Quale rating per l’Europa?
La mossa di Standard&Poor’s di rivedere ieri le posizioni debitorie di nove stati europei ha suscitato grandi volate di stracci e sceneggiate tra il vittimista e l’isterico nei salotti dell’Europa dei bancarottieri e dei liberisti.
Non che la S&P, una delle agenzie di rating più rapaci e colluse con l’1% del grande capitale statunitense (il suo presidente Harold McGraw siede nel board della potente lobby conservatrice del Business Roundtable, e non a caso è stata l’unica a togliere la tripla A ad Obama durante la crisi del debito dello scorso agosto), non avesse già cucinato un pasto indigesto preparando il terreno agli attacchi speculativi – anche alla Francia – dello scorso novembre: ma era un piatto che qualsiasi classe politica anche solo attenta alla propria autoconservazione avrebbe potuto evitare. Eppure non solo si è mandato giù il pastone, ma ci si accinge anche a pagare il conto.
Paga la Francia, il cui presidente Sarkozy credeva di ergersi a grande moralizzatore della finanza con una Tobin Tax edulcorata e invece si avvia ad essere estromesso dal potere alle prossime elezioni primaverili sulla scia dei suoi omologhi dei paesi dell’Europa latina: in una sorta di specchio grottesco e deformato dei cambi ai vertici del mondo arabo, con i funzionari delle Troike UE-BCE-FMI e Moody-Fitch-S&P nel ruolo di kingmaker al posto del proletariato in rivolta.
Paga l’Austria, le cui banche sono sovraesposte verso un’Ungheria stritolata da una parte dai diktat dell’austerità ordoliberista europea, dall’altra da un regime interno strutturalmente incapace di articolare una propria soluzione di uscita dalla crisi, anche con il ricorso a misure di politica economica sempre più autoreferenziali e ad un governo dei propri conflitti interni sempre più repressivo.
Paga l’Italia, o meglio quegli italiani cullati dalla speranza di dire addio alle manovre stangata (promessa già odiosamente truffaldina ed irreale, quando si assume il pareggio di bilancio a livello costituzionale con un debito pubblico al 118% del PIL): e che invece si trovano cornuti e mazziati quando il signor Monti giustifica proprio con la moltiplicazione del debito alimentata dalla S&P quelle misure di macelleria sociale ed attacco indiscriminato al mondo del lavoro già da tempo in cantiere – misure peraltro auspicate dalla stessa agenzia.
Ma nessuno può dirsi al sicuro davanti ai segnali inquietanti che vengono da più fronti dell’economia globale. La bolla dell’immobiliare cinese, cresciuta nella sinergia tra fondi speculativi occidentali e devastazioni ambientali e sociali locali sembra aver raggiunto il picco. Gli Stati Uniti, la gravità del cui debito complessivo è stata finora oscurata dalla catastrofe europea, si preparano ad una nuova, grande iniezione di liquidità per l’estate, per puntellare le proprie esportazioni ed arginare la disoccupazione dilagante.
Il sipario alla fine delle olimpiadi di Londra 2012 (come per Atene 2004) non calerà solo sui giochi, ma anche su un Regno Unito completamente privato di mezzi di produzione e riproduzione industriale e sociale a tutto (effimero) vantaggio della finanza autoreferenziale della City.
E allora davanti al rischio prospettivo dell’austerità occorre contare su un paniere di pratiche conflittuali ben diversificato e ripartire dalle transnazionali della lotta, dell’insolvenza dal basso e dei beni comuni. Dagli audit popolari sul debito alle autoriduzioni di massa, dalla resistenza alle delocalizzazioni speculative a quella alle commesse delle cricche militari (di casa nostra come della penisola arabica), dalla lotta alle grandi opere inutili a quella dentro, contro ed oltre l’università perpetuatrice – ideologicamente e strutturalmente – del giogo liberista. Allora e solo allora si tornerà ad intravedere una nuova, e rivendicabile, qualità di tripla A: Alterità, Autorganizzazione, Autonomia.
Wally Crash
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