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Lettera di Maurizio dal carcere di Cuneo

Il nome viene dalla zona di Cuneo che si trova a nord della città. Qui intorno al 1970 iniziarono i lavori per la costruzione di un carcere, la cui effettiva edificazione riprese nel’ 76 e si concluse l’anno successivo. Queste notizie le ho apprese nella carcerazione precedente iniziata (1974) proprio nel vecchio carcere in città a Cuneo, ricavato circa 80 anni prima da un convento. Il Cerialdo mezzo costruito allora era abitato da sinti e rom. Nel 1977 quando al generale Dalla Chiesa venne dato il compito di adeguare le carceri a sopprimere le rivolte interne, a colpire chi fuori aveva iniziato a dar vita alla lotta armata, il carcere di Cuneo fu tra quelli prescelti per assolvere a quei compiti. In quelle carceri, in un primo tempo Trani, Termini Imerese, Fossombrone (Pesaro), l’isola dell’Asinara (Porto Torres, Sassari), Novara e Cuneo, vennero ricavate sezioni in cui era annullata la possibilità di ricevere i 45 giorni di liberazione ogni anno, ogni attività culturale, la censura sulla posta, il vetro divisorio ai colloqui. L’art. dell’ordinamento penitenziario applicato che prevedeva tutto ciò si chiamava art.90. In quelle sezioni il generale assieme al ministero delle carceri decise di portarci tutti i compagni arrestati fuori, i compagni cresciuti nelle rivolte, i ribelli. Così ci trovammo circa in più di mille messi sotto stretto controllo, limitati negli spazi, nella socialità, in quelle sezioni o carceri definite “speciali”.

Le carceri speciali non erano uguali nelle loro funzioni, la quotidianità aveva qua e là delle diversità volute. Ad esempio all’Asinara era impensabile giocare a calcio nei passeggi, impossibile avere con sé più cambi vestiario, mentre a Cuneo era possibile…

Allora chi era a Cuneo, sempre per esempio nella testa del ministero, poteva essere condizionato-ricattato: il carcere può darti delle cose, delle agevolazioni ma tu devi cedere parti della tua militanza. La possibilità era visibile, il personale, guardie e loro direzione, attento a coglierne ogni segno. Me ne accorsi quando venni portato qui a Cuneo nel 1982 dove rimasi fino al 1992 in quella sezione dove dal 1992 ne é stata ricavata una a regime 41-bis.

Tornato qui adesso, una continuità con quel tempo l’ho ritrovata, rinnovata dalla presenza del 41-bis, nell’ossessione, per esempio, di rendere impossibile lo scambio di libri fra noi in aula del tribunale, le difficoltà per portare la biro nella gabbia di quell’aula. Come anche nella limitazione delle cose che puoi tenere in cella: loro registrano tutto ciò che ognuno si porta dietro affinché non superi le quantità da loro fissate, per esempio 3 paia di pantaloni, 1 giubbotto… Prima di consegnarti un libro arrivato per pacco o 15 colloquio, ne registrano il titolo e segnalano la presenza di dediche o altro. Il tutto senza ruvidezza ma con precisione, pure nella registrazione di nome ed indirizzo di chi ha compiuto la spedizione. Inutile dire che tutto questo è difficile incontrarlo in altre carceri, men che meno a San Vittore.

Quel che è stato per me estremamente sorprendente però è la quotidianità, l’ambiente materiale che hanno preso forma e sostanza in un nuovo padiglione interno al Cerialdo dove la sezione del giudiziario è stata chiusa ed è lì abbandonata. Il nuovo padiglione, aperto l’anno scorso, comprende 4 piani, 18 celle ciascuno da 4 posti (72 x 4 = 288 posti), con l’attenzione a non affollare, a lasciare vuota qualche cella. Sono rimasto 6 giorni, il tempo di capire poco una delle sperimentazioni del ministero. Un’eguale sezione, mi spiegava Juan, è in funzione a Trento, condotta con le medesime regole. L’edificio non è un blocco di cementazzo come Opera o Le Vallette, somiglia anzi ad una scuola del Corvetto [quartiere popolare di Milano, NdR], così come gli interni, atrii di ingresso, scale, corridoi. Le celle sono pavimentate, piastrellate: c’é un angolo cucina con il lavabo lungo, acqua calda e fredda, un bagno con doccia; la finestra, seppur sbarrata anche con una lastra di ferro forata, è un rettangolo i cui lati lunghi sono messi in orizzontale e a portata di gomiti quando si è seduti. Niente a che vedere con la cella buia, pestilente, somiglia ad un monolocale di edilizia popolare. Qui il cambio lenzuola è una volta alla settimana, a San Vittore una volta al mese.

Esclusa la cella, tutti gli spazi, passeggio compreso, sono controllati da telecamere a 360 gradi le cui registrazioni convergono nella sala comando di ogni piano dove una guardia guarda tutto attraverso i relativi monitor. In questa ci sono anche i comandi per aprire le porte delle celle. Quando un prigioniero, per esempio, deve/vuole andare all’aria, la guardia dalla cabina chiama la cella, quindi in ogni cella c’é un microfono mediante il quale si riceve il segnale di comunicare la decisione di scendere all’aria. All’orario stabilito la porta viene aperta dalla cabina e deve essere richiusa, così la “regola”, non imposta, fatta passare dalle guardie per un’ovvietà.

Non mi ero mai trovato in una condizione in cui non potevo considerare la cella la mia tana, il luogo nostro più sicuro nel carcere. Mi sono come sentito dentro un appartamento in affitto, a me estraneo. Non è un’ovvietà, non chiudersi la porta dietro comporta le diffide, poi il rapporto e infine l’isolamento. L’intera memoria del controllo, dei ricatti, delle concessioni in cambio di… trova in questo santuario di implacabile automatismi e occhi ed orecchi elettronici, nella stessa ventennale presenza della sezione 41-bis (con le celle per il processo in videoconferenza, i colloqui separati dal vetro e chissà che altro), una ridefinizione allargata e di attacco. Mette sin dall’inizio difficoltà alla socialità anche spicciola fra prigionieri, assieme alla coscienza ribelle. Sia chiaro tutto non è così piatto; pochi giorni prima che arrivassi un piano per alcuni ha fatto lo “sciopero del carrello” per l’amnistia.

Possono essere considerate le carceri del futuro, sui tetti dell’edificio sono montati dei pannelli fotovoltaici. Una rivolta che si concluda sui tetti qui è totalmente esclusa. In queste carceri, dove anche il cibo e la sua distribuzione come qualità – inimmaginabili a San Vittore – poco hanno da invidiare ad un ospedale, l’aggressione all’autodeterminazione, alla capacità di pensare e agire dei prigionieri è andata avanti. La violenza del carcere mirata a cambiare la testa a chi ci finisce dentro, a conformarlo così all’ordine statale, trova nel carcere automatizzato, lindo, probabilmente imparato dagli USA, uno scatto rabbioso. Penso che sarà necessario essere pronti a muoversi contro punizioni, isolamento messi in campo per colpire gesti di protesta; ma la lotta all’isolamento separata da quella contro il 41-bis e in generale dalla differenziazione dei prigionieri 16 in “circuiti”, ecc., perde ogni senso. Oltre a ciò abbiamo bisogno di un riferimento di liberazione generale che potrebbe essere l’amnistia generalizzata senza altri intrugli, come dicono in Francia, “l’amnistie plénière”.

Infine due righe sulla sezione del 41-bis. La guardo da neanche tanto lontano. Alle finestre delle celle singole, una trentina in ognuno dei tre piani, sono state applicate delle bocche di lupo di plastica con un’apertura di 5 cm alla base e 15 cm alla parte superiore. Per esperienza posso dire che in quelle celle non entra aria sufficiente per riempire

i polmoni e svuotarli per la ginnastica, nemmeno per la pulizia del pavimento. Molto più ariose quelle abbattute dalle rivolte del 1969-1972 che conquistarono anche l’abbattimento di questo mezzo di tortura. Le ore d’aria sono 2, striminzite, una al mattino, l’altra di primo pomeriggio. I prigionieri, non più di 100, si incontrano solo all’aria, al massimo in 5 in passeggi inevitabilmente impediti alla ginnastica. La sala per seguire il processo “a distanza” è stata ricavata nelle salette dove un tempo si svolgeva la socialità, così il posto del telefono. Dunque il prigioniero non esce dalla sezione, dal piano, se non una volta al mese per recarsi al colloquio separato dal vetro, la stessa adoperata al tempo della sezione speciale. I prigionieri ogni mattino presto, quando sono all’aria, nel tardo pomeriggio, si salutano chiamandosi amichevolmente l’un l’altro. Il presidio di luglio sotto il carcere molti al 41-bis lo hanno salutato con fischi acuti.

Agosto 2012

Maurizio Ferrari, via Roncata, 75 – 12100 Cuneo

 

DOMENICA 7 OTTOBRE – ORE 14.00 PRESIDIO AL CARCERE DEL CERIALDO – CUNEO

Il 26 gennaio di quest’anno è scattata un’imponente operazione repressiva che ha portato diversi compagni in carcere nel tentativo di dividere, ricattare e far ripiegare il movimento NoTav su posizioni difensive. Il tutto è stato condito da una campagna mediatica con prese di posizione nette dell’intero apparato istituzionale.

L’obiettivo di rompere l’unità della lotta è presente fin dalla genesi di questa inchiesta giudiziaria, così come per molte altre, egualmente rivolte contro movimenti rivendicativi e di emancipazione sociale.

Magistralmente riassunto nelle parole di Caselli “dei venticinque arrestati solo tre sono della Val di Susa”, ecco che emerge chiaramente l’odioso teorema che distingue buoni e cattivi, che separa la gente della valle dagli “esterni”, e che tenta di dividere il movimento tra chi difende in modo pacifico legittimi interessi parziali e chi si oppone in modo violento su basi ideologiche, di carattere generale e perciò sovversive. In questo senso sono da leggere le inchieste degli ultimi mesi, e i conseguenti arresti, sempre utili ad agitare lo spettro del “terrorismo”. Poichè rispetto al movimento NoTav, una distinzione così netta circa le idee e le pratiche di lotta adottate rappresenta una palese mistificazione della realtà storica, l’attacco della magistratura si è allora concentrato nell’opera di criminalizzazione del movimento “esterno”, attraverso l’enfatizzazione dei percorsi politici di alcuni degli arrestati, dei quali, ovviamente, vengono esibite le precedenti denunce, condanne ed eventuali carcerazioni. Risulta evidente dal procedimento stesso, con immediata eco mediatica e strumentalizzazione politica, l’intenzione di sanzionare esplicitamente il movimento in quelle pratiche di lotta che confliggono con gli argini imposti dalla democrazia dello stato e dei padroni.

L’aspetto giudiziario, tanto più se così mediatizzato, preannuncia quello penale, senza il quale perderebbe di significato e utilità. Di fronte a capi di imputazione tutto sommato generici e comuni, resistenza a p.u. e lesioni, espressione di uno scenario di lotta massificato, evidente e difficilmente manipolabile, la tesi accusatoria dell’infiltrazione di professionisti della violenza politica in un contesto sostanzialmente “sano” serve a legittimare il dispositivo della carcerazione preventiva e le condizioni particolarmente restrittive di detenzione.

Così, utilizzando le parole del tribunale di Torino nella sentenza di riesame del 13 febbraio, alle “persone appartenenti ai cosiddetti gruppi ‘No Tav’” – per distinguerli dal movimento No Tav locale e dunque ufficiale – viene riservato un trattamento carcerario esemplare, con una miscela di provvedimenti che vanno dalla reclusione in sezioni speciali, all’isolamento all’aria, alla censura della posta, alla difficoltà ad ottenere i colloqui anche con i familiari, alle pesanti restrizioni per chi ha ottenuto gli arresti domiciliari, insieme ai fogli di via dai comuni della valle, caduti a pioggia in tutta Italia e, peraltro, ovunque ignorati. Tutto ciò rende evidente lo scopo differenziante di spezzare in tante specifiche situazioni e posizioni individuali il carattere collettivo del movimento e la solidarietà che lo tiene insieme. Un tentativo, sapientemente articolato, ma decisamente non riuscito di innescare paura e desolidarizzazione non solo nelle fila del movimento No Tav ma, attraverso questo, in tutti quei movimenti che si oppongono e si opporranno alla macelleria sociale che i vari governi ci riservano e ci riserveranno in futuro.

Non è quindi un caso che un ulteriore elemento di continuità fra i vari governi stia nel progetto di espansione quantitativa del sistema carcerario e di approfondimento qualitativo delle politiche di differenziazione. Infatti, in un contesto di profonda crisi economica, che è anche crisi sociale e delle politiche del consenso, il potenziamento del sistema carcerario serve a contenere una quota crescente di popolazione in esubero rispetto al grado di assorbimento del mercato del lavoro e a reprimere quelle istanze che si pongono concretamente il problema di un’alternativa all’attuale sistema di sfruttamento delle persone e dei territori o, quantomeno, che cercano pratiche di lotta efficaci per il raggiungimento dei propri obiettivi.

Se i primi sono considerati alla stregua di rifiuti da contenere in vista di un futuro smaltimento a basso costo, i secondi divengono veri e propri nemici da isolare dal resto della popolazione, detenuta e non, al fine di impedire ogni possibile “contagio” e di piegarne la determinazione, attraverso la privazione della socialità,

A tal proposito abbiamo visto come in questi ultimi anni le pesanti restrizioni proprie del regime carcerario applicato con l’art. 41-bis siano state via via estese ai circuiti speciali cosiddetti di Alta Sicurezza, dove sempre più viene rinchiuso chi è arrestato in seguito alla sua partecipazione alle lotte.

Invitiamo tutti/e a partecipare al presidio che si terrà sotto il carcere di Cuneo domenica 7 ottobre, affinché la repressione non venga vissuta come un fatto estemporaneo ed individuale ma, viceversa, sia l’occasione per fortificare la solidarietà che lega trasversalmente le lotte, nella convinzione che la repressione, la differenziazione ed il carcere siano gli elementi fisiologici con cui ogni lotta che vuole davvero vincere deve sempre più fare i conti e combattere.

Il pullman partirà da Milano, Piazza Monte Titano (dietro la stazione FS di Milano-Lambrate) alle ore 10.00.

Fermata intermedia in Viale Cassala (fermata metropolitana M2 Romolo) alle 10.30.

E’ necessario prenotare al numero 366 16 24 136.

Costo a partecipante: massimo 15 euro.

 

Assemblea regionale contro carcere e CIE (Lombardia)

 

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