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Una domanda di futuro su cui farsi molte domande

Tra tensioni millenaristiche, depressioni croniche e chiusura nel privato, l’epoca che stiamo vivendo a prima vista assomiglia ad un vicolo cieco. Eppure è lapalissiano a sempre più persone che il modo in cui si è organizzata la società umana negli ultimi secoli è insostenibile e dovrà per forza di cose mutare in una direzione o nell’altra.

Dunque cosa manca?

1 – Se ci si attiene a questi primi mesi del governo Meloni ciò che si nota è un approccio completamente restaurativo, cioè il tentativo, più retorico che sostanziale, di restaurare appunto un blocco sociale, quello “né proletario, né borghese”, quella galassia tutt’altro che omogenea di ceto medio che ha rappresentato per molto tempo la base di tenuta del capitalismo italiano a seguito dei decenni di conflitto sociale del dopoguerra. Quel blocco sociale che nell’ultima decade ha visto anch’esso la compressione delle proprie rendite, che si è trovato in sofferenza di fronte alla globalizzazione, alla crisi finanziaria ed ai salti tecnologici che stanno contribuendo alla sostanziale ridefinizione degli assetti capitalistici. Quel blocco sociale che nella sua parte bassa è già andato incontro a dei processi di proletarizzazione, sicuramente nella condizione, sebbene non nell’identità. E d’altronde come si forma un’identità se non a partire da un’esperienza comune di cui questi soggetti sono al momento per lo più privi? Ma questo è un altro discorso, ciò che c’importa adesso è che la scommessa di Meloni e soci è tutta qui, l’ipotesi di riaffermare la centralità di questo ceto medio, senza però disturbare il grande capitale nazionale ed internazionale. Si tratta per loro cioè di tenere in una condizione artificiale di pre-morte quell’Italia delle piccole e piccolissime imprese, dell’imprenditorialità autonoma e di quelle miriadi di professioni che svolgono funzioni produttive e riproduttive in via di restrutturazione che stanno (neanche troppo lentamente) andando verso l’estinzione o la marginalità.
Il fatto è che non si può salvare il bambino con l’acqua sporca: questo blocco sociale è un campo di predazione per il grande capitale transnazionale che mai come in questo momento ha la necessità di concentrare ricchezze, risorse e investimenti strategici. Dunque le briciole di un po’ di economia sommersa ed il pannicello caldo di qualche bonus a pioggia servono solo a mantenere a galla la barca ancora per un po’, ma sul lungo la rotta è tracciata (si veda il PNRR). Tutto ciò avviene naturalmente a discapito delle classi più povere a cui vengono ulteriormente sottratte le proprie risorse per vederle disperse in questo dedalo di prebende.

2 – Nessuna nessuna visione di un futuro da offrire dunque (per quanto orribile possa essere), il comportamento del governo Meloni ha gli stessi tratti psichiatrici di alcuni (non tutti) dei suoi soggetti di riferimento: chiudersi in casa con le telecamere, le sbarre alle finestre e la pistola per difendere i propri mesti privilegi, pestare i figli indisciplinati e preoccuparsi più degli immigrati che potrebbero fottersi la TV che della crisi economica che potrebbe costringerli a vivere in macchina in un prossimo futuro. Fare finta che non stia succedendo niente.
Ciò non ci deve fare indulgere nella facile conclusione che il governo Meloni sia il segno antistorico di una fase transitoria. L’atteggiamento che interpreta, per quanto in alcuni casi sia particolarmente cronicizzato, è ampiamente diffuso ben oltre la destra ed i suoi elettori. E’ per certi versi la cifra comune che si delinea nel progressivo declino dell’idea dell’Occidente come il migliore dei mondi possibili e del capitalismo come l’organizzazione “naturale” del vivere umano associato. La consapevolezza di questo declino è subconscia, dolorosa e in preda ad un continuo meccanismo di rimozione.

Nell’essere uno degli interpreti di questo sentimento del presente sta l’attualità della proposta governamentale dunque. Non si tratta “semplicemente” di una riedizione del fascismo in salsa post-democratica, in fondo esso era l’estrema difesa degli interessi di un capitalismo ancora “giovane” ed “immaturo” fiaccato dal convergere delle resistenze al suo imporsi e dalle prime espressioni delle sue contraddizioni “interne” specie se si guarda al contesto italiano. Oggi sembra essersi rotto qualcosa di profondo nel funzionamento della macchina di valorizzazione del capitale che si confronta sempre di più con i limiti fisici, naturali e sociali che ne compromettono la crescita infinita. I livelli estensivi ed intensivi di sfruttamento di risorse, capacità e forza lavoro raggiunti oggi sono senza precedenti, ma allo stesso tempo la capacità di valorizzare questo sfruttamento è decrescente. Da qui il reimporsi della guerra come strumento di distruzione, più o meno controllata, ma quanto realmente risolutiva dell’accumulo di contraddizioni a cui il sistema sociale è giunto?

3 – Il tema dell’oggi dunque non è solamente crescita infinita contro decrescita. Al di là di ogni mistificazione la decrescita è già qui e assume le forme della guerra, dell’inflazione galoppante, del decoupling della globalizzazione, dell’attacco generalizzato e globale alle condizioni di vita proletarie. L’attesa messianica del nuovo salto tecnologico (o dei nuovi salti tecnologici) che salverà il capitalismo, che si tratti della fusione nucleare o della colonizzazione spaziale, è pura religione.

Il tema per certi versi è quale decrescita e per chi: la questione di una società più egualitaria oggi è un nodo ecologico nel suo senso più esteso. Ma questa è una condizione necessaria e allo stesso tempo non sufficiente: la volgarizzazione che un certo marxismo novecentesco ha pagato con la sua sconfitta è stato quello di pensare che un modello sociale meno diseguale, o privo di alcuna diseguaglianza avrebbe automaticamente risolto qualsiasi contraddizione esistente portando ad un’altra “fine della storia”. E’ stata progressivamente abbandonata l’altra parte propositiva di Marx, l’idea cioè della conquista dell’uguglianza come precondizione e processo costitutivo del “pieno sviluppo delle capacità umane”. Naturalmente anche questa definizione di “pieno sviluppo delle capacità umane” porta con sé delle ambiguità a tratti positivistiche, ma coglie un nodo di fondo che oggi si propone in tutta la sua consistenza: il capitalismo essendo un sistema basato sulla riproduzione di un dominio e del profitto incatena la creatività umana alla sua redditività immediata, la svilisce e a volte la sopprime, la seziona e compartimenta per i suoi fini specifici. Ciò contribuisce a determinare la crescita delle sue contraddizioni interne che, oltre un certo limite, si sostanziano in una incapacità di valorizzare l’intelligenza, i saperi, le capacità socialmente prodotte nella loro interezza, in una loro dispersione. E’ facile notarlo nella vita di ogni giorno della nostra contemporaneità all’interno di una società che produce migliaia di laureati per mandarli a pedalare per qualche azienda di delivery, e che allo stesso tempo mortifica i saperi proletari, riproduttivi, rurali e indigeni. Se ci si concede la battuta si tratta della “caduta tendenziale del saggio di profitto” delle capacità umane socialmente prodotte, in cui lo sforzo della concentrazione di capitale viene fatto per sviluppare un nuovo social di balletti o per sparare un po’ di ricchi appena fuori dall’atmosfera con un razzo fallico, oppure ancora per sviluppare strumenti di morte più accurati mentre intere aree del pianeta stanno progressivamente diventando invivibili. Ovviamente questa è una descrizione in parte iperbolica, ma non del tutto inaccurata.

4 – Dunque viviamo in un mondo estremamente complesso, dove però esiste un’enorme ricchezza di capacità inespresse e negate. Un mondo sempre più privo di un’idea propositiva di futuro, ma allo stesso tempo con una grande insopportabilità e insostenibilità del presente. E’ un mondo dove si intravedono schegge di possibilità qui e lì, embrioni di un altro modo di vivere che però paiono fragili e dispersi. Mentre il capitalismo come ordine sociale mostra sempre più le sue fragilità, all’orizzonte mancano altri modi credibili di organizzarsi e chi soffre trova rifugio all’interno di un privato sempre più oscuro ed inabitabile. Dunque di quale funzione politica abbiamo bisogno? Quale forza ricerchiamo noi che pensiamo che un altro mondo sia possibile e quanto mai necessario?

Forse organizzarsi oggi vuol dire in primo luogo organizzare un processo di socializzazione di queste capacità in deficit di valorizzazione per costruire insieme orizzonti di vita credibili e più giusti rispondendo alle domande che il capitalismo lascia insolute per sua stessa natura. Vuol dire trovare i propri contro-istituti, le proprie forme di cooperazione per ricomporre questi saperi dispersi e negati e farne una forza in grado di affrontare la complessità del presente. Probabilmente abbiamo alleati ed alleate inaspettati da incontrare, molte strade da percorrere, abbiamo territori nuovi da esplorare e domande inedite da raccogliere, da farci, da fare. Abbiamo una insopprimibile domanda di futuro in attesa di essere colmata, organizziamoci per farlo!

Un buon 2023 a tutti i/le ribelli in cerca di un futuro!

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