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La lotta di classe infiamma l’Indonesia

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Da diversi giorni ormai, imponenti cortei, scioperi di massa e violenti scontri di piazza stanno paralizzando il paese che, con oltre 270 milioni di abitanti, figura come il quarto più popoloso al mondo. Ma cosa sta accadendo esattamente?

Nonostante fosse rimasto una semplice bozza per svariati mesi, il governo ed il parlamento Indonesiano hanno deciso improvvisamente di approvare il pacchetto di riforme denominato Undang-Undang Cipta Kerja (UU CiptaKer), la “Legge Crea-Lavoro”. Finalizzandolo durante il fine settimana per poi approvarlo e convertirlo in legge dopo la mezzanotte di lunedì 5 ottobre, l’intenzione del governo era quella di cogliere di sorpresa le forze che si opponevano da mesi a questa proposta e di impedire qualsiasi forma di discussione attorno alla versione finale del disegno di legge.

Le riforme andranno a toccare più di 1200 articoli, contenuti in 79 leggi appartenenti ai più svariati ambiti legislativi. Ma il comune denominatore di questo pacchetto è chiaramente intellegibile dal suo stesso nome.

Già a partire dal 2019, il governo si era ripetutamente espresso sulla necessità di “creare lavoro” nel paese e aveva presentato alcune bozze di legge. Ma è con l’arrivo della pandemia da COVID-19 che la necessità di attirare investimenti esteri, per contrastare gli effetti della crisi economica imminente, si è affermata sempre più tra la classe dirigente Indonesiana, così come l’importanza di accelerare su queste riforme.

In un momento di crisi come il presente, l’unico metodo previsto per stimolare gli investimenti è ovviamente quello di rendere più sfruttabili i lavoratori e le risorse naturali del paese, così da riuscire (forse e temporaneamente) ad avanzare di qualche metro nell’eterna corsa al ribasso che il capitalismo impone ai popoli della terra.

Così, per citare solo alcune delle misure in questione, la UU CiptaKer andrà ad incrementare l’orario massimo di lavoro settimanale e le ore di straordinari giornalieri consentiti per legge, ridurrà (o eliminerà in certi casi) le indennità di licenziamento e i congedi (parentali, di matrimonio etc.) retribuiti, rimuoverà ogni limite all’uso di lavoro in appalto e contratti a tempo determinato. Aziende di svariati settori considerati strategici e/o particolarmente sensibili alla crisi saranno inoltre esentate dal rispettare i salari minimi regionali – già ampiamente peggiorati negli ultimi anni e criticati per la loro insufficienza – e potranno così scendere fino alla soglia di povertà, che al momento oscilla (in base allo standard utilizzato) tra 0.8$ e 2$ al giornoi.

Inoltre saranno fortemente rilassati gli standard ambientali così da rendere più facile ottenere delle concessioni per attività minerarie e di deforestazione. Tutto ciò in un paese che soffre già da decenni un intensissimo processo di spoliazione delle sue ricchezze naturali da parte di pochi enormi monopoli. Insomma, il nuovo pacchetto di leggi andrà a peggiorare ulteriormente la situazione dove fenomeni quali il land-grabbing, la devastazione ambientale, la concentrazione della terra in sempre meno mani e l’iper-sfruttamento delle risorse naturali sono già una tragedia concreta e sensibile per milioni di contadini, membri delle comunità indigene e per le classi popolari delle aree rurali del paese.

Poche ore dopo l’approvazione a sorpresa della UU CiptaKer, diversi sindacati hanno proclamato lo sciopero generale. Ad essi si sono subito aggiunte svariate organizzazioni che hanno un orientamento di classe, e già nel pomeriggio di lunedì 5 si sono verificate importanti mobilitazioni in tutto il paese. La rivendicazione portata avanti è chiara: cancellare immediatamente il pacchetto di riforme. Già a partire da martedì 6 la mobilitazione ha raggiunto un carattere di massa, quando nelle principali città del paese sono scese in strada centinaia di migliaia di persone.

La risposta del governo è stata quella di reprimere violentemente le proteste, mobilitando polizia ed esercito per le strade, facendo ampio uso di lacrimogeni, blindati, cannoni ad acqua e manganelli, arrestando centinaia di manifestanti ogni giorno, spesso commettendo abusi e violenze sui dimostranti così detenuti e impedendo loro di accedere ai regolari canali legaliii. Ciò nonostante la protesta continua imperterrita tutt’oggi.

Le difficoltà della lotta

Occorre però fare ora un piccolo passo indietro per capire fino in fondo l’importanza di questi eventi.

Tra il 1965-6, l’Indonesia fu attraversata da alcuni dei più tragici eventi dal secondo dopoguerra. Dopo aver massacrato più di 1 milione di comunisti e presunti tali, il generale Suharto instaurò una stabile e duratura dittatura militare, fortemente appoggiata dagli USA, che lo mantenne al potere fino al 1998iii. Durante questi 32 anni la repressione più violenta si abbatté su ogni forma di politica con orientamento di classe, e lo stato si impegnò attivamente a mantenere le masse al di fuori di qualsiasi tipo di partecipazione alla vita politica.

Nonostante Suharto fosse riuscito efficacemente a neutralizzare qualsiasi conflitto sociale e a dare forza ad una nascente borghesia nazionale, tra il 1997-8 una pesante crisi economica colpì l’Indonesia e nel giro di pochi mesi il generale venne abbandonato dalle classi dominanti – stanche ormai della corruzione endemica così come della sua incapacità di gestire la crisi. Ciò, unitamente alle imponenti mobilitazioni di massa che si risvegliarono da un lungo letargo, costrinse Suharto a ritirarsi dalla vita politica e spinse il paese verso un processo di “riforma” e “democratizzazione”.

Come spesso accade tuttavia, la transizione verso una democrazia borghese fu particolarmente “morbida” e caratterizzata da una forte continuità col passato. Certo, dal 1998 in Indonesia si svolgono regolarmente elezioni, e le libertà democratiche basilari sono formalmente garantite. Ma è al contempo innegabile che fino al giorno d’oggi gli stessi oligarchi del passato tengono fermamente in mano l’economia del paese, gli stessi generali coinvolti in crimini e atrocità sono oggi figure di spicco nella vita politica locale e più in generale lo stesso sistema socio-economico rimane alla base della società Indonesiana.

Ma non solo. Tutt’oggi “comunismo” e “marxismo-leninismo” sono espressamente vietati – dal punto di vista organizzativo e ideologico – e perseguibili penalmente. L’esercito e la polizia ereditati dal periodo della dittatura rimangono istituzioni estremamente reazionarie. Lo squadrismo di organizzazioni para-fasciste e il gangsterismo dei criminali locali sono spesso collusi con le forze dell’ordine e lasciati agire impunemente quando vengono assoldati dai padroni per spezzare picchetti, intimidire lavoratori in sciopero, interrompere riunioni sindacali.

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Pemuda Pancasila, una delle più importanti organizzazioni paramilitari del paese, spesso svolge azioni tipiche dello squadrismo.

In essenza è necessario comprendere fino in fondo le difficoltà oggettive che vi sono in Indonesia, sapere che le organizzazioni marxiste-leniniste sono costrette a lottare nella semi-clandestinità, i sindacati di classe devono subire la repressione dello stato e delle milizie reazionarie al soldo dei padroni. Più in generale, bisogna ricordarsi della difficoltà della lotta in una società che non si è mai realmente sbarazzata dei rimasugli della dittatura militare, in una società intrisa fino al midollo di anti-comunismo a livello ideologico-culturaleiv.

Questo excursus storico ci serve per capire come le condizioni soggettive nel paese siano tutt’oggi estremamente arretrate. Certo, qualcosa si è mosso negli ultimi 20 anni. Soprattutto a livello sindacale le organizzazioni con orientamento di classe – quali ad esempio il KASBI, importante sindacato e membro della Federazione Sindacale Mondialev – riescono a mobilitare molti lavoratori e a radicarsi. Anche a livello politico ci sono molte piccole organizzazioni che svolgono un ottimo lavoro, specialmente tra gli studenti e i giovani lavoratori – in entrambi i casi terreno più fertile, in quanto membri di una generazione meno intossicata dalla propaganda anti-comunista del periodo della dittatura militare. In ogni caso la situazione è oggi particolarmente frammentata e difficile.

Mobilitazioni di massa dal 1998

Ciò nonostante il popolo Indonesiano non è certamente a corto di esperienza con imponenti mobilitazioni simili a quelle di questi giorni. Negli ultimi 20 anni le strade e le piazze del paese sono state più volte riempite da folle oceaniche di dimostranti. Eppure, raramente tali masse si mobilitavano per rivendicazioni con un forte carattere di classe. Spesso queste mobilitazioni avevano un carattere inter-classista, ben compatibili con piccole riforme all’interno del capitalismo. O addirittura erano caratterizzate da una natura apertamente reazionaria.

Un esempio di ciò è quando, a cavallo tra 2016 e 2017, diversi gruppi islamisti chiesero le dimissioni di Basuki Tjahaja Purnama (detto Ahok), sindaco della capitale Jakarta. Accusato di blasfemia in pubblico, ed essendo parte della minoranza di origine Cinese e cristiana, Ahok divenne il bersaglio di pesanti accuse con sfondo razziale e settario da parte di quella fetta ultra-conservatrice della società Indonesiana che si mobilitò, appunto, in grandi numeri. Queste mobilitazioni riuscirono infine a spostare l’opinione pubblica e portarono ad una vittoria di queste rivendicazioni in quanto Ahok venne infine condannato a due anni di reclusione per blasfemia.

Altre importanti mobilitazioni degli ultimi anni comprendono, ad esempio, proteste contro l’indebolimento della Commissione Anti-Corruzione; contro un’ulteriore stretta conservatrice sulla legge che regolava il matrimonio, atti “osceni” in pubblico e l’uso di contraccettivi; contro un inasprimento delle pene per “diffamazione della bandiera”, “diffamazione del presidente” e “tradimento della Repubblica”; contro la cancellazione di sussidi pubblici sul prezzo dei carburanti. Molte di queste rivendicazioni furono importanti e anche giuste, ma spesso hanno avuto un carattere inter-classista, in grado di mobilitare ampi settori della società senza però mai riuscire ad intensificare la lotta di classe e senza essere in grado di spostare i rapporti di forza a favore delle classi popolari e dei lavoratori.

Gli scioperi e le manifestazioni contro precedenti leggi anti-popolari, simili a quelle oggi oggetto di discussione, non sono mai mancati. Ma raramente, o forse mai, hanno assunto una tale estensione da colpire la maggior parte dei principali centri abitati del paese, ne tanto meno con tale partecipazione di massa.vi

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Il significato delle proteste di oggi

Appare quindi, a parere di chi scrive, estremamente positivo ciò che sta accadendo in questi giorni in Indonesia. Ci si può forse azzardare a dire che siano pochi altri i casi nella recente storia Indonesiana in cui delle rivendicazioni con un carattere così chiaramente di classe venissero fatte proprie da masse così consistenti e combattive. La mobilitazione contro il pacchetto di riforme ha un chiaro segno di classe: il rifiuto del ricatto padronale “se volete lavorare in questi tempi di crisi, allora lasciateci liberi di sfruttare ancora di più voi e le risorse di questo paese”.

Certo, in questi giorni svariate forze borghesi stanno cercando di intestarsi parte delle mobilitazioni. È il caso di alcuni partiti dell’opposizione – che cercano di racimolare qualche tornaconto elettorale – così come di svariate istituzioni religiose e persino alcuni rappresentanti di interessi economici che non si sentono particolarmente rappresentati in queste riforme. Ciò non toglie nulla alla considerazione di fondo: oggi, in Indonesia, milioni di lavoratori e membri delle classi popolari stanno rispondendo alla chiamata delle organizzazioni di classe, e stanno portando avanti con forza e determinazione delle rivendicazioni che hanno un chiaro carattere di classe.

Tanto è ancora incerto, e molto dipenderà dalla capacità delle forze politiche e sindacali che hanno un orientamento di classe di continuare nella lotta e indirizzarla verso la giusta direzione. Per il momento non può che dare fiducia ad ogni sincero comunista il vedere che, anche dove le condizioni sono estremamente difficili, dove le organizzazioni di classe soffrono ogni giorno la repressione delle lotte, è possibile lottare.

Se le mobilitazioni porteranno il governo a compiere un passo indietro, la classe operaia indonesiana sarà riuscita a vincere un importantissima battaglia. Ma, anche nel caso ciò non avvenisse, la mobilitazione di questi giorni potrà essere un importante passo in avanti, un punto di partenza per risvegliare il conflitto di classe in Indonesia. Anche un eventuale sconfitta delle rivendicazioni immediate non può infatti distrarci dal fatto che “di tanto in tanto gli operai vincono, ma solo temporaneamente. L’autentico risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l’unione sempre più vasta dei lavoratori”vii.

Di Giacomo Canetta da L’Ordine Nuovo

Fonti:
i) https://majalahsedane.org/omnibus-law-cipta-kerja-sesajen-bagi-pemodal/
ii) https://www.theguardian.com/world/2020/oct/07/indonesia-police-use-water-cannon-and-teargas-to-disperse-labour-law-protests
iii) Per un approfondimento sulla storia dei comunisti in Indonesia: http://www.senzatregua.it/2020/05/23/per-una-storia-critica-del-partito-comunista-indonesiano-a-100-anni-dalla-nascita/?fbclid=IwAR2JQGQVN2UMkKvi4ZDDT4BTlYN0miRIZF_YdNVvirvrJVcvVDsg0jwTDQQ
iv) Per avere un idea di come la società Indonesiana sia tutt’oggi attraversata da questi fenomeni si consiglia vivamente la visione dei due documentari realizzati dal regista Joshua Oppenheimer: The Act of Killing (2012) (parte 1: https://www.dailymotion.com/video/x2jsxle parte 2: https://www.dailymotion.com/video/x2jsxk2) e The Look of Silence (2014) (https://www.videotecadiclasse.co/the-look-of-silence-documentario-streaming-ind-sub-ita/). O in alternativa questa sua lunga intervista realizzata nel 2014: https://www.youtube.com/watch?v=9ibGiP_9Jd8&ab_channel=VICE
v) https://kasbi.or.id/2020/10/06/pernyataan-sikap-3/
vi) Si consiglia ad esempio la visione di questo documentario (https://www.youtube.com/watch?v=dUmGr-sXGZQ&app=desktop&ab_channel=LIPSSedane) che descrive la stagione di lotte che tra il 2011 e 2013 ha fermentato il distretto industriale di Bekasi.
vii) Dal Manifesto del Partito Comunista.

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