Agli studenti e alle studentesse, ai lavoratori e alle lavoratrici dell’Università Statale di Milano
Settant’anni sono passati da quel 8 settembre. Quel giorno nel  nostro Paese si ricominciava a sperare alla fine della guerra e del  fascismo. Triste anniversario per scrivere queste parole, anche perché dopo  quella data le violenze non finirono. Iniziò la lotta partigiana per  cacciar via i nazisti e i fascisti nostrani (i repubblichini) che occupavano le nostre città e le nostre campagne. Iniziarono gli scioperi nelle  fabbriche, si saliva in montagna per organizzarsi, ci si ribellava  dentro i confini e le galere. La repressione si fece sempre più dura,  più brutale. Le fucilazioni, i massacri. Ma i partigiani seppero  resistere e seppero sconfiggere il nazifascismo.
Sono state le storie dei partigiani che mi hanno insegnato a  lottare. E le parole di mio nonno, che partigiano non fu ma che mi  insegnò che per i propri diritti bisogna lottare, sempre a testa  alta, senza mai guardarsi indietro.
Concetti che feci miei sin da quando andavo a scuola. Non fu un  momento specifico, ma un insieme di eventi, ciò che mi fece maturare  l’idea che la mia condizione, come quella dei miei coetanei,  stava peggiorando. Le riforme dell’istruzione (Zecchino-Berlinguer, Moratti e Gelmini) e le riforme del lavoro (Pacchetto Treu e Legge 30)  sono state solo alcune delle mosse che hanno consegnato a noi giovani  questa situazione disastrosa. E poi la crisi economica che colpisce  tutti, studenti e lavoratori, disoccupati e pensionati, genitori e  figli, carcerati e immigrati.
In un contesto come questo, l’unica cosa che i governi di mezzo  mondo hanno saputo fare è stata stringere la cinghia. Le chiamano  manovre “lacrime e sangue”. Ma lacrime e sangue di chi? Sempre dei  soliti, di chi lavora, di chi va a scuola, di chi è povero. I ricchi no,  loro non pagano la crisi, loro devono guadagnare, governare e  arricchirsi grazie alla crisi. Allora il fallimento di una  fabbrica, mentre diventa un dramma per centinaia (se non migliaia) di  famiglie che rimangono senza lavoro, diventa una buona occasione per lauti guadagni per qualche nuovo imprenditore. E lo stesso vale per la svendita dell’istruzione pubblica. Adesso non si studia più  perché si vuole studiare, per farsi una cultura, per provare a capire  come funziona il mondo o come osservare la natura. No, adesso no, adesso  si deve studiare unicamente per lavorare e per questo motivo si studia  solo quello che serve alle esigenze del mercato del lavoro. Nel  frattempo si aprono le porte ai privati: i soldi, le spese rimangono  pubbliche, ma i profitti, il cosiddetto “capitale umano” va ai privati,  alle imprese, a CONFUNDUSTRIA, a ingrossare i guadagni dei ricchi.
E così, mentre smantellano l’università pubblica, si restringono  anche le opportunità per tutti i nuovi iscritti e per chi si vuole  iscrivere. Nell’era della crisi, come ogni buona azienda (già, perché  adesso chi gestisce l’università è un consiglio d’amministrazione, come  nelle migliori imprese) l’università taglia le voci di spesa che ritiene  non profittevoli. Allora si appaltano a ditte esterne servizi  essenziali come la mensa o le pulizie – con condizioni economiche e  lavorative sempre peggiori per i lavoratori-oppure si tagliano  direttamente studentati e borse di studio. Addirittura interviene una  riforma, quella dell’ex ministro Profumo, a modificare i criteri su come  vengono assegnate le borse di studio: non più su base economica –cioè a  seconda del reddito e della possibilità di permettersi o  meno l’università- ,ma solo in base al merito. Meritocrazia, finto  valore di questa società, che si ricollega direttamente all’essere  produttivi sul posto di lavoro. Perché si, nell’era della crisi, per riprendere a fare guadagni, l’unica cosa che fanno i padroni è  spremere di più i propri lavoratori, spingerli ad essere più  “produttivi”. Quindi si, vai bene a scuola, fai il bravo e vedrai che  lavorerai meglio.
E’ così anche per la mia storia. Chi comanda, chi governa, chi  guida e amministra la giustizia in questo paese, ha deciso che io e  Lollo siamo colpevoli. E le manette scattano automaticamente.
Strano sistema questo, che prima ti sbatte in galera e poi si  domanda se sei stato tu o meno. E ce ne sono a migliaia di storie come  questa dietro queste mura. Ho dichiarato ciò che avevo da dire al GIP l’altra mattina. Ho  spiegato che io non c’entro niente, che questo ragazzo, Federico, non lo  conosco e che non avevo idea che quella sera fosse andato via in quella  maniera.
Se avessi visto quella scritta sul manifesto sarei andato a parlare  con Federico e  gli avrei spiegato che il suo era stato un gesto poco  rispettoso nei confronti di chi si è fatto giorni, mesi, anni di  carcere per le proprie idee. Gli avrei detto che avrebbe potuto scrivere da un’altra parte, ma mai mi sarei immaginato di prenderlo a botte. Che ragioni avrei avuto?
Ogni giorno vado in università e non ci vado solo per studiare.  Peggiorano le condizioni di noi studenti e penso perciò che sia giusto  opporsi a questo, lottare per ciò che ci spetta, per soddisfare i nostri  bisogni e far valere i nostri diritti. Io, con gli altri studenti come  me, ci parlo, mica alzo le mani su di loro.
Vedendo le firme dei provvedimenti, di chi mi è venuto a prendere a  casa (la DIGOS!), dei signori P.M. che hanno deciso di arrestarmi (e  sapendo che fanno parte del pool dell’antiterrorismo) mi sorge allora  spontanea una domanda: cosa si sta processando in questo caso? Ciò che è  successo quella sera o la nostra attività politica, le nostre idee? Di  cosa hanno paura questi magistrati, che noi studenti e lavoratori  veramente ci mobilitiamo per riprenderci ciò che è nostro, ciò che le  riforme degli ultimi vent’anni ci hanno levato?
Ecco spiegato il nesso con l’accusa contro la Ex-Cuem, contro i collettivi, contro i centri sociali. Contro chi ogni giorno, a scuola, in università, sul posto di  lavoro o nei propri quartieri, cerca di lottare per migliorare le  condizioni di tutti e tutte.
Se questo è un attacco contro chi si mobilita e si autorganizza  questo è un attacco repressivo contro chi mette in discussione questo  sistema di cose. Questo, a me sembra fascismo. E i partigiani mi hanno  insegnato che i fascisti si cacciano via. E Federico non mi è sembrato  un fascista.
Simone Di Renzo, studente