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Libano: altro che rivolta di WhatsApp

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Un’altra rivolta sul costo della vita: dopo Egitto e Iraq è la volta del Libano.

A scatenare le proteste sono state le nuove misure di austerity che ha promulgato il governo per appianare il debito ormai giunto al 150% del PIL. A fare particolare scalpore sono state le nuove tasse su beni di largo consumo tra cui il tabacco, il carburante (ricorda qualcosa?) e le telefonate via internet (una tassa di 20 cent al giorno sull’utilizzo delle chiamate via app).

Le proteste, che sono considerate le più grandi da diversi anni, sono partite giovedì e hanno visto migliaia di persone scendere in piazza in tutto il paese. Ci sono stati diversi scontri e la polizia ha utilizzato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Si parla di 2 morti e circa 60 feriti a causa della repressione poliziesca. Diverse strade sono state bloccate a Beirut e nelle regioni del Nord, Sud ed Est del Libano con barricate improvvisate fatte di pneumatici incendiati.

I media occidentali hanno dato risalto alle proteste con il solito sensazionalismo, parlando della “rivolta di WhatsApp”, ma le ragioni che hanno spinto i manifestanti a scendere in piazza sono molto più profonde, di classe, ed indicano direttamente le responsabilità del governo di Saad Hariri nella crisi che vive il paese. La tassa sulle chiamate online infatti è stata subito ritirata, ma le proteste non hanno accennato a finire, anzi sono aumentate di intensità con scontri nella notte tra il 17 e il 18. Molte scuole, negozi e aziende sono rimasti chiusi. A risuonare anche in questo caso nelle piazze è lo slogan “il popolo vuole la caduta del regime”. La trasversalità delle rivendicazioni che stanno attraversando i paesi arabi si rafforza e sarà interessante osservare se saprà trovare una sua generalità e una capacità di verticalità ben oltre la controparte dei governi locali.

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