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Recensione di ‘La lotta di classe. Una storia politica e filosofica’ (di D. Losurdo)

“Il sociologo comincia a leggere il Capitale dalla fine del III libro e interrompe la lettura quando si interrompe il capitolo sulle classi. Poi, da Renner a Dahrendorf, ogni tanto qualcuno si diverte a completare ciò che è rimasto incompiuto: ne viene fuori una diffamazione di Marx, che andrebbe come minimo perseguita con la violenza fisica”. Non sappiamo se a Domenico Losurdo questa citazione tratta dal Tronti di Operai e capitale faccia piacere, ma pensiamo che renda ragione alla scelta di iniziare il suo La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, pp. 387, € 24) individuando nei Dahrendorf il bersaglio polemico. I ricorrenti profeti della fine della lotta di classe si trovano puntualmente di fronte al suo insorgere, oltre che a quelle condizioni di impoverimento e polarizzazione che Losurdo mette subito in evidenza. Rispondendo alla domanda retorica dell’introduzione del volume, si potrebbe dire che la lotta di classe non deve ritornare per il semplice fatto che non è mai andata via.

 

Ha poi ragione l’autore quando afferma che essa “non si presenta quasi mai allo stato puro”. Il punto è però individuare la sua specificità. Losurdo la pluralizza: lo scontro tra operai e capitale è solo una delle forme che la lotta di classe assume, insieme ai movimenti di liberazione nazionale, anti-coloniali, delle donne o dei neri. Anzi, proprio “in virtù della sua ambizione di abbracciare la totalità del processo storico, la teoria della lotta di classe si configura come una teoria generale del conflitto sociale”. E qui iniziano i problemi. L’autore rischia infatti di sottendere un’interpretazione economicista dei rapporti di produzione. O, per dirla altrimenti, di interpretare la lotta dentro e contro i rapporti di produzione come questione meramente economica. Le lotte per il salario o la riduzione dell’orario di lavoro vengono quindi rubricate nella tipologia dei conflitto per la redistribuzione, inferiori alle questioni che toccano le corde della coscienza, come l’indipendenza nazionale o l’abolizione della schiavitù. Sappiamo bene che con le citazioni si possono dimostrare tante cose e il loro contrario, ma visto che nel testo sono sovrabbondanti possiamo limitarci a ricordare il famoso passaggio de La guerra civile in Francia in cui Marx afferma che “il proletariato non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società di cui è gravida la vecchia e cadente società borghese”. Insomma, nella sua ansia di controbattere al riduzionismo economicista operato dal pensiero liberale, Losurdo finisce per incappare nello stesso errore: come se la lotta per il salario non fosse lotta per la libertà.

 

 

 

I soggetti della lotta di classe

 

Ha ragione Losurdo quando individua nelle colonie il laboratorio di quello che sarebbe stato il nazismo nel novecento: qui risuonano le famose considerazioni di Aimé Cèsaire sull’Hitler nascosto che porta dentro di sé il borghese distinto e umanista. L’autore ha inoltre il merito di evidenziare quanto le questioni coloniale e razziale fossero tutt’altro che marginali nella riflessione politica di Marx sulla vocazione mondiale dello sviluppo capitalistico e sulla divisione internazionale del lavoro. E ci scuserà l’autore se non riusciamo a considerare il Moro di Treviri un sol uomo e sol corpo con Engels, certo suo impagabile compagno, ma anche portatore di molte responsabilità nel costruire dogmi ed equivoci di quel marxismo da cui Marx aveva giustamente preso le distanze.

 

Invece, utilizzando il Marx della questione irlandese e in particolare Engels, Losurdo sostiene che un internazionalismo che ignori la questione nazionale si rovescia nel suo contrario, cioè nello sciovinismo di una nazione che si pretende universale. Questione complessa e storicamente densa, com’è noto. Si pensi al dibattito tra Luxemburg e Lenin, quando il secondo critica la prima per la semplicistica condanna dei movimenti nazionali. Lo fa, tuttavia, perché in quella specifica contingenza storica quei movimenti sono un dato di realtà ambivalente, potremmo dire uno spazio di politicizzazione dentro cui il proletariato si può formare per dare un “colore comunista” alle lotte anti-coloniali a partire dall’irriducibile eccedenza del movimento rivoluzionario rispetto alle semplici rivendicazioni democratiche. Tralasciamo le molte pagine in cui Marx prima e Lenin dopo affermano senza possibilità di equivoco come le “rivoluzioni nazionali” siano comunque sempre subordinate alle rivoluzioni proletarie. Il punto che ci interessa è che tra quel dibattito e oggi sono successe tante cose: differenti cicli internazionali di lotta di classe, due guerre mondiali, la globalizzazione e la riconfigurazione del ruolo dello Stato. I dibattiti sono profondamente mutati, anche dentro quei movimenti che dovrebbero essere i referenti ideali del discorso di Losurdo: l’esaurimento del carattere “progressivo” (per usare una brutta parola) della questione nazionale è stato da tempo messo in evidenza dai militanti anti-coloniali di fronte al fallimento degli stati postcoloniali, negli anni Settanta da Huey P. Newton nel vivo dell’insorgenza afroamericana, e oggi è questa la discussione nel contraddittorio laboratorio latinoamericano e perfino in un’organizzazione come il Pkk.

 

Insomma, l’impressione è che da queste molteplici forme di lotte di classe citate dall’autore a sparire siano proprio i soggetti concreti per essere sostituiti e rappresentati dalle astrazioni del popolo e della nazione. O meglio, in un quadro in cui la lotta di classe è in ultima analisi combattuta dagli Stati o per lo Stato, i soggetti diventano gli statisti: a Lenin viene appiccicata la maschera del Napoleone III del proletariato, l’Ottobre si trasfigura nel 18 brumaio e – con buona pace delle aspre battaglie dentro la Prima Internazionale – Marx rischia di essere confuso con Mazzini.

 

 

 

Innanzitutto la lotta di classe

 

Marx, è noto, non perdeva occasione per sottolineare il carattere rivoluzionario del rapporto sociale capitalistico. Intorno al ’17 Lenin sferzava i vecchi bolscevichi rimasti attaccati a principi e interpretazioni che, seppur corrette qualche anno prima, a quel punto si dimostravano superate o addirittura nocive. Si ha invece l’impressione, leggendo questo libro erudito e ambizioso, che con Marx e Lenin la storia finisca: la storia della teoria della lotta di classe, bloccata in una pluralità di opposizioni oggettivate e immobili. Non crediamo che il Moro di Treviri e il dirigente bolscevico ne siano responsabili, né che sarebbero molto d’accordo. Non solo: con il trascorrere delle pagine si ha sempre più chiara la certezza che l’autore voglia dimostrare che l’oggetto del suo studio rappresenta solo una delle contraddizioni del capitalismo, tutte considerate nella loro fissità astorica. Anzi, sarebbe stata l’idealistica insistenza sulla “droga” della lotta di classe a condurre alla rovina il socialismo reale. Per la soddisfazione di Losurdo qualcuno se ne è accorto per tempo e, come Deng Xiao Ping, ha voltato pagina, correggendo le cadute “populiste” di Mao. E pazienza per l’“incidente” di piazza Tienanmen – causato secondo l’autore dagli avamposti occidentali del neoliberismo, e addio alla premessa sul carattere spurio dell’antagonismo, sacrificata alla logica dei processi di Mosca. Il socialismo si rivela così per quello che effettivamente è: lineare continuità ed efficiente gestione del capitalismo, senza salti e cesure. Per questo la lotta di classe ne ha preso definitivamente congedo.

 

Losurdo critica perciò quella che definisce la “logica binaria”: classe contro classe. Insiste invece sulle divisioni all’interno dell’una e dell’altra. Quelle divisioni esistono certamente, ma non possono essere superate in modo dialettico, cioè assumendo in modo speculare e oppositivo l’identità che il nemico ci impone. Quei dispositivi vanno distrutti, essendo a loro volta il prodotto sempre mutevole della lotta di classe. Quella che Losurdo chiama “logica binaria” è così confermata. Sempre che si consideri la classe un concetto politico e non economico, cioè come il provvisorio risultato di un processo antagonista. Prima la lotta di classe, poi la classe. E sempre che si consideri la specificità dello sfruttamento capitalistico: qui la linea dell’antagonismo non passa genericamente tra oppressori e oppressi (il populismo che all’autore non piace) o nella guerra dei popoli che si fanno Stato attraverso la guida del partito (quello che apprezza), ma tra lavoro vivo e capitale.

 

Ancora una volta, non stiamo dibattendo di filologia. La lotta di classe condotta dal proletariato non è mai “dall’alto” o “dal basso”, nella morsa tra autonomia del politico e tradeunionismo, perché la sua caratteristica è di creare un campo di battaglia tendenzialmente orizzontale: non più i subalterni contro i dominanti, ma forza contro forza. Il suo obiettivo non è il riconoscimento nella “famiglia umana”, perché quell’umanità viene spaccata e ricreata dalla lotta di classe. Nella prassi e nell’orizzonte di questo scontro “binario” non c’è aufhebung (la sintesi dello Stato): c’è invece autonomia, rottura e separazione.

 

Ciò vuol forse dire ritornare a una marginalizzazione della molteplicità delle forme di lotta di classe? Al contrario, significa situarle e specificarle. Genere e razza, ad esempio, sono processi che si collocano non a fianco, ma pienamente dentro i rapporti di produzione, se di questi appunto non diamo una lettura economicista. Se cioè consideriamo il lavoro vivo nella sua totalità, fatta di soggettività e sfruttamento, potenza e povertà. I lavoratori della logistica in sciopero ci hanno spiegato che è nella mobilitazione che il razzismo e le divisioni nazionali sono messe in discussione. Perché una lotta diviene di classe. Il movimento No Tav, ad esempio, non è oggettivamente lotta di classe: lo è diventato nella misura in cui ha saputo porre al centro il conflitto sui rapporti di produzione che passano per la messa a valore del territorio, la crisi, l’impoverimento, lo smantellamento del welfare. Non è una questione di coscienza, ma di materialità di condizioni di vita e processi di soggettivazione. A mobilitare non è l’interesse generale, ma l’irriducibile parzialità. Per Marx, per Lenin e per noi dentro queste coordinate si pone la questione dell’organizzazione: il nodo è lo stesso, però le forme di quelle coordinate sono cambiate in profondità. E a farle cambiare è stata, inutile ripeterlo, proprio la lotta di classe.

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