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I conflitti svelati nella società della conoscenza

di Enzo Modugno (da Il Manifesto di venerdi’ 31 dicembre 2010)

Il ministro Mariastella Gelmini non si sta sbagliando, al contrario, come tutti i suoi predecessori sta portando avanti il lungo processo di razionalizzazione capitalistica dell’istruzione, anche se la crisi ne mostra gli aspetti peggiori. Non sarà quindi una migliore riforma della scuola che potrà arrestarlo. Perché questo processo di razionalizzazione deve rendere permanente l’espropriazione capitalistica dell’intelligenza collettiva che costituisce oggi l’essenza stessa di questo modo di produzione, e non saranno i governi a fermarlo. Ma le lotte degli studenti e dei lavoratori, attaccandolo, possono riuscire a renderlo impraticabile.

Le conoscenze sono ormai le merci più diffuse, algoritmi che si vendono sul mercato mondiale, e anche il sapere, come le ferrovie, è stato privatizzato: è antieconomico produrre conoscenze nelle università statali e l’imprenditoria italiana non ha interesse a svilupparvi la ricerca. Le conoscenze sono merci come le altre, si possono comprare a prezzi migliori.

Il nostro sistema scolastico invece deve produrre qualcosa di più urgente per il buon andamento dell’economia: chi vede solo le cose prodotte non si accorge, ha scritto Marx, che i lavoratori sono un prodotto essenziale del processo di valorizzazione del capitale. L’istruzione pubblica dunque deve produrre lavoratori. Non conoscenze, e quindi neanche supercreativi – ci pensano le corporation – ma «piccoli scienziati», come graziosamente la letteratura manageriale ha chiamato i diplomati. Nessuno può più fermarsi alla terza media ma, con la liceizzazione dell’università, l’istruzione è diventata un’enorme scuola di avviamento al lavoro. Lavoratori su misura per ciò che Gilles Deleuze e Felix Guattari hanno chiamato «asservimento macchinico». Perché le nuove macchine possono intervenire solo se è presente in massa questa nuova forza-lavoro, che non deve produrre «nuove» conoscenze ma solo riprodurle.

Le conoscenze prodotte capitalisticamente infatti non sono più quelle definitive della scienza dell’800, che spiegavano realtà solide, descrivibili con concetti come la causa con l’immancabile effetto, il principio con la prevedibile conseguenza. La cibernetica ha modificato questi concetti, ne ha negato la necessità: con le rappresentazioni che la guidano – informazione, controllo, richiamo – le conoscenze sono diventate una determinazione matematica che ha bisogno di essere aggiornata costantemente dall’apparato cibernetico-tecnico saldamente in mano alle nuove forme di capitale.

È fermo invece alla concezione ottocentesca chi pensa che ancora oggi le conoscenze si possano socializzare con una riforma della scuola alternativa alla Gelmini, o che possano diventare «beni comuni» perché «non si consumano». Chi pensa insomma che sia possibile appropriarsi così facilmente di questa nuova ricchezza sociale, non vede che ormai le conoscenze prodotte capitalisticamente dipendono dalla capacità di calcolo dell’apparato cibernetico-tecnico che un nuovo «cybercapitale» adopera come mezzo di produzione. Con la cibernetica infatti le conoscenze sono diventate un algoritmo, una funzione che permette di operare scelte tra possibilità probabili, con continuo bisogno quindi di correzioni e modifiche secondo l’ordine delle frequenze statistiche.

La loro efficacia è misurata con l’effetto che produce il loro impiego, hanno perciò bisogno di essere aggiornate di continuo, ad ogni istante sono superate da nuove informazioni. Il «mobile esercito di metafore» si è meccanizzato, è diventato ormai il vero motore della produzione capitalistica, la nuova ricchezza sociale, la nuova comunità che i knowledge workers cercano di far propria e dalla quale invece «vengono ingoiati»: perché il procedimento matematico, che adegua per sé la materia, la ordina e la prepara per la macchina, è la forma nella quale diventa possibile l’espropriazione capitalistica dell’intelligenza collettiva. Che costringe tutti a subire l’ininterrotto processo di dequalificazione che li spoglia delle loro capacità incorporandole nelle nuove macchine. Un processo col quale un lavoratore, che con l’insieme delle sue competenze potrebbe essere considerato come una macchina, viene invece assoggettato alla macchina che gli è esterna. Costretto perciò a cercare l’unica fonte di guadagno nella vendita non garantita della propria forza-lavoro, ridotto sulla stretta via che porta alla precarietà.

Ma quando studenti e lavoratori tornano a considerarsi come «liberi esseri storici», quando intendono riappropriarsi della felicità di conoscere, possono riuscire a «non consegnare la determinazione di sé al modo di pensare cibernetico» e a rendere impraticabile l’espropriazione capitalistica del sapere. Per questo le lotte non si fermeranno.

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