrano europeo, poi paesi emergenti appena la Federal Serve nel 2013  ha detto “forse rialziamo i tassi” e poi adesso anche la Cina. Ebbene, la sequenza ha senso perché rivela la dinamica di scarico della crisi. Anche questa non è mera narrazione, tant’è che se noi vediamo cos’è successo dal 2008-2009 in poi, e guardiamo il panorama globale, vediamo l’estrema difficoltà in cui versa l’Europa. E qui mi spiace per chi è tsiprista a oltranza, non tanto perché si tratta di mettere in discussione la buona fede di Tsipras o di trattarlo come “traditore” (de che?!), ma nel senso che attestarsi su questo livello vorrebbe dire attestarsi ancora sull’ipotesi di un’Europa come terreno potenziale di ricomposizione e di lotta. Ma qui siamo in un ritardo di fase pazzesco, non si vede che l’Europa come soggetto unitario così come l’abbiamo conosciuta finora è già in fase di scomposizione e ristrutturazione. Qui nessuno si permette di prevederne tempi e modi, non si tratta di questo, ma di vedere in fase di destrutturazione la potenzialità di un soggetto europeo unitario che giochi, se non a pari livello, comunque con certe chances sul mercato globale nei confronti di Usa e Cina: questo per un motivo molto semplice, cioè che molto in questo processo l’Europa avrebbe potuto farlo se la Germania, guida dell’Europa a torto o a ragione, avesse alzato il tiro contro gli Stati Uniti. Per varie ragioni questo non è successo e quindi abbiamo visto prima l’attacco all’euro, ai debiti sovrani e via via l’estrema difficoltà della Germania stessa nel ricentralizzare il discorso europeo. Inoltre gli USA sono geopoliticamente intervenuti nel cuore del rapporto tra Germania ed Est, tra Germania e Russia in Ucraina, e spero che qui non ci sia nessuno tanto ingenuo da pensare che l’ondata di profughi siriani di quest’estate sia spontanea: è il frutto, oltre che ovviamente di una ricerca di “autovalorizzazione” e di fuga dalla guerra, è il frutto di un gioco geopolitico di Turchia e Stati Uniti che rientra nel più generale gioco politico di creare il caos in Medio Oriente nei confronti di e contro l’Europa e la Germania. Così come penso che nessuno creda che la vicenda Volkswagen sia dovuta al greenwashing obamiano, (che nel frattempo va in Alaska a piantare trivelle)…

 

È una guerra commerciale e industriale, episodio di una tensione molto più grande. I risultati di questa operazione di scarico degli Stati Uniti sul resto del mondo lo vediamo nei paesi emergenti. Prendiamo il Brasile – Zibechi nella sua intervista parla delle enormi difficoltà dei governi progressisti in America Latina e in qualche modo dell’esaurirsi di quel ciclo di movimenti e di lotte che ha avuto anche come sbocco i governi progressisti. Questo perché con l’aumento dei tassi e con l’indebitamento che questi paesi hanno avuto entra in crisi la sequenza estrattivismo (a cui sono comunque rimasti legati)-politiche di redistribuzione sociale e quindi entra in crisi la tenuta dei governi “progressisti” stessi. Se prendiamo il Brasile questo sta saltando e quindi si chiude tutto un ciclo, sia per i movimenti, sia soprattutto per i sistemi politici. Non parliamo poi del Medio Oriente, dove è dappertutto il caos, che è uno degli obiettivi della politica statunitense.

Senza entrare in altri particolari, ci sono tre elementi che secondo me vanno nella direzione di riconfigurare profondamente il quadro del capitalismo neoliberista di questi decenni a causa della crisi e degli scontri dentro la crisi:

 

Il primo: sarà cruciale come risponde la Cina, perché ovviamente è interesse del capitalismo cinese diminuire in maniera decisa, secca, il prelievo che l’Occidente e in particolare gli Stati Uniti fanno attraverso il veicolo della finanza e del dollaro, e in particolare attraverso il finanziamento cinese dei Treasury Bill (il debito di stato americano). Si tratterà di vedere in che modo risponderà; questo ovviamente è connesso alle dinamiche di lotta di classe in Cina e bisognerà vedere anche come reagiranno gli Stati Uniti.

Secondo: c’è comunque in atto (certo non se guardiamo il mondo dalla nostra Italietta di Renzi) un ri-orientamento strategico dei soggetti forti dentro la crisi, tenuto conto di quello che non ha funzionato di cui dicevo prima. E questo riorientamento strategico punta sostanzialmente a due grandi obiettivi, cioè alla svalorizzazionedi capitali, purché i capitali siano del concorrente, e contestualmente alla svalorizzazione del lavoro vivo inteso in senso lato.

Insieme a questo lo scontro andrà ad acuirsi sulla necessità, anche per il capitalismo occidentale e per quello statunitense, di riarticolare in modo nuovo (proprio tenuto conto del rapporto sempre più conflittuale con la Cina) il rapporto tra finanza e industria. Quindi la stessa finanziarizzazione dovrà assumere in qualche modo nuovi connotati che tengano conto di questo passaggio di fase, se questa ipotesi vale.

 

Il cambiamento del paesaggio sta avvenendo e io penso ci saranno delle cesure molto forti anche sul versante delle soggettività, dei movimenti, delle reazioni o delle mancate reazioni alla crisi e alle politiche capitalistiche nella crisi. Questi 7-8 anni di crisi non sono riusciti a rilanciare l’economia della promessa nei confronti dei soggetti sociali, anzi l’austerity (termine però inadeguato sul quale si dovrebbe ritornare) ovviamente ha dato indicazione nell’altro senso. Però dobbiamo registrare che dopo una prima fase (quella del 2011-2012, diciamo dalla cosiddetta primavera araba, alla Spagna, a Occupy Wall Street), dove noi tutti avevamo sperato che si innescasse un ciclo o comunque un’onda lunga, qualcosa di virale, dobbiamo prendere atto che l’impatto non è stato questo non solo sul versante capitalistico ma anche sul nostro. Quindi per sovvertire il presente bisogna tenere bene i piedi per terra per capire dove andiamo. In un suo testo, George [Caffenztis] diceva “Non abbiamo visto a OWS le bandiere della politica dei commons”, cioè non è venuta fuori una domanda di massa per una “politica di proposta”, di reazione anti-capitalista. Ci possono essere e ci sono sicuramente diverse risposte per spiegare questa impasse, diversi fattori, io a rischio di banalizzare e semplificare direi che c’è stata finora una convergenza negativa di due tipi di attitudini, prima ancora che di reazioni, questo soprattutto in Occidente (il discorso dovrebbe essere più articolato per altre aree).

C’è cioè in primo luogo chi nella crisi guarda indietro – sto parlando del proletariato in senso lato – e chi invece guarda avanti. Chi guarda indietro, sia come composizione sociale, sia come posizione lavorativa e anche generazionale, è chi ha capito che si tratta di abbassare le pretese e cerca di attaccarsi il più possibile a un residuo di compromesso sociale che in realtà è sempre più eroso e in bilico; fa cioè sue aspettative al ribasso tentando di tenersi a un compromesso socialdemocratico. L’attaccamento all’Europa e all’euro è in gran parte di questo tipo, non c’è nessuna affezione/passione positiva oggi in senso forte. Chi è su questo versante (pensiamo a un certo lavoro dipendente ancora non completamente sballottato dalla precarietà, oppure ai pensionati) dice “teniamoci quello che abbiamo altrimenti il caos è ancora peggio”. Questo permette (guardiamo all’Italia ma non solo) anche la tenuta di quel perverso patto familista tra nuova e vecchia generazione, questa che è costretta a supportare il lavoro gratuito o precario dei giovani.
Sull’altro versante per fortuna c’è chi guarda in avanti o chi ha provato a guardare in avanti e a reagire: la primavera araba e via discorrendo. Il problema e il grosso limite di queste risposte è stato che sostanzialmente le rivendicazioni puntavano alla democratizzazione di piattaforme capitalistiche già date. Pensiamo alla primavera araba: democratizzazione attraverso l’uso meritocratico del proprio capitale umano, una sorta di meritocrazia dell’intelligenza. Non sto dando nessun giudizio negativo o moralistico di questo, sto cercando di prendere atto e di focalizzare potenzialità e limiti di quanto finora abbiamo visto. Ma è evidente che su questa base non è stato possibile – e la primavera araba lo mostra in maniera drammatica: teniamo sempre conto che quando parliamo di ISIS e caos in Medioriente dobbiamo risalire al fallimento delle rivolte arabe, altrimenti non capiamo nulla, cadiamo nel gioco della “lotta al terrorismo”. Il problema è che quel tipo di atteggiamento, materialisticamente fondato e quindi non da giudicare ideologicamente o moralisticamente, non ha potuto sedimentare nulla di collettivo proprio perché rimane ancora all’interno dell’individualizzazione.

Non vorrei tagliare con l’accetta, probabilmente lo sto facendo, il discorso dovrebbe essere molto più sfumato e articolato ma la butto lì anche un po’ come provocazione. E comunque sia in entrambi i casi, soprattutto nel caso delle rivolte o comunque delle reazioni tipo Occupy, qualcosa si è mosso, non è che non abbia avuto effetti. Secondo me l’effetto principale, probabilmente anche qui il discorso andrebbe meglio articolato, nonostante tutto sta nell’aver contribuito alla fine della sinistra. Questo con luci e ombre, non sto dicendo che finiscono la sinistra istituzionale, i suoi valori, le sue coordinate, la sua capacità di mediazione sociale, le sue basi sociali ed elettorali di riferimento e allora la strada è in discesa per noi, assolutamente, la cosa è ben più complicata.
Però se prendiamo alcuni segnali a diversissimo livello vediamo innanzitutto la crisi profondissima dei sindacati (e notate che anche il social unionism negli USA non è in ascesa) e invece l’ascesa con diverse sfumature dei neo-populismi che spesso e volentieri prendono il posto, colmano in qualche modo lacune lasciate vuote dalla sinistra tradizionale. Il fallimento di Syriza è il fallimento dell’ultima espressione generosissima, e legata ovviamente con il ciclo di lotte in Grecia, della sinistra. Perché che cosa c’è più di sinistra del pensare che comunque restiamo in Europa a prescindere perché altrimenti ricadiamo nei nazionalismi e così via? Cosa c’è di più di sinistra del pensare (come ha sedimentato la tradizione del movimento operaio del Novecento) che ci si può ancora salvare assieme, noi e l’Europa, noi e Bruxelles, noi e i tecnocrati, noi e un capitalismo ben regolato e al di fuori di questo c’è il caos? Questo è Sinistra. Guardo ancora, come richiama Zibechi, al movimento Passe Livre in Brasile che si trova senza sinistra dopo la sinistra, e questo addirittura laddove ci sono le esperienze più avanzate di governi progressisti. Per non parlare del fallimento interno di Obama, interno e non esterno: non è riuscito a rivitalizzare e ricostruire dall’interno in senso imperiale quel blocco sociale corrispondente al voto che aveva ricevuto nel 2008. E ancora, e qui ci sarebbe da riflettere, guardate lo spazio che sta prendendo la Chiesa Cattolica nel colmare questi vuoti. Sono tutti segnali di qualcosa di profondo che sta accadendo, una cesura è intervenuta. Anche a livello di sistemi politici: dov’è che in Europa esiste ancora il bipolarismo in senso proprio? Esistono quasi dappertutto partiti della nazione, a partire dalla Germania dove la Merkel ha inglobato e sussunto le istanze sociale democratiche. E potremmo continuare.

Questo, attenzione, non vuol dire che le istanze riformiste e neoriformiste vengano meno, assolutamente, restano gli slogan come la lotta alla corruzione, il merito… del resto la lotta alla corruzione è un classico del populismo nella lotta contro il debito come richiamava George [Caffentzis]. Infoaut ha provato a discuterne un po’, anche se ancora in maniera insufficiente quando venne fuori il fenomeno dei grillini o quello dei cosiddetti forconi ma lo sguardo dovrebbe essere esteso ben al di là dell’Italia. Ciò che sta succedendo in Germania è ad esempio interessante, dove non è in crisi solo la socialdemocrazia ma anche la sinistra extraparlamentare è finita, e ciò che viene di movimento, per esempio contro la guerra in Ucraina, è ambiguo, è un corrispettivo del nostro grillismo ma più spostato a destra, eppure se la prende con gli Stati Uniti. Dovremmo parlare anche di Podemos anche se Podemos dal mio punto di vista purtroppo sta diventando troppo “di sinistra” nel senso detto.

Questa crisi della sinistra non è semplicemente la crisi della sinistra della working class che è stata in un certo senso surrogata e superata dai nuovi movimenti sociali. Il problema è questo: quella crisi della sinistra e delle sue coordinate non ricade in qualche modo anche sull’andare in crisi dei “nuovi movimenti sociali”? Guardiamo come si sono dati dagli anni ‘80 in poi e successivamente il movimento no global: noi non abbiamo assistito alla loro rinascita nella crisi e soprattutto mi sembra che in particolare in Occidente sia saltata la dialettica del rapporto tra movimenti e istituzioni, senza che però noi sappiamo come e che cosa andrà a sostituirlo. Insomma, al di là di questi cenni un po’ confusi dovremmo ovviamente approfondire il discorso.

Siamo allora in un’impasse insuperabile anche su questo versante (speculare a quello capitalistico)? Io credo di no. E credo che ci siano due grandi ordini di fattori che rimetteranno in moto le cose, poi bisogna vedere come andrà, probabilmente assisteremo a  riprese di mobilitazioni ma anche a rischi seri di lotta di tutti contro tutti. Questi due grandi ordini di fattori sono:

La Cina, ritorno su questo e la metto in maniera semplice e anche un po’ meccanica, però… dietro la cosiddetta ristrutturazione del capitalismo cinese (che richiama quel che dicevo prima: alleviare il peso del prelievo imperiale statunitense, sulla Cina e sul plusvalore prodotto dalla working class cinese) ci sta la lotta di classe, cioè la spinta dal basso per ristrutturare questo rapporto e partecipare finalmente – soprattutto da parte della nuova generazione di operai migranti – al benessere prodotto, per la Cina e soprattutto per il mondo occidentale. Quel benessere che ha permesso di abbassare i salari in Occidente, pur in cambio di una quantità di valori d’uso non eccessivamente calata. Questa dinamica di lotta di classe può voler dire in tendenza che si rimettono in discussione i rapporti di subordinazione con l’Occidente e che quindi quel pilastro del neoliberismo che dicevo prima rischia di saltare e di conseguenza il significato della lotta di classe in Cina diventa globale e avrà ripercussioni anche da noi. Dopodiché potremo andare tutti alla crociata dell’Occidente contro i cinesi, proletari compresi, oppure si potranno reinnescare dinamiche di lotta di classe anche qui.

Il secondo grande fattore, a un livello ancora più macro, è – come trend – un passaggio dai movimenti a quella che possiamo provvisoriamente chiamare una “nuova lotta di classe”. Questo è più difficile spiegarlo in poche parole, però mi ricollego a George [Caffentzis] che parlava di crisi di accumulazione, ci sono tendenze alla de-accumulazione vera e propria, in senso capitalistico. Questo porta a due tendenze concomitanti che vanno viste assieme.  La prima: anche in Occidente una gran parte della popolazione diventerà superflua per i bisogni del capitale, quindi ci sarà una popolazione sempre più messa ai margini. Nel mentre, attenzione, salta anche la compensazione capitalisticadel “ti faccio accedere al salario ma in qualche modo accetti l’espropriazione dei commons”. Al tempo stesso ci sarà un approfondimento non solo dei processi di sfruttamento in senso lato ma proprio di lavorizzazione, di industrializzazione del lavoro nella produzione e nella riproduzione. Tutto questo si lega, nei due aspetti, con l’approfondimento dei processi di finanziarizzazione, che è quindi è ben altro che un mero fare denaro con denaro. Quindi andremo incontro anche in Occidente al rimescolamento degli assetti di classe, il cui esito ovviamente non è scontato ma non resterà fermo per sempre come è adesso perché si andrà ad approfondire una disconnessione tra riproduzione sistemica del capitale e riproduzione sociale complessiva. E la riproduzione sistemica del capitale diventerà sempre più distruttiva, cannibalizzerà sempre di più la società.

In questo quadro, sempre che le lotte ripartano, dovremmo fare tesoro della teoria, delle discussioni e delle lotte dei decenni passati, soprattutto del lungo ’68, per riarticolare il rapporto tra teoria e movimento reale. Penso per esempio a tutta la discussione e in qualche modo al contrasto richiamato da George tra prospettiva di rifiuto del lavoro e prospettiva del salario domestico, tra produzione e riproduzione.  Direi che sostanzialmente si tratterà di ricollocare nel nuovo quadro una possibile politica dell’autonomia (ovviamente sarà molto più vasta del significato di quello che è stato negli anni ’70, si andrà oltre l’autonomia dei movimenti) con due grossi nodi. 

Il primo: così come il capitale si appresta a riarticolare il rapporto tra finanza e industria, tra finanza e lavoro, noi dovremmo riarticolare a questo nuovo livello della sussunzione reale il rapporto tra lotte della produzione e lotte della riproduzione, e questo è tutto un lavoro da fare anche solo a livello teorico e politico.

L’altro grande problema, forse “IL” problema, è che nel momento in cui si va destrutturando il rapporto di capitale, cioè la capacità di riprodurre lavoro salariato in quanto tale approfondendo al tempo stesso i rapporti di sfruttamento, di dominio e distruzione, la reazione dell’umanità oppressa (a qualunque titolo) sarà quella di lottare per la propria riproduzione e per la sopravvivenza, ma qui il problema: a che condizioni questa lotta per la sopravvivenza non andrà in qualche modo a salvare il sistema piuttosto che a ricollocare la lotta su un terreno finalmente anticapitalista? A che condizioni potrà saltare questo patto al ribasso e si potranno invece lanciare finalmente le lotte per la riappropriazione?

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