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Sfidare la frammentazione e il significato dell’unità: una nuova rivolta palestinese

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Qualcosa è davvero cambiato: i palestinesi stanno rivendicando una narrativa e una lotta condivise dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

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di Yara Hawari – 29 giugno 2021

La rivolta palestinese in corso contro il regime coloniale israeliano nella Palestina occupata non è iniziata a Sheikh Jarrah, il quartiere palestinese di Gerusalemme i cui residenti devono affrontare un’imminente pulizia etnica. Mentre la minaccia dell’espulsione di queste otto famiglie ha certamente catalizzato questa mobilitazione popolare di massa, la rivolta in corso è in definitiva un’articolazione di una lotta palestinese condivisa sulla scia di oltre sette decenni di colonialismo sionista.

Questi decenni sono stati caratterizzati da continui spostamenti forzati, furti di terre, incarcerazione, sottomissione economica e brutalizzazione fisica dei palestinesi. I palestinesi sono stati anche soggetti a un deliberato processo di frammentazione, non solo geograficamente, in ghetti, bantustan e campi profughi, ma anche socialmente e politicamente. Eppure l’unità testimoniata negli ultimi due mesi quando i palestinesi in tutta la Palestina occupata e oltre si sono mobilitati in una lotta condivisa con Sheikh Jarrah ha sfidato questa frammentazione, con sorpresa sia del regime israeliano che della dirigenza politica palestinese. Infatti, una mobilitazione popolare su questa scala non si vedeva da decenni, nemmeno durante l’amministrazione Trump, che ha supervisionato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, gli accordi di normalizzazione tra Israele e vari stati arabi e l’ulteriore accelerazione delle pratiche coloniali sioniste.

Oltre a mobilitarsi per le strade, i palestinesi hanno usato forme creative di resistenza contro la loro sottomissione. Ciò include la rivitalizzazione delle campagne popolari per salvare i quartieri palestinesi a Gerusalemme dalla distruzione e dalla pulizia etnica, lo sconvolgimento dell’economia del regime israeliano e il continuo impegno di un mondo globalizzato con messaggi chiari che chiedono libertà e giustizia per i palestinesi.

Gerusalemme: un catalizzatore per l’unità

Come in tante comunità palestinesi, i residenti di Sheikh Jarrah stanno affrontando da decenni incombenti espulsioni e pulizia etnica. Infatti, i palestinesi di Sheikh Jarrah sono stati a lungo impegnati in battaglie legali contro il regime israeliano nel tentativo di prevenire l’espulsione, che servirebbe all’obiettivo finale di Israele della totale giudaizzazione di Gerusalemme.

Alla fine di aprile 2021, il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto i ricorsi dei residenti di Sheikh Jarrah contro quello che i tribunali chiamano lo “sfratto” di otto famiglie palestinesi, ordinandogli di lasciare le loro case entro il 2 maggio 2021. Rifiutando questo ordine, le famiglie hanno dato il loro contributo alla campagna popolare “Save Sheikh Jarrah” per proteggere il quartiere dalla pulizia etnica. La campagna, che è stata recentemente resa popolare attraverso i social media, ha attirato sia una massiccia partecipazione locale che l’attenzione internazionale, non ultimo perché racchiude l’esperienza palestinese di espropriazione. Di conseguenza, ha dato slancio ad altre campagne per “salvare” i quartieri della Palestina colonizzata dalla pulizia etnica e dalla colonizzazione, tra cui Silwan, Beita e Lifta.

Negli ultimi due mesi, i palestinesi di tutta la Palestina occupata hanno protestato in una lotta condivisa con Sheikh Jarrah, compresi i palestinesi con cittadinanza israeliana in città come Haifa, Jaffa e Lydd. Queste proteste e manifestazioni sono state accolte con una violenta repressione da parte del regime israeliano, una reazione che non è senza precedenti né inaspettata. Infatti, durante la Seconda Intifada, 13 cittadini palestinesi sono stati uccisi durante le proteste dalle forze del regime israeliano nella repressione più mortale dal Land Day del 1976. Durante il corso di questa rivolta, la violenza delle forze del regime è stata accompagnata da gruppi armati di coloni israeliani che attaccavano e linciavano cittadini palestinesi, saccheggiando e distruggendo case, veicoli e attività commerciali palestinesi.

Tuttavia, sono stati i diversi giorni di proteste al complesso della moschea di al-Aqsa a dominare le notizie dei media internazionali, in particolare perché questo è stato il luogo di riuscite proteste di massa nel 2017 contro le barriere elettroniche poste all’ingresso del complesso. Anche a ueste ultime proteste a metà maggio si sono scontrate con la violenta repressione delle forze di sicurezza israeliane che hanno preso d’assalto il complesso, ferendo centinaia di fedeli palestinesi con proiettili di gomma, bombe gas e granate stordenti.

A seguito di questo assalto e dei continui tentativi di pulizia etnica del regime israeliano nella Gerusalemme palestinese, il governo di Hamas a Gaza ha reagito lanciando razzi contro le città israeliane. Israele ha risposto con oltre dieci giorni di pesanti bombardamenti su Gaza, che alla fine hanno causato la morte di 248 palestinesi, tra cui 66 bambini. Nonostante le affermazioni del regime israeliano secondo cui stava prendendo di mira solo le infrastrutture militari di Hamas, sono state distrutte le infrastrutture civili vitali, interi edifici residenziali e persino le sedi dei media. L’alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha affermato che questi bombardamenti su Gaza possono costituire crimini di guerra.

Destabilizzare l’economia del regime israeliano

Mentre Gaza era sotto attacco, la mobilitazione popolare nel resto della Palestina occupata è continuata. Il 18 maggio, i palestinesi hanno indetto uno sciopero generale in una delle manifestazioni di unità collettiva probabilmente più grandi degli ultimi anni. È stato presto adottato dall’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele e, successivamente, dall’Autorità palestinese in Cisgiordania. Ma è stata la base popolare a prendere il controllo della narrazione attraverso varie dichiarazioni in arabo e in inglese che chiedevano una partecipazione diffusa e un sostegno internazionale: “Da Gerusalemme ci rivolgiamo al mondo intero, chiediamo il vostro appoggio nel sostenere questo momento di resistenza popolare senza precedenti”, si legge in una dichiarazione.

Lo sciopero è stato organizzato in risposta agli attacchi a Gaza e alla lotta per le strade di Gerusalemme. Ha visto un’ampia partecipazione ed è stato particolarmente importante per i palestinesi con cittadinanza israeliana, che hanno ribadito ancora una volta il loro legame e la lotta condivisa con i palestinesi di Gaza e Gerusalemme. Era anche, tuttavia, una tattica di interruzione effettiva dell’economia israeliana. Al 20% della popolazione di Israele, i palestinesi con cittadinanza israeliana costituiscono una larga parte della forza lavoro; Il 24% degli infermieri e il 50% dei farmacisti in Israele, per esempio, sono palestinesi.

Anche il settore delle costruzioni israeliane è per la maggior parte costituito da lavoratori palestinesi, in prevalenza provenienti dalla Cisgiordania, ma anche da cittadini palestinesi di Israele. Il giorno dello sciopero quasi tutti gli operai hanno partecipato, il che ha significato che l’industria è stata completamente sospesa per un’intera giornata. Anche i sindacati palestinesi si sono riuniti prima dello sciopero e hanno invitato i sindacati internazionali a essere solidali con loro e ad agire contro l’oppressione israeliana. Questo tipo di azione è stata dimostrata dai lavoratori portuali del porto italiano di Livorno, che si sono rifiutati di caricare armi ed esplosivi diretti in Israele sulle navi pochi giorni prima dello sciopero, affermando che: “Il porto di Livorno non sarà complice del massacro del popolo palestinese.”

Le proteste sono proseguite nei giorni successivi allo sciopero, anche se su scala ridotta e con minore attenzione mediatica. Tuttavia, lo sciopero aveva acceso una scintilla e l’attenzione sull’oppressione economica era diventata un tema di mobilitazione. Sulla base del successo dello sciopero, diverse settimane dopo, è stata annunciata una campagna per promuovere il potere d’acquisto economico palestinese. Soprannominata “Settimana Economica Palestinese”, l’evento ha sottolineato che, nonostante la stretta economica che il regime israeliano ha imposto ai palestinesi, hanno ancora un potere d’acquisto collettivo. Questa retorica ricorda particolarmente la Prima Intifada, in cui misure popolari come il movimento cooperativo e l’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani hanno sfidato la subordinazione economica e la dipendenza dal regime israeliano.

Il progetto coloniale sionista ha deliberatamente soggiogato l’economia palestinese, che è stata distrutta dalla fondazione dello Stato israeliano nel 1948 e dalla successiva occupazione della terra palestinese. Poiché il regime sionista ha conquistato la maggior parte dei settori produttivi e agricoli, ha escluso i palestinesi dalla maggior parte dei segmenti della nuova economia. Questa situazione si è estesa alla Cisgiordania e Gaza dopo la guerra del 1967, che ha portato questi territori sotto l’occupazione militare israeliana.

Una serie di accordi di “pace” durante gli Accordi di Oslo dei primi anni ’90 hanno portato i palestinesi ad un ulteriore sottomissione economica, consegnando di fatto il controllo diretto e indiretto dell’economia palestinese al regime israeliano. Gli accordi hanno inoltre aggravato la frammentazione sociale dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Mentre alcuni sostenevano che i protocolli economici avrebbero portato prosperità economica a tutti, in realtà hanno alimentato il clientelismo capitalista palestinese, rafforzando ulteriormente il divario di ricchezza e le divisioni di classe nella società.

La Settimana Economica Palestinese ha incoraggiato varie attività in tutta la Palestina occupata, da Haifa a Ramallah e oltre, per promuovere i prodotti e le produzioni locali palestinesi contro quelli israeliani che hanno monopolizzato il mercato con la loro abbondanza e prezzi competitivi. In questo modo, la Settimana Economica Palestinese ha proposto una nozione più completa della dominazione coloniale intrecciata con il capitalismo, in cui la liberazione economica è un aspetto fondamentale della più ampia lotta di liberazione nazionale.

Comprendere l’unità nell’Intifada dell’Unità

Dopo il “cessate il fuoco” del 21 maggio tra Israele e Hamas, l’attenzione dei media internazionali è stata distolta dalla rivolta e le inevitabili discussioni sulla ricostruzione di Gaza hanno da allora dominato il ciclo delle notizie. Nonostante la massiccia distruzione e le vittime a Gaza, tuttavia, molti palestinesi hanno considerato l’esito una vittoria di Hamas.

È importante sottolineare, tuttavia, che la rivolta, iniziata prima del bombardamento di Gaza, va oltre Hamas e la sua narrativa di vittoria. Come ha fatto notare un collega palestinese a Gaza a questo autore: “Questa volta a Gaza è stato diverso. Questa volta ci siamo sentiti come se non fossimo soli”. In effetti, data la mobilitazione di massa in tutta la Palestina occupata e la rinascita dei legami popolari di fronte alla frammentazione forzata, questa nuova rivolta è stata soprannominata “Intifada dell’Unità”.

Nel periodo dello sciopero, è stato pubblicato online un manifesto intitolato “Il Manifesto della Dignità e della Speranza dell’Intifada dell’Unità”, che rifiutava questa frammentazione forzata:

Siamo un unico popolo e un’unica società in tutta la Palestina. Le orde sioniste hanno cacciato con la forza la maggior parte della nostra gente, ha rubato le nostre case e distrutto i nostri villaggi. Il sionismo era determinato a fare a pezzi coloro che erano rimasti in Palestina, isolarci in aree geografiche settoriali e trasformarci in società diverse e disperse, in modo che ogni gruppo vivesse in una grande prigione separata. È così che il sionismo ci controlla, disperde la nostra volontà politica e ci impedisce una lotta unitaria contro il sistema coloniale razzista in tutta la Palestina.

Il manifesto prosegue nel dettaglio delle varie frammentazioni geografici del popolo palestinese: la “Prigione di Oslo” (Cisgiordania), la “prigione della cittadinanza” (terre occupate nel 1948), il brutale assedio di Gaza, il sistema di Giudaizzazione a Gerusalemme, e quelli in esilio permanente. L’imposizione di questa geografia colonizzata sulla Palestina, caratterizzata da muri di cemento, posti di blocco, comunità di coloni recintati e recinzioni cablate, ha lasciato i palestinesi a vivere in aree separate e isolate l’una dall’altra.

Come nota il manifesto, ciò non è avvenuto in modo inevitabile o casuale. Piuttosto, questa deliberata politica di Divide et Impera (Dividi e Domina) è stata attuata dal regime sionista per minare una lotta anticoloniale palestinese unita. Ma i palestinesi non sono rimasti passivi. Nel corso degli anni, molti gruppi popolari hanno compiuto sforzi per interrompere la frammentazione, inclusi vari movimenti di protesta giovanile come la richiesta di unità politica del 2011 tra la Cisgiordania e Gaza, le manifestazioni anti-deportazione del 2013 contro la politica israeliana di pulizia etnica dei beduini nel Naqab, e la campagna per revocare le sanzioni imposte dall’Autorità Palestinese a Gaza.

Più recentemente, le donne palestinesi hanno fondato Tal’at, un movimento femminista radicale che cerca, tra le tante cose, di trascendere questa divisione geografica affermando che la liberazione della Palestina è una lotta femminista. Quest’ultima articolazione dell’unità palestinese deriva da questi continui sforzi per rivitalizzare una lotta palestinese condivisa.

Eppure gran parte del dibattito internazionale non è riuscito a riconoscerlo. Infatti, la violenza in atto nei territori del 1948 è stata spesso erroneamente definita come violenza intercomunitaria in bilico sull’orlo di una guerra civile tra ebrei e arabi, una cornice che separa nettamente i cittadini palestinesi di Israele dai palestinesi di Gaza e di Gerusalemme. Questa valutazione non riesce a descrivere la realtà dell’apartheid, in cui ebrei israeliani e cittadini palestinesi di Israele vivono vite totalmente separate e diseguali.

Infatti, questo eredita una tendenza decennale di riferirsi ai palestinesi con cittadinanza israeliana come “arabi israeliani” nel tentativo di disconnetterli dalla loro identità palestinese. Nella migliore delle ipotesi, la loro situazione è descritta tradizionalmente come il caso non eccezionale di un gruppo di minoranza che affronta la discriminazione da parte della maggioranza ebraica, piuttosto che come i nativi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 che continuano a resistere alla cancellazione coloniale. L’incapacità di riconoscere le ultime proteste all’interno dei territori del 1948 come una parte distinta di una rivolta palestinese più grande e unita è particolarmente notevole considerando il loro aspetto; la maggior parte delle manifestazioni è stata caratterizzata da un mare di bandiere palestinesi e dal suono di canti chiaramente palestinesi.

Anche Gaza è stata lentamente disconnessa dalla lotta palestinese da questi stereotipi, discussi come una questione completamente separata da quella del resto della Palestina occupata. Il più delle volte, il continuo bombardamento del regime israeliano viene spiegato come una guerra tra Israele e Hamas, una narrativa distorta che sminuisce deliberatamente il fatto che Gaza è, in effetti, il fulcro della lotta palestinese, come sostiene Tareq Baconi, Analista Capo di Crisis Group per Israele/Palestina ed Economia dei Conflitti.

Unità contro ogni previsione

Mentre il raggio di mobilitazione e la portata della partecipazione popolare a cui si è assistito nelle ultime settimane sono stati impressionanti, il costo di questa rivolta è stato, e continua ad essere, alto. Oltre alla brutalità a Gaza, i palestinesi altrove in tutta la Palestina occupata sono stati oggetto di brutali violenze e arresti. Nelle ultime settimane, durante l’operazione “Legge e Ordine” del regime israeliano, sono stati arrestati migliaia di cittadini palestinesi di Israele, la maggior parte dei quali giovani uomini della classe operaia. Il regime israeliano usa questi arresti di massa come una forma di punizione collettiva per intimidire e spaventare le comunità palestinesi.

In Cisgiordania, l’Autorità Palestinese è ancora impegnata nel coordinamento della sicurezza con il regime israeliano e ha arrestato vari attivisti coinvolti nelle proteste. L’arresto di attivisti politici, in particolare quelli critici nei confronti dell’Autorità Palestinese, non è una novità; segue un modello di repressione politica sia in Cisgiordania che a Gaza. Infatti, il 24 giugno 2021, le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese hanno arrestato e picchiato a morte Nizar Banat, noto attivista e critico del regime. Da allora, sono scoppiate manifestazioni in tutta la Cisgiordania per chiedere la fine del governo del Presidente Mahmoud Abbas. Le proteste sono state accolte con brutale violenza e repressione, anche se questo comportamento non sorprende. L’Autorità Palestinese è nota per aver abusato del proprio potere attraverso questo tipo di intimidazione violenta.

L’Autorità Palestinese dominata da Fatah in Cisgiordania è stata totalmente esclusa durante la rivolta, in particolare di fronte alla narrativa della vittoria di Hamas. Eppure questa rivolta non mostra solo la crescente irrilevanza dell’Autorità Palestinese e la lotta per la legittimità e il potere tra i due partiti palestinesi dominanti. Ha dimostrato che la base popolare e la dirigenza decentralizzata possono svilupparsi organicamente e al di fuori delle istituzioni politiche corrotte. Ha anche dimostrato che i palestinesi desiderano una mobilitazione unificata.

Lo slancio per la rivolta continua e il sentimento di unità sta dando i suoi frutti nonostante la diminuzione dell’attenzione dei media internazionali. Qualcosa è davvero cambiato: i palestinesi stanno rivendicando una narrativa e una lotta condivise dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. In tal modo, riconoscono di dover affrontare un unico regime di oppressione, anche se si manifesta in modi diversi nelle frammentate comunità palestinesi. In definitiva, proprio come quelle precedenti, questa rivolta ha ribadito che il popolo è il luogo del potere attraverso il quale la liberazione palestinese deve e sarà raggiunta.

Yara Hawari è Senior Analyst di Al-Shabaka: The Palestine Policy Network. Ha completato il suo dottorato di ricerca in Politica del Medio Oriente presso l’Università di Exeter, dove ha insegnato in vari corsi di laurea e continua ad essere un ricercatore onorario. Oltre al suo lavoro accademico, incentrato sugli studi indigeni e sulla storia raccontata, è una frequente opinionista politica che scrive per vari media tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera English.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

 

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