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In attesa di un altro mondo: tre film sulla fine del sogno americano

Ha avuto inizio a Venezia, il 9 gennaio di quest’anno, una rassegna cinematografica “itinerante” di tre film e documentari di tre registi italiani under 40 che hanno vissuto parte della propria vita negli Stati Uniti e che hanno deciso di raccontarne aspetti sociali, ambientali e politici molto al di fuori dell’immagine che troppo spesso viene proiettata dai media di ciò che un tempo era definito come American Way of Life.

di Sandro Moiso, da Carmilla

La rassegna, che proseguirà in altre città italiane (Bassano del Grappa, Brescia, Roma e Genova) fino al 15 marzo 2024, comprende: Stonebreakers (Italia 2022, 70 minuti) di Valerio Ciriaci, West of Babylonia (Italia – USA 2020, 82 minuti) di Emanuele Mengotti e Last Stop Before Chocolate Mountain ( Italia 2022, 90 minuti) di Susanna Della Sala.

Il titolo della medesima rassegna è già per sé indicativo del contenuto dei tre pregevoli film presentati: Rovine d’America. E, in effetti, anche se si occupano di soggetti, località, problematiche e, dunque, storie spesso molto diverse tra di loro ciò che li accomuna è proprio il discorso su una civiltà giunta al suo tramonto. Una società che è stata modello e guida per il mondo occidentale almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale e che oggi vede i suoi miti, i suoi presupposti politico-economici e l’immaginario che ne è derivato volgere rapidamente al tramonto.

Una sorta di Sunset Boulevard su cui si muovono emarginati, ribelli, sognatori, outsiders, attivisti, hippie, fuorilegge, irregolari, persone senza fissa dimora che, per mille ragioni diverse, rappresentano allo stesso tempo il futuro e il passato della decadenza di un mondo che un tempo si poneva al centro dell’economia, della politica, dell’immaginario e della cultura mondiale e che oggi cerca ancora di rinnovare i suoi fasti in un proseguio di guerre senza fine e senza speranza di uscita o di vittoria.

I tre film non parlano di guerra o guerre, ma almeno nel caso dei film di Emanuele Mengotti e Susanna Della Sala lo scenario bellico fa da contorno ai luoghi e alle vicende narrate, visto che in prossimità sia di Slab City che di Bombay Beach esistono ancora poligoni di tiro e di addestramento per l’esercito e l’aviazione degli Stati Uniti, mentre in quello di Valerio Ciriaci si fanno più che evidenti le linee di faglia di una guerra civile americana che, più che una proiezione dell’immaginario “politico” di Donald Trump e dei suoi sostenitori come vorrebbe la narrazione liberal europea, si profila come una concreta realtà possibile proprio a causa delle divisioni sempre più profonde e radicalizzate che attraversano la società di quella che un tempo, e soltanto in funzione mitopoietica, poteva essere rappresentata come Land of the Free.

Le tre opere cinematografiche, estremamente lucide e personali, mostrano un’America spezzata, alle prese con la crisi di un mito che ha affascinato milioni di persone in tutto il mondo, mentre contemporaneamente è in atto un conflitto culturale che coinvolge i suoi abitanti ed è oggetto di dibattito anche fuori dai suoi confini. La rassegna è nata dunque dall’esigenza di creare «un momento di discussione a proposito di una terra in trasformazione, dove dalle rovine di un passato spesso idealizzato sentiamo oggi levarsi un potente grido di liberazione, che ci dice che quel modello non è più tale. Fare i conti con il passato non significa congelarlo, ma affrontarlo e riaprire la discussione, per attualizzarlo», come affermano i tre registi, che in momenti diversi saranno presenti alle proiezioni proprio per confrontarsi con il pubblico, nei mesi in cui il dibattito intorno alle prossime elezioni presidenziali americane inizierà a farsi più intenso e acceso.

West of Babylonia (qui il trailer) è il primo film di una trilogia dedicata all’Ovest degli Stati Uniti. Un caleidoscopio di personaggi e storie che vivono ed abitano a Slab City, in California, dove si vive senza acqua corrente e senza elettricità. Le strade sono sterrate e la popolazione (gli “Slabber”) oscilla tra le 400 persone d’estate e le 4000 d’inverno. Gli Slabber sono giovani e anziani, hippy e neonazisti, fuorilegge, artisti. Tutti accomunati dalla voglia di essere liberi e di non dover rispondere alle regole della società americana. Tutto ciò che sta al di fuori di Slab City per loro è “Babylonia”.

Slab City nasce sul terreno di una base militare attiva durante la Seconda Guerra Mondiale. Nei primi anni cinquanta le persone iniziarono a dimorarvi, mentre negli anni ottanta si ebbe un vero e proprio boom di residenti, in un paesaggio che ricorda le ambientazioni dei film western e, allo stesso tempo, un mondo apocalittico simile a quello prospettato da Mad Max. Il deserto di Sonora, uno dei più aspri e inospitali del pianeta1, circonda con la sua stupefacente bellezza, la vita di coloro che rifuggendo il mondo hanno creato per sé un altro modo di esistere. Prossimo, però, più a quello che potremmo immaginare descritto nelle cronache di un dopo-bomba più che all’evoluzione in direzione di una società più giusta o utopica.
Il film, perfetto nelle immagini ma con qualche difetto per quanto riguarda i sottotitoli italiani2, è stato presentato in concorso ufficiale al Biografilm di Bologna nel 2020 e ha fatto parte della media library di Vision du Réel.

Last Stop Before Chocolate Mountain (qui il trailer) è nato da un’esperienza di vita personale e il suo percorso creativo è stato un lungo processo durato quattro anni. Come afferma la regista: « rappresenta per me un luogo universale e metaforico in cui ci mettiamo a confronto con noi stessi, risvegliando il nostro impulso creativo, nel miraggio di una liberazione individuale. Il film racchiude l’anelito collettivo, disperato e gioioso al tempo stesso, verso l’accettazione e il senso di appartenenza.»

Bombay Beach è un luogo a sud della California, 350 chilometri a sud-est di Los Angeles, conosciuto per il suo lago tossico, il Salton Sea. Meta turistica tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta di artisti quali Frank Sinatra e i Beach Boys, adesso città in gran parte abbandonata del declino ambientale ed economico.

Il lago Salton Sea è poco profondo, senza sbocco sul mare e altamente salino, situato all’estremità meridionale della California. Nel corso di milioni di anni, il fiume Colorado aveva creato in quel territorio un deposito alluvionato, creando fertili terreni agricoli e spostando costantemente il suo corso principale e il suo delta. Il fiume scorreva alternativamente nella valle o deviava intorno ad essa, creando rispettivamente un lago salato o un bacino desertico asciutto. Il livello del lago è dipeso quindi per secoli dai flussi del fiume e dall’equilibrio tra afflusso e perdita per evaporazione.

L’attuale lago si è formato da un afflusso di acqua dal fiume Colorado nel 1905. A partire dal 1900, infatti, un canale di irrigazione è stato scavato dal fiume Colorado al vecchio canale del fiume Alamo per fornire acqua alla Imperial Valley per l’agricoltura. Le paratoie e i canali hanno subito un accumulo di limo, motivo per cui furono effettuati una serie di tagli sulla riva del fiume Colorado per aumentare ulteriormente il flusso d’acqua. Però, l’acqua delle inondazioni primaverili ha superato gli argini del canale, deviando una parte del flusso del fiume nel bacino di Salton per due anni prima che le riparazioni fossero completate. L’acqua nel letto del lago precedentemente asciutto ha creato il lago moderno, che è di circa 24 per 56 km nel suo punto più largo e più lungo.

All’inizio del XX secolo il lago si sarebbe prosciugato, se non fosse stato che gli agricoltori usavano grandi quantità di acqua del fiume Colorado per l’irrigazione e lasciavano che l’eccesso fluisse nel lago. Negli anni ’50 e ’60, l’area divenne così una meta turistica, in cui crebbero hotel e case vacanza, di cui alcuni motivi di attrazione erano costituiti dal birdwatching e dalla pesca.

Negli anni ’70, a causa del cambiamento dei sistemi di irrigazione, gli scienziati lanciarono un allarme perché il lago avrebbe continuato a ridursi e diventare più inospitale per la fauna selvatica. Mentre, negli anni ’80, la contaminazione da deflusso agricolo ha favorito l’inquinamento e la diffusione di epidemie perniciose tra la fauna selvatica. Si sono così verificate massicce morie di uccelli, soprattutto dopo la scomparsa di diverse specie di pesci, da cui dipendevano, dovute all’enorme aumento della salinità dell’acqua. Cosa che spesso ha contribuito a rovinare il litorale del lago a causa dell’accumulo delle loro carcasse e a rovinare, riducendolo sempre di più, il turismo.

Susanna Della Sala documenta ed esplora le cause che hanno portato al tracollo di questa città fantasma, attraverso le voci di alcuni outsider del posto. Un’anziana e coraggiosa donna, Sonia, che manda avanti una delle poche attività di ristoro rimaste aperte; uno dei suoi figli, Adam, un rapinatore di banche in pensione, un artista in fuga da Los Angeles e il figlio squattrinato di un principe italiano.

In tal modo la regista scopre un universo dove tutto ciò che è “non allineato” diventa una forma di espressione di sé stessi, un mezzo per poter vivere insieme in un territorio privo di leggi. Così chi ha deciso di restare dando vita ad una piccola comunità dove l’arte, non solo guarisce gli animi, ma rende Bombay Beach un luogo magico, finisce con l’indicare una via per una rinascita. Individuale e collettiva.

La creazione, da parte di questa eccentrica comunità, di un festival artistico annuale, la Biennale di Bombay Beach, ha in tal modo iniziato ad attirare nuovamente dei visitatori, artisti, intellettuali, organizzatori di eventi e appassionati che vengono attirati dalla vitalità del posto.

Last Stop Before Chocolate Montain, un film dalla fotografia, sceneggiatura e colonna sonora praticamente perfette, vincitore di tre premi all’ultimo Festival dei Popoli di Firenze, non vuole essere una risposta alla crisi generale attuale, ma una dimostrazione che anche dalle rovine di ciò che si è stati si può ripartire.

Stonebreakers (qui il trailer) racconta, invece, cosa è accaduto negli Stati Uniti nel 2020, durante la rivolta Black Lives Matter a seguito dell’omicidio di George Floyd e le elezioni presidenziali, quando ha avuto inizio una vera e propria battaglia attorno ai monumenti storici. Un conflitto culturale e politico che ha iniziato a mettere in discussione il racconto della Storia d’America, insieme alla sua celebrazione attraverso le statue di Cristoforo Colombo, dei confederati e dei padri fondatori.

Il film ha partecipato a festival internazionali e nel 2022 ha ottenuto diversi premi: il Premio per la distribuzione Imperdibili, la menzione della Giuria e il Premio del pubblico Mymovies al Festival dei Popoli, il Premio per il Miglior montaggio e per la Migliore produzione di film documentario all’History Film Fest, infine il Premio Suono e Territori al Festival Mente Locale – Visioni sul Territorio.

Tra i tre è forse quello che maggiormente indica una strada collettiva per il superamento di una condizione sociale che non è soltanto quella degli afro-americani, dei nativi e dei latinos privati di risorse e diritti, ma anche di color che, pur sentendosi convintamente e intimamente “americani”, come ad esempio gli italo-americani così legati all’immagine di Cristoforo Colombo, dimenticano l’espropriazione della memoria operato a danno della loro comunità e di tutti coloro che in passato hanno contribuito allo sviluppo della nazione e dell’economia americane, senza però poterne cogliere i frutti più ricchi e importanti, sempre riservati alla classe dominante e agli imprenditori, banchieri e finanzieri, ieri come oggi autentici robber barons del capitalismo americano.

Mentre nei primi due film si assiste, lo si voglia o meno, al declino di una classe media bianca impoverita e marginalizzata, sostanzialmente con poche speranze di superare l’impasse in cui si è venuta a trovare, tra delusioni, sconfitte e crisi degli ultimi decenni, in quest’ultimo si assiste, attraverso le lotte diffusesi su tutto il territorio degli Stati Uniti, da Richmond a Minneapolis, dall’Arizona al South Dakota, passando per la Virginia, Washington, New York, Philadelphia, il Massachusetts e tanti altri luoghi ancora, ad una sorta di rinascita collettiva orbitante intorno a due fuochi precisi: quello delle lotte dei popoli espropriati di terre, diritti e identità reale, in nome di un melting pot mai realmente paritario, e quello per il superamento di una concezione degli Stati Uniti, del loro ruolo e del loro divenire, che deve fare i conti con una Storia che, sia da parte repubblicana che democratica, non ha mai smesso di presentare evidenti ingiustizie travestite da libertà e uguaglianza e una narrazione quasi del tutto “sbiancata” della formazione dello Stato e del potere.

Una storia in cui il militarismo svolge, come nelle parate del Giorno del ringraziamento, una funzione centrale, ma ormai indifendibile. Esattamente come la mostruosa presenza dei volti dei presidenti americani scolpiti principalmente, tra il 1927 e il 1941 durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, il presidente celebre per la collaborazione interclassista iniziatasi con il New Deal, sulla cima del Monte Rushmore, posto al centro delle Black Hills e dei territori sacri per le tribù native dell’Ovest.

Alte 18 metri ciascuna, quelle sculture rappresentano i presidenti George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826) Theodore Roosevelt (1858-1919) e Abraham Lincoln (1809-1865), sceltiin quest’ordine perché rappresenterebbero rispettivamente la nascita, la crescita, lo sviluppo e la stabilità della nazione, espropriando completamente la memoria di coloro che erano un tempo i custodi di quel territorio, i Lakota Sioux, per i quali quel gruppo montuoso portava il nome di Tȟuŋkášila Šákpe ovvero Six Grandfathers (Sei Nonni).

Un ultimo appunto prima di finire: l’attualità dell’ultimo film è data anche dai drammatici eventi che si stanno svolgendo in Medio Oriente e, in particolare, a Gaza e nei territori palestinesi. E’ infatti impossibile, sentendo le storie di espropriazione territoriale, culturale e sociale narrate nel film di Valerio Ciriaci, non riandare immediatamente con il pensiero alla situazione palestinese, anch’essa non unica ma comunque estremamente paradigmatica di tutto ciò che si intende per imperialismo, colonialismo e genocidio.

Tre film, tre crisi convergenti (socio-economica, ambientale e politica), un unico grande quadro di disfatta del mito americano e dell’Occidente, così come si è voluto narrare fino ad ora.
Tutti e tre disponibili anche in streaming su Zalab View, la piattaforma on line creata da ZaLab, una delle più importanti realtà produttive e distributive nell’ambito del cinema del reale. Mentre per chi volesse organizzare altre proiezioni pubbliche è necessario scrivere un’email all’indirizzo: rovinedamerica@gmail.com


  1. Si veda W. Atkins, Tre grandi fuochi. Il deserto di Sonora, USA, in W. Atkins, Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 261- 302.  
  2. Perché, ad esempio, doggy è stato tradotto con doge, là dove invece significa, senza ombra di dubbio, cagnolino o cucciolo?  

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