
In Libia con una pistola in mano
Siamo ad un mese dal 17 febbraio, e dalle prime giornate di mobilitazione del movimento libico contro il regime di Gheddafi, si chiedeva dalla piazza la fine dell’oppressione, riforme politiche e sociali, e la fine della povertà. Giovani e giovanissimi libici dopo aver assistito alla caduta nell’arco di un mese di mobilitazione di Ben Ali e Mubarak credevano essere arrivata l’occasione per esprimere il proprio dissenso contro Gheddafi e reclamare il cambiamento di un regime immobile ed ultra-repressivo, dal socialismo promesso e mai realizzato, e da un antisionismo e antimperialismo sciolto da anni nei pozzi di petrolio. Le giornate della collera libica sollevarono intere città e villaggi, i monumenti del libro verde buttati giu dalle folle in festa e buona parte delle figure di spicco istituzionali e tribali locali abbandonare il rais per raggiungere la piazza. Dopo l’impiego di truppe mercenarie anche pezzi via via consistenti dell’esercito e della polizia raggiunsero le città insorgenti e liberate dove i primi consigli locali venivano allestiti. Primo tra tutti quello di Bengasi, dove il consiglio si è impegnato fin da subito a divenire il referente autorevole per le diplomazie internazionali, comprendendo non pochi uomini del regime passati all’ultimo minuto dalla parte degli insorgenti.
Tutti contro Gheddafi! E’ la convergenza del movimento libico che comprende differenti fazioni, mosse da diversi interessi, giocate su una composizione sociale variegata ma che vede in prima fila una generazione di giovani ribelli che dal giorno alla notte sono passati dal silenzio alla politica, e dalla politica alla resistenza armata. Il mainstreem occidentale ha concentrato i suoi sforzi nel narrare una Libia in guerra civile, mettendo in secondo piano come le città e i villaggi si sono liberati: tramite cortei e manifestazioni di massa. Le città in mano agli insorti si sono autogovernate e hanno superato le difficoltà tramite la solidarietà reciproca come ad esempio l’istituzione della Petrol Engineering Comunity, associazione fondata spontaneamente dagli operai del petrolio, che ha dirottato gli entroiti nell’acquisto di vivere e beni di prima necessità per le comunità. Anche le armi sono entrate in possesso dei rivoltosi che fin dai primi giorni di insurrezione hanno allestito dei check-point per difendere i territori liberati.
Il 6 marzo, l’organizzazione degli scout libici ha fondato “i giovani del cambiamento”, che sta mobilitando energie per organizzare al meglio i trasporti, le pulizie pubbliche, sostenere gli ospedali e lavorare alla pubblicazione di reportage ed articoli giornalistici. Queste prime istituzioni di autogoverno emergono da giornate di scontri e manifestazioni represse duramente dalle truppe mercenarie di Gheddafi. Brega è stata conquistata dai suoi abitanti, e quando Ras Lanouf aveva ricevuto l’appoggio del movimento di Bengasi tutta la città si era mobilitata. Sembra che il movimento insorgente per settimane non appena liberava la città mandava la solidarietà alla prossima senza avere una precisa strategia militare di conquista del paese. Tanti ragazzi del movimento partivano su jeep per raggiungere l’altro villaggio e così via. Armati alla meno peggio, queste truppe “spontanee” senza nessuna formazione militare, lanciati in scenari di guerra durissimi (come quelli in territori desertici) sono stati, e sono in parte l’avanguardia del movimento insorgente.
Viene da chiedersi a questo punto cosa facciano e dove siano le truppe regolari (e professionali) passate dalla parte di Bengasi liberata. Sappiamo da diverse fonti che fin dai primi giorni di crisi del regime, mentre le istituzioni si sbriciolavano, diversi contingenti dell’esercito si ammutinavano insieme a numerosi alti generali e passavano dalla parte della piazza. E’ difficile immaginare che se fino ad una settimana fa, gli insorti controllavano ampie regioni del territorio libico questi non abbiano tentato di appropriarsi e mettere al sicuro gli arsenali presenti nelle caserme e nelle strutture logistiche del regime. E allora viene da chiedersi: per quale ragione, dai reportage trasmessi anche dalla Rai o da Al-Jazeera, come da fonti indipendenti e da reporter al fronte, continuiamo a vedere ragazzi giovanissimi maneggiare qualche arma senza neanche un giubbotto antiproiettile? Dov’è l’equipaggiamento dei militari? Solo qualche arma leggera, ma nessun katiuscia, casco, giubotto antiproiettile, raramente un paio di mortai, e nessun cannone. Insomma se è vero, e così pare, che Gheddafi ha dalla sua corpi scelti e buona parte dell’aviazione, il resto dell’esercito “solidale” con la collera libica che fine ha fatto? Sembra che giorni fa abbia sparato un paio di razzi a delle imbarcazioni della marina lealista. Tutto qui? E perché? Viene il dubbio che l’esercito in questi giorni di massacri e offensiva lealista se ne sta nelle caserme, e che il rapporto tra i generali, il consiglio di Bengasi e i giovani rivoluzionari impegnati a resistere strenuamente non sia per niente lineare anzi, lo scenario fa supporre che ci sia una frattura politica (e quindi strategica) tra chi ha tentato, giovanissimo, impreparato e armato quasi solo di coraggio di sostenere le città insorgenti, e chi invece se ne sta “ad attendere” in caserma o a Bengasi è indaffarato con le diplomazie occidentali o a far sventolare il tricolore francese da qualche palazzo delle istituzioni locali.
In queste ore Gheddafi ha lanciato la “battaglia decisiva” che dovrebbe far crollare nelle sue mani, come si augura il figlio, Misurata e Bengasi (che sta venendo colpita ripetutamente dall’aviazione lealista). E’ l’offensiva del Rais che forte di mercenari e aviazione fedele riconquista città dopo villaggio il terreno, ma chi è che si sta opponendo all’avanzata? Forse sono proprio quei giovani che abbiamo visto gioire mentre facevano a pezzi le statue del libro verde esattamente un mese fa e di cui abbiamo letto il fiume in piena di twitter che dicevano all’occidente “Giù le mani dalla nostra rivoluzione!”, loro è sicuro, la rivoluzione la stanno facendo per davvero, e la difendono come possono da una reazione che forse non è già più targata solo Gheddafi.
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