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Oltre la Ginestra di Leopardi

A partire dal film di Martone e Germano si è aperto molto dibattito attorno al Leopardi. I media mainstream hanno fatto la loro parte. Saviano entusiasta dalle colonne dell’Espresso e Repubblica offre quattro cofanetti a quaranta euro sul poeta infinito. Anche sui media di movimento e tra compagni se n’è parlato e se ne parla. Noi ci siamo espressi in due articoli, prima sul film in particolare, poi su Leopardi, abbiamo messo sul piatto alcune idee per una lettura del poeta non di comodo, ma aderente al Leopardi uomo, storico. Ci siamo chiesti perché anche noi compagni, perché dar spazio ad un autore tra gli autori, e abbiamo risposto. Nella Ginestra in particolare, a testamento, ecco un manifesto etico. Abbiamo detto che in Leopardi è il metodo che ci interessa, il suo modo di stare nel suo proprio tempo (odiato). Il fiore del deserto è l’immagine, il luogo poetico dove riporre come in cassaforte tutto un percorso eticamente ragionato.

Quella di Leopardi è un’esperienza assai individuale, per quanto fino alla fine determinata nella ricerca di sodali, comunque limitata ed insufficiente. Sente il proprio male, riconosce quello degli altri e dunque degli uomini e del mondo in genere. L’ironia delle Operette Morali, un tentativo di superamento per sé dello iato tra realtà e desiderio, è anch’essa più un palliativo che una soluzione collettiva. Poi la ginestra che dopo un’affermazione sì di dignità, comunque e di necessità piegherà il suo capo non renitente. A noi non basta. Dobbiamo andare oltre. Se non possiamo pensarci immortali, se nonostante ciò vogliamo superare il deserto, dobbiamo allora immaginarci parte di un processo che non necessariamente vincerà, ma potrebbe (un processo non vince mai una volta per tutte). Che magari non il nostro corpo, non i nostri occhi ma quelli di fratelli e sorelle a venire vedranno e toccheranno nei suoi esiti più grandi. Crediamo in una vittoria possibile, in una lunga strada ma percorribile, non guardiamo alla rivoluzione come ad un punto, come ad un giorno (è un blocco soltanto vista da lontano). Pensiamola processo, una quotidiana attitudine non renitente. Il deserto è grande, ma non esattamente quanto tutto il globo. Ci siamo noi e le nostre lotte. Diciamo del nostro proprio tempo, esprimiamone i vuoti e i mali, indichiamone però un superamento, in qualche modo, costruiamo immaginario della possibilità, per altro. Superare il nostro tempo non significa uscire dagli anni dieci verso un futuro generico (cosa che accadrà comunque il 31 dicembre 2019); i giorni che verranno avranno la forma che esiterà dalla nostra lotta contro i colpevoli di ciò che giudichiamo giustamente male. Traduciamo in luoghi dell’immaginario questo conflitto quotidiano.

L’esempio della ginestra è perciò (per noi) pretestuoso. Se non fosse stato girato Il Giovane Favoloso non si sarebbe diffusamente parlato del Leopardi, SlamX non si sarebbe (forse) chiamata “La rivoluzione è una ginestra” e per parlare di letteratura del conflitto avremmo dovuto prendere il largo da un altro porto. Ciò significa che Leopardi non è necessario in questo discorso, che avremmo potuto farlo altrimenti, a partire da altre basi della cultura e dell’immaginario. E’ però vero che la sensibilità leopardiana ben si presta a condurre come per mano verso una riflessione sul reale che non nasconda nulla. Si potrebbe obiettare che sono assai i filosofi e lirici che ben conducono, buoni ciceroni del vero. Infatti ripetiamo: la Ginestra (per noi) è pretestuosa, la usiamo come luogo letterario piuttosto che un altro perché si è ridiffuso anche mezzo mainstream. Cogliamo quest’occasione perché è il mainstream stesso a renderla accessibile. Leopardi parla di politica, ha un interesse sugli uomini come comunità e sulle organizzazioni e prospettive sociali che si danno. Con questo non vogliamo certo dire che i prodromi, i modelli archetipici di una letteratura del conflitto sono in Leopardi, anzi, sono assai e ovviamente più definiti altrove! Leopardi non ci dice come secondo lui si fa la rivoluzione. Di questo parliamo qui. Leopardi con la sua riflessione ed esperienza storica ci dà però le basi ontologiche della necessità della lotta di classe. Per questo possiamo cogliere la ginestra e la sua etica. Cosa sarebbe accaduto al corso di quel pensiero se non fosse morto, se avesse visto il ’48? Cosa direbbe Leopardi di questi anni? Parlarne è fantascienza, mastichiamo noi i nostri bocconi, a lui lasciamo soltanto i suoi.

Ciò detto quindi a noi non interessa “emulare” quel percorso, renderlo uguale e tondo, ma, riconosciuti in esso scaturigini e cause ancora operanti saper, su quella scia, andare oltre (l’esempio dalla storia non deve diventare l’avallo sine qua non. La conferma (o la smentita) di certe ipotesi presenti l’avremo dal futuro, non dal passato. Adesso c’è un altro tempo, un altro modo di darsi del problema. Il riferimento, l’esempio dalla memoria sono contingenti, strumentali, ma non necessari in senso forte).

 

Cos’è letteratura e conflitto?

 

Più sopra abbiamo detto: traduciamo in forme e luoghi dell’immaginario questo conflitto quotidiano. Cos’è dunque questa traduzione che ci immaginiamo, questa letteratura del conflitto? Cominciamo impressionisticamente a darne qualche pennellata.

Possiamo dire letteratura ciò che si veicola con la sola carta? No, anche la rete la rende accessibile, gli e-book sono letteratura ma non hanno la forma libro, parallelepipedo da mensola. E’ letteratura ciò che si può solo leggere? No, se ne può ascoltare la lettura. Dunque può essere letteratura ciò che a parole veicola un messaggio, i canali sono la carta, la rete e la voce. Dove finisce la poesia, ad esempio, per cominciare la canzone, dove dunque finisce la letteratura del conflitto? Possiamo dire ad una compagna, ad un ragazzo che recita una poesia con accompagnamento, o base musicale pensata, che non sta già più facendo letteratura e che quindi non ci interessa per questo dibattito? Sarebbe un errore. La multimedialità ci prova che non esiste più il confine classico, accademico tra arti, anzi, è nella loro combinazione che il messaggio si precisa. Ed ancora: una poesia, un racconto accompagnato per scelta dell’autore da visual cessa di essere letteratura e diventa teatro? Come usare la parola letteratura il più propriamente possibile. La discussione è aperta. Per adesso e per semplicità usiamo letteratura per intendere i soli eventi comunicativi veicolati o dalla rete o dalla carta, che per scelta dell’autore non prevedono accompagnamento musicale o visivo; per il tatto il canale si esaurisce nella forma libro o sullo schermo-desktop, per l’udito ad un’eventuale lettura ad alta voce (che possa/debba comprendere anche pathos, quindi importanza semiotica del gesto, gesto come segno immaginato dall’autore, che sa che ciò che scrive va letto in un certo modo, al limite col teatro?) per la vista, oltre a quanto detto per gli altri due sensi, al più a chi legge.

Quando diciamo del conflitto a cosa pensiamo, cosa ci chiediamo di produrre, di scrivere di nuovo? E’ riconducibile a letteratura del conflitto solo ciò che parla in forma narrativa, emozionale, di scontri con la polizia, occupazioni di case e scuole, assemblee, scena ultras, scena subculturale, cortei, antifascismo (qui potremmo continuare l’argomentazione: dove finisce la cronaca ed inizia la letteratura? Come essere entrambi contemporaneamente?) Dovremmo forse comprendere anche ciò che non è immediatamente belligerante ma fa più o meno riferimento a, ciò che esprime più o meno chiaramente la necessità, il bisogno di uscire, di superare, di cambiare? Dove comincia il conflitto? Col furto al supermercato, un secondo dopo il passamontagna sul volto, da quando sei scappato di casa, dal biglietto non pagato, dalle manette ai polsi? Insomma, quali e dove sono le forme pratiche di rifiuto di questo tempo?

Di certo fare letteratura per il conflitto è il tentativo di dire questa fase della lotta, questi anni di lotte per quello che sono senza che la loro narrazione diventi iperbole, esagerazione pur di trovarsi di fronte a cose grandi che vorremmo dal passato ma che per adesso non ci sono. Raccontiamo dello scontro nel 2014, delle sue forme e degli avanzamenti o arretramenti antagonisti del 2014.

Quello che non ci interessa è appiccicare un’etichetta a ciò che abbiamo letto e di forza anche a ciò che non abbiamo letto. Non vogliamo dire tu fai letteratura del conflitto, tu no. Un’accusa di questo tipo è sconsiderata, non ha referenti ed è per adesso impossibile. Vogliamo però rispondere a questa domanda: come fare immaginario anche con la letteratura? Ecco più che guardare al passato, a ciò che è già stato scritto, letteratura e conflitto è un modo per rivolgersi al domani, a ciò che scriveremo d’ora in poi, letteratura e conflitto è una proposta. L’obiettivo che vorremo porre al centro della fronte è: scrivere, fare letteratura, poesia per il conflitto. Che dica il mondo, il suo male e indichi le vie verso un’alterità possibile.

Con piacere abbiamo attraversato la tre giorni di SlamX; è stata l’occasione per vedere esibizioni distanti in stile e contenuti. Quello che si percepiva era un intorno comune a performances diverse, quell’intorno sono questi anni, le difficoltà degli affetti, gli ostacoli quotidiani a tante lotte, la determinazione dei compagni in carcere per aver bruciato un compressore. Non ci interessa qui, e sarebbe in ogni caso fuori luogo, un’analisi dei vari linguaggi, dei vari stili ecc… Limitiamoci ad una sensazione generale, a dire quello che abbiamo respirato. Partiamo al solito da una domanda: pensiamo di poterli realmente superare questi anni dieci? Altrove abbiamo scritto “coniugare al tempo anni dieci del ventunesimo secolo il verbo cambiare tutto”, ci crediamo? Noi sì, per questo sentiamo l’impellente necessità di indicare la via del superamento, di lastricare pietra dopo pietra la lunga strada della vittoria (oltre che nei fatti, anche nell’immaginario. Senza dimenticare che è la strada dove battono i piedi, dove suona il calpestio della rivolta ad avere l’ultima parola). La vittoria non dura il tempo del colpo di pistola, è una lunga strada. Con questa sensibilità dobbiamo affrontare il problema. Considerare un’uscita possibile che non avverrà in un punto. Nessuna estetica della debolezza (la nostra rivendicata insoddisfazione non deve diventare l’occasione per impantanarci, con un pizzico di piacere, nelle nostre insufficienze) Nessun titanismo. Una letteratura, una narrazione, un racconto emozionale col preciso scopo di coinvolgere, di avvicinare, di condividere una lotta possibile: quella contro il nostro tempo. Per noi e per chi verrà. Abbiamo respirato anche questo a SlamX. Leggere dal palco le lettere di Claudia e Niccolò (due dei compagni pochi giorni fa assolti dall’accusa di terrorismo ed ora ai domiciliari), il racconto di uno sgombero di un’occupazione abitativa a Torino e la New York attraversata da un compagno, immaginare quelle vie e la sua quotidianità mentre gli raccontano della polizia che spara sugli afroamericani, le stesse dove continuano in questi giorni scontri e proteste, camminare su quella strade da 7000 chilometri, quella è un’idea di letteratura del conflitto.

Il punto di vista deve essere militante, da questa epoca per la sua sovversione. Non dobbiamo accontentarci dell’arte per l’arte, anzi, dobbiamo rifiutare l’arte per l’arte. Abbiamo bisogno di immaginario dei fatti presenti per i possibili fatti futuri. Questa letteratura (eclettica, multimediale) deve essere viva, propositiva, vitale, svolgere i suoi propri compiti particolari (dilettare, distrarre) e contemporaneamente costruire immaginario e proposta politica. Ciò di cui vorremmo liberarci (e forse ce ne stiamo già liberando) è quella nota di ineludibile sconfitta e repressione che a volte sembra attraversare e condannare molte nostre iniziative di lotta, di ribellione, di dissenso pratico in questo 21esimo secolo. Ne nasce quindi una narrazione, una percezione o intristita in partenza, che dunque accetta ma non riesce a superare il proprio dramma, o falsa, favolistica. E cioè: constatata l’impossibilità di lottare e vincere qui e ora, poiché ancora abbiamo bisogno di emozioni libertarie, non ci resta che inventare nuove storie ambientandole in vecchi fatti. Ma con uno sguardo ancora così orientato, che dire del presente? Abbiamo bisogno di valorizzare questi anni, di stare nel giusto punto narrativo tra iperbole e condanna. Abbiamo bisogno di sapere, di vedere lucidamente, di accettare il deserto ma allo stesso tempo non dobbiamo subirlo come condizione comunque mortifera. Ci immaginiamo una letteratura del conflitto per il conflitto, che sappia prendersi sul serio, che non sia gioco ma si assuma delle intanto embrionali responsabilità e compiti storici: narrare l’odierno disagio e le contemporanee e conseguenti forme di alternativa. Sotto le nostre finestre, dentro le nostre case occupate, nelle zone in via di liberazione, fuori dai cancelli della logistica, c’è una risposta reale e forte, che non dà per scontata la sconfitta, che resiste ma senza l’ineludibile amaro del condannato, che resiste viva, con gioia e determinazione. Ai cancelli si può vincere, e abbiamo vinto a volte. Diciamolo in tutti i modi possibili. Stiamo in Valle come chi sa che il treno per certo non passerà. Una letteratura del conflitto deve essere seria, responsabile e viva, vitale, che desti la voglia e la fiducia, non la rassegnazione.

 

Chi fa letteratura e conflitto?

 

I militanti, gli attivisti, chi attraversa i luoghi dell’antagonismo sociale, le piazze, i centri sociali. Chi dai margini della legalità rifiuta l’esistente, i suoi valori e le sue istituzioni. Tutti coloro che sanno, per esperienza cutanea, cos’è la rabbia, cos’è l’odio, cos’è la passione. Chi osserva da fuori questi comportamenti ha ben poco da dire al riguardo. Ciò non significa che non possa fare bella letteratura, o poesia d’evasione, su costanti umane, ma non potrà mai sentire sulla pelle cos’è la realtà della risposta collettiva, dunque non starà mai sintonizzato sulla nostra frequenza d’onda.

 

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