
Aska è di chi arriva. Chiedi del 47
Riceviamo e pubblichiamo volentieri…
di Daniela
«E’ questo un libro che può sembrare scritto e pubblicato in ritardo, perché è stato concluso nel novembre 1976, periodo in cui lo Stato iniziava a costruire meticolosamente e lucidamente quel clima che oggi ci troviamo a vivere nel nostro paese: quello dell’autoblindo e dello stato d’assedio ovunque si esprima e si organizzi la volontà di lotta contro il governo della rivincita padronale contro la classe operaia e i movimenti di massa».
(Il diritto all’odio. Dentro/fuori/ai bordi dell’area dell’autonomia)
In questo momento più del solito, ma non è un fenomeno specifico di questi giorni, sembra esserci una gara a mettere etichette su Aska e sulle persone che fanno parte di quella proposta organizzativa. “E’ un covo di delinquenti”, “è il motore delle proteste violente”, “è un luogo in cui si fa socialità”, “è un posto in cui si produce cultura”. Di conseguenza, le persone che ne fanno parte sarebbero violente o, all’estremo opposto, dipinte come delle persone che, generosamente, si prendono cura del quartiere di cui Aska è parte integrante, fanno le merende per l3 bambin3 che passano il pomeriggio in via Balbo, organizzano il Carnevale, mettono a disposizione il giardino per le feste di compleanno dato che non ci sono posti in cui non vi sia l’obbligo di consumare per poter stare insieme.
Aska non è un gruppo di boy-scout (anche se più di qualcun ha fatto quell’esperienza e, chissà, magari anche in quel contesto ha potuto fare esperienza di cosa vuol dire stare in gruppo, cooperare per fini comuni) e non è un covo di delinquenti. Aska è sicuramente una proposta organizzativa che si rifà a una genealogia precisa e che negli anni ha costruito un suo metodo e l’ha praticato. Aska è tante, tantissime cose per le persone che l’attraversano, che ne fanno parte, che hanno messo tutta la propria vita in quel progetto, che hanno ascoltato concerti, trascorso le proprie serate in un posto in cui non serve spendere chissà quanti soldi per ascoltare musica, chiacchierare, bere in compagnia, giocare a calcetto. “Non siamo un partito, non ci sono tessere. Quindi il dentro e il fuori è molto più sfumato, il noi che si crea dura ben al di là delle diverse forme di militanza che in fasi diverse della vita possono legare le persone ad Aska”. Questa più o meno letteralmente è una frase di cui molt riconosceranno l’autore. O, almeno, la prima persona a cui l’ho sentita dire io, parecchi anni fa ormai.
In questi giorni il tentativo cui stiamo assistendo talvolta in modo più sottile, per la maggior parte del tempo in modi molto più scomposti e grotteschi è quello di bollare Aska, squalificarla, parlare per, rinchiuderla in un recinto…e allora può essere utile soffermarsi un attimo su questi tentativi. Il linguaggio, la lotta per chi riesce a definire cosa e chi ha indubbiamente a che fare con il potere; le rappresentazioni e l’immaginario sono una posta in gioco importante. Cos’è che fa esistere ciò che nominiamo? Chi ha il potere di nominare? Questi sono interrogativi che il movimento femminista e il movimento transfemminista si pongono da tempo. Negli anni ’60 – ricorda Remedios Zafra introducendo l’importante saggio di Brigitte Vassallo “Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe” – Betty Friedan si riferiva al problema delle donne come al “problema senza nome”. La rivendicazione femminista ha messo al centro le lotte per poter nominare, per avere un linguaggio che non invisibilizzasse all’insegna di un presunto universale che universale non è. Oggi Vassallo invita a non trascurare ciò che si rifiuta di essere confinato nelle parole del padrone e contribuisce ad affrontare la necessaria complessità del linguaggio per l’emancipazione collettiva. Appiattire i concetti, svuotare di senso alcune parole abusandone, etichettare, fare apparire neutri quelli che sono giudizi e punti di vista soggettivi, sono alcuni dei meccanismi su cui questi movimenti non hanno cessato di interrogarsi e, talvolta a caro prezzo, di immaginare antidoti, pratiche altre per disvelarne i rapporti di dominio. Questo patrimonio di pratiche e di conoscenze è prezioso per farci analizzare con consapevolezza alcuni meccanismi all’opera in questa vicenda. Tra questi troviamo il tentativo di negare i diversi ruoli sociali e le appartenenze multiple delle persone per proporne una visione stereotipata e distante, all’opera per esempio quando durante le proteste studentesche si dice di chi fa parte dei collettivi “quelli non sono studenti, sono giovani dei centri sociali” come se le due cose fossero mutualmente esclusive. Squalificare 30 anni di lotte, di socialità, di comunità e tentare di racchiuderli in “è un covo di delinquenti” è uno dei tentativi più grotteschi insieme all’enfasi sull’illegalità e sull’abusivismo che, portati avanti da personaggi di questo governo, farebbero quasi ridere se non fosse che trovano pure tutto lo spazio che vogliono sui giornali senza essere minimamente messi in discussione da qualche domanda che dovrebbe sorgere quantomeno spontanea rispetto al fatto che la legalità, come dimostrano i fatti, non sembra essere proprio il primo dei loro valori morali né l’abusivismo pare essere qualcosa che vogliono contrastare, se non ovviamente quello dei centri sociali. Perché lì la posta in gioco è ben altra. E la sinistra? La sinistra lo sa che la posta in gioco è ben altra? Provare a nascondersi, anche in questo caso, dietro al non rispetto delle regole, all’abusivismo da sanare non apre nessuno spazio in cui potersi riconoscere in cui potersi sentire rappresentat da coloro che fanno questi discorsi e si comportano come fossero gli amministratori di un condominio. La politica estera sta mostrando che sarebbe decisamente il caso di percorrere altre vie, di prendersi la responsabilità di nominare il conflitto come qualcosa di ben diverso dalla violenza cui lo si vorrebbe relegare. E anche nominare apertamente che di fronte alla reazione popolare che si sta dando, questo governo ha di nuovo paura. Per quanto mostri i muscoli, ha paura. Come ha avuto paura delle manifestazioni per la Palestina perché sebbene si affannino con tutti i mezzi a loro disposizione – e sono tanti – a dire che in piazza a protestare per Aska ci sono solo i violenti e a riempire lo spazio mediatico di interviste a presunti commercianti a cui è la polizia stessa a dire di abbassare le saracinesche, le persone che vivono in città e ancor più quelle che vivono in quartiere, si conoscono e parlano tra loro. Ai cortei ci sono, sanno bene che Aska mai ha fatto alcun danno ai negozi. E la solidarietà è più che mai trasversale. Sempre meno sono le persone che si informano sui giornali – presidio di valore inestimabile di democrazia al punto che se Elkann decide di vendere trattando i lavoratori e le lavoratrici come carta straccia, la galassia della politica istituzionale lascia fare come se nulla fosse.
Aska – sarà che la boxe popolare in quelle mura non è mancata – non sarà così semplice da mettere all’angolo. Il fatto che sui social network praticamente chiunque stia prendendo parola per condividere un ricordo, per dire cosa è per lei Aska, cosa per lui, cosa per loro, per raccontare di quella volta che…è significativo. Aska non è solo un simbolo, ma è anche indubbiamente un simbolo. Piantedosi lo sa ed è per questo che si è affrettato a intestarsi a mezzo social, l’operazione. Ma sta correndo troppo nel dire che quell’esperienza è finita perché come diceva uno dei cori di sabato “Piantedosi, Askatasuna non è solo un palazzo”. In città è come se si fosse trattato di una scintilla, non si sta in strada solo per Aska. Si sta in strada perché si vuole stare insieme, perché si vuole di più della mera sopravvivenza, perché si vuole cambiare di tutto di questo presente di miseria, di sensazione di impotenza, asfittico e ora pure guerrafondaio, a cui vorrebbero condannarci. Come si è detto, la Torino che lotta e la Torino partigiana è scesa in piazza. E non solo.
Anche nel caso dei blocchi in solidarietà alla Palestina, lo spazio mediatico era saturo di una narrazione quasi univoca davvero lontana dalla realtà, ma le persone non si sono fatte raccontare quel che avevano davanti agli occhi e hanno partecipato, si sono messe in gioco. In quelle settimane il senso di ingiustizia schiacciante, il senso di impotenza si è convertito in motore politico, e ha dimostrato tutta la sua forza. Aska nel movimento Blocchiamo tutto è un simbolo e un punto di riferimento. È il contrario della rassegnazione ed è un esempio di coerenza in un contesto in cui non è che non è che se ne possano fare facilmente molti altri. Tutto questo, riprendendo le genealogie da cui nasce questa proposta politica organizzativa parla al «futuro anteriore».
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