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Il Decreto Crescita e il calcio ordoliberale

La mancata proroga del Decreto Crescita per la Serie A serve solo a dimostrare che il libero mercato del calcio non è tale

di Luca Pisapia da Valori

La mancata proroga del Decreto Crescita, scritto per far rientrare i cervelli in fuga e utilizzato per pagare meno tasse sui sontuosi stipendi dei calciatori stranieri, ha provocato i prevedibili strali di chi con il pallone non gioca, ma guadagna. Dirigenti e giornalisti sportivi ci hanno raccontato che ora il calcio italiano perde competitività, come se non fosse poco o nulla competitivo da anni, e per colpa della loro incapacità. Poi si sono spinti più in là, disperandosi per le sorti del Paese.

Senza Decreto Crescita, hanno spiegato commossi tra le lacrime, il calcio perde soldi. E quindi tutto il denaro che il movimento generosamente elargiva alla nazione sotto forma di tasse e ricaduta dell’indotto diminuirà drasticamente, lasciando i lavoratori in povertà e i bambini affamati a vagare per le strade. Ora, confutare qui la solita idiozia della trickle down economy per cui più i ricchi guadagnano meglio stanno i poveri è inutile. Lo ha già fatto la storia per noi.

Quello che è successo, infatti, è esattamente il contrario. Senza gli aiuti dello Stato i soldi che i club prima risparmiavano in tasse sugli stipendi dei calciatori stranieri (nell’ordine di decine di milioni l’anno) tornano ad essere versati all’erario, e quindi possibilmente destinati a scuole, case, ospedali e via dicendo. Perché quello che ci racconta questa storia, al di là della solita ipocrisia del mondo del pallone, è che il sistema calcio in tutta Europa rispecchia alla perfezione i dettami della scuola ordoliberale.

Detto in parole semplici, l’ordoliberalismo è quella variante del pensiero neoliberale che sostiene che la libertà del mercato si ottiene attraverso un rigido controllo da parte dello Stato, che interviene tramite la promulgazione di leggi e il sostegno pubblico. Sembra una contraddizione di termini, ma così non è. L’ordoliberalismo, sperimentato prima in Cile con la dittatura di Pinochet e poi in America e Regno Unito con Reagan e Thatcher, è oggi infatti la variante più diffusa del tardo capitalismo finanziario.

Lo abbiamo visto negli ultimi vent’anni in Europa e America con le politiche di austerity, il taglio dei tassi d’interesse, le leggi sul lavoro e sulle migrazioni: è sempre stato il legislatore pubblico a intervenire in favore della presunta libertà di accumulazione dei pochi privati. Lo abbiamo visto anche con il pallone, a partire proprio dalla Thatcher. Il rifacimento degli stadi che alla fine degli anni Ottanta permise la nascita della Premier League, la prima superlega privata europea, fu imposto per legge con il Taylor Report e finanziato dallo Stato attraverso un apposito fondo pubblico istituito dall’ultraliberista Thatcher.

Altro che capitali privati. Da allora nel resto d’Europa funziona così ovunque. Basti pensare a tutte le varie leggi stadi, in cui sono previsti fondi pubblici per opere private, soprattutto quando al Paese in questione sono assegnate manifestazioni importanti. O agli aiuti fiscali cuciti su misura per i club e i calciatori. Vedi il regime tributario speciale spagnolo, conosciuto come “legge Beckham”. O il trucco della detassazione dei diritti d’immagine in Inghilterra.

Per non parlare dell’Italia, Paese in cui il capitalismo da sempre prospera sugli aiuti pubblici, e da sempre all’avanguardia nel promulgare le cosiddette norme salvacalcio. Per questo, tutta la fanfara sulla mancata proroga del Decreto Crescita serve solo a dimostrare che il libero mercato (del pallone) non è tale. O meglio lo è ma nella sua unica variante possibile: quella ordoliberale per cui può definirsi libero solo quando è mantenuto dai soldi pubblici, ovvero dalle tasse dei cittadini. E non certo il contrario.

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