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Welfare, lavoro e migrazione. Un’inchiesta dentro e oltre l’8 marzo

Le effettive dimensioni del lavoro di riproduzione,

che diventa sempre più complesso perché in parte socializzato,

e perché aumentano le aspettative sulla qualità della riproduzione degli individui, non sono chiare:

il metodo teorico marxiano dell’inchiesta diventa necessario

per capire su quale terreno le soggettività possono esprimere desiderio di cambiamento.

Alisa Del Re,“Inchiesta operaia e lavoro di riproduzione”

Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le riflessioni e i contributi in avvicinamento alla data internazionale dell’8marzo, che quest’anno vedrà la costruzione di uno sciopero globale – chiamato dalla rete argentina Ni una menos e a cui hanno aderito 40 paesi nel mondo.

Come compagne e compagni antagonist*, crediamo che la possibilità di costruire uno sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo sia un’opzione che per rendersi concreta vada necessariamente ‘guardata’ attraverso le ottiche femministe e di genere, che siano lenti per leggere le realtà che attraversiamo nella nostra quotidianità di lotta.

Nel contesto italiano, basato su quello che viene definito un welfare familistico, gli effetti della crisi globale e le conseguenti politiche di austerità si sono riversate in particolare su le donne, nella misura in cui sono i soggetti che tradizionalmente si fanno carico dei problemi legati alla sfera riproduttiva. In altre parole, di fronte all’erosione continua delle politiche di welfare, in quelle famiglie dove le difficoltà per arrivare a fine mese sono sempre di più, sono spesso le donne ad impiegare tempo della propria esistenza nel sopperire alla mancanza di servizi e ammortizzatori sociali. Inoltre, la situazione fuori dalle mura domestiche non cambia: quello del lavoro è un mondo in cui le richieste (e la retorica) sono improntate sui sacrifici, sull’identificazione con l’azienda e la messa a valore della propria sfera affettiva e di capacità.

In questo senso, pensiamo sia efficace un ragionamento che parta dal rifiuto dell’isolamento sociale e della colpevolizzazione come risposta allo scaricarsi verso il basso degli effetti della crisi, e che ciò chiami in causa i percorsi di autodeterminazione che abbiamo costruito negli anni. Pensiamo dunque sia importante portare un contributo che parta anche dalle lotte sulla questione abitativa, sui quartieri e dalle scuole e che abbia la prospettiva di andare oltre la singola data di mobilitazione in occasione dello sciopero globale.

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Prendendo il punto zero dell’otto marzo come una possibilità per aprire dei ragionamenti dentro i nostri percorsi di lotta, abbiamo iniziato nelle ultime settimane un percorso di riflessione all’interno dello Spazio Popolare Neruda.

Nell’occupazione abitativa, che va avanti da più di un anno e in cui vivono circa 50 nuclei familiari, le donne, nella stragrande maggioranza migranti, hanno ruoli tutt’altro che marginali, anzi. Il protagonismo delle donne all’interno dello Spazio, come nelle iniziative di lotta all’esterno, è determinante. Tra le mura del Neruda sono le prime a occuparsi della gestione del quotidiano domestico; turni di pulizie, comunicazione tra gli occupanti, gestione degli spazi collettivi. Idem per quanto riguarda le iniziative di lotta che scandiscono la vita di chi occupa: muri popolari contro gli sfratti, contestazioni e rivendicazioni nei confronti delle istituzioni, coinvolgendo nelle iniziative i propri figli e il loro nucleo familiare.

Inoltre, sono spesso figure femminili quelle che per prime si affacciano al percorso di lotta sulla casa contattando lo sportello Prendocasa, dedicato alla questione abitativa.

La partecipazione dello Spazio Neruda alla piazza dell’8 marzo parte quindi dalla volontà di uscire dalla retorica vittimizzante a cui spesso viene relegato il ruolo delle donne migranti (anche in contesti sociali a noi affini), puntando piuttosto sul mettere in luce il loro protagonismo in un contesto di lotta e di scelta di autodeterminazione delle proprie esistenze, fuori dai ricatti dei padroni di casa e dell’assistenza sociale.

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Parallelamente, abbiamo iniziato un percorso che, partendo da alcune interviste alle singole occupanti, riuscisse a darci degli strumenti collettivi di indagine e conoscenza della vita dentro l’occupazione, nel tentativo di investigare il ruolo del lavoro di riproduzione e l’intersezione delle differenze di genere, classe e razza dentro lo Spazio.

A partire dalle poche interviste che abbiamo fatto fino ad ora, ci sembra si possano rilevare alcuni elementi ricorrenti.

Il primo fra questi è quello della mancanza di documenti o del rinnovo periodico del permesso di soggiorno come meccanismo di ricattabilità nei confronti delle donne migranti. L’accesso ai requisiti per evitare l’espulsione è infatti condizionato dal possesso di un contratto di lavoro regolare o dalla subordinazione a un marito o a un capo-famiglia che sia in grado di garantire per la persona. Il tempo impiegato nelle pratiche e le spese correlate alla burocrazia spesso pesano sulla vita quotidiana come ostacoli inaggirabili.

Inoltre, l’articolo 5 del Piano casa, che nega ormai la possibilità di avere la residenza all’interno delle occupazioni, interviene direttamente sulla possibilità di accedere a una serie di diritti legati al welfare, come sgravi sulle spese, accesso alla sanità e, in alcuni casi, addirittura all’istruzione.

A questo si somma, alimentando un circolo vizioso, la difficoltà nel trovare un lavoro che non sia – quando almeno esiste!- in nero e sottopagato. La mancanza di un reddito si accompagna alla preoccupazione di non riusce a rispondere alle necessità proprie e, prima ancora, dei propri figli.

Altro elemento è quello della relazione con l’assistenza sociale e i meccanismi di colpevolizzazione e giudizio che vengono messi in atto dai servizi cittadini nei confronti delle donne con bambini.

La possibilità di inchiestare questi differenti livelli ci dà modo di ragionare e agire nel percorso di occupazione e lotta con nuovi strumenti.

Attraverso un approccio che sappia dare attenzione e valorizzare elementi culturali differenti, vorremmo da un lato cercare di capire se esistono e come si costruiscono possibilità di socializzazione del lavoro domestico e riproduttivo dentro gli spazi dell’occupazione, dall’altro interrogare la relazione tra mondo del lavoro, welfare e donne.

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Qui proponiamo l’inizio di questo lavoro (che manterremo in aggiornamento): 3 ritratti di occupanti della Spazio popolare Neruda, con provenienze e età diverse ma accomunate dal fatto di essere donne indipendenti, che crescono i loro figli senza l’aiuto di un marito dentro l’occupazione, di cui riportiamo parti delle interviste.

Costance, 37 anni, due figli, nigeriana, affronta il tema del rapporto con l’assistenza sociale:

«Ci potrebbe essere l’assistenza sociale. Però io non ho mai avuto l’assistenza sociale, non riesco ad averla, allora mi sono ritirata anche se io ho bisogno, perché se avevo mille euro magari non andavo neanche lì a chiedere, hai capito? […] Chi non ha bisogno di miele quando ha solo amaro in bocca? Cioè, se mi danno del miele io…chi è che dice di no? Io lo accetto sicuramente, cosa ti devo dire? Se mi danno una mano, io volentieri accetto, se poi non me la danno io magari spero di trovare un lavoro. Poi tra un po’ a mio figlio dovrò cominciare a comprare i libri, le matite…tra un po’ diventerà ancora più difficile, senza lavoro sarà dura.

Poi arrivano questi dell’assistenza sociale e te lo prendono [tuo figlio] perché non riesci a guardarlo…mah! accettare i loro soldi…alcune dicono: “Se io non accettavo i soldi dell’assistenza sociale, magari non avevano il diritto di venire a prendere mio figlio”. Si, certo, magari loro ti danno 400 euro al mese, ma poi se c’è un problema, tu una volta non hai avuto il tempo di andare a prendere tuo figlio a scuola in tempo, chiamano l’assistenza sociale da scuola, prendono il bambino e te lo portano via e non lo vedi mai più fino a diciotto anni…non è bello. Allora forse è meglio non accettare neanche quei 400 euro, così almeno non hai nessun rischio. […]E’ un business, secondo me è proprio un business perché sennò perché devi andare a togliere un bambino dalla mamma invece di darle una mano? Qualcuno dice: “Ma no! Se tu sei brava no. Se invece lasci il bambino e vai in discoteca e se succede qualcosa non arrivi perché sei lontana…” magari gli assistenti sociali non hanno tutta la colpa. Io non sono mai stata dentro [i percorsi dell’assistenza sociale], però io immagino come può essere…Loro cosa vogliono? Cosa devi fare che non va bene? Se una volta al bambino viene la febbre a scuola e chiamano l’assistenza sociale che lo porta in ospedale, che può succedere, poi da lì loro iniziano a pensare che non sei in grado di tenere questo bambino…io immagino eh? Forse le cose iniziano da questi piccoli errori che tutte le madri fanno. A tutti può capitare, ci sarà una prima volta, una seconda volta…non sempre, quando è così certo che non va bene!».

Fatima, 46 anni, due figli, marocchina, racconta come ha ottenuto il permesso di soggiorno:

«Io sono arrivata con il ricongiungimento familiare, perché avevo il mio ex marito che lavorava qua da più di cinque anni. E così appena arrivata ho preso un permesso di due anni e subito dopo che è nato mio figlio ho cambiato [tipo di permesso] per mettere anche a lui nei documenti e mi hanno fatto quello di cinque anni. Dopo che ho avuto anche mia figlia già avevamo il diritto di avere il permesso illimitato e me l’hanno dato.[…] Io penso che per le donne che arrivano da sole è un po’ difficile avere i documenti, invece quando c’è qualcuno che le aiuta , che gli da una mano in questi documenti, possono anche superare il problema.»

continua parlando del lavoro: «Io faccio ore di pulizie in diverse famiglie, ci sono tre famiglie che mi chiamano ogni tanto, ogni volta che hanno bisogno. Sono anziani, aiuto a fare la spesa e anche a pulire. – Però non hai un contratto regolare – no, non posso perché anche loro non hanno tanto, per quello non riescono a mettermi in regola – quanto ti pagano l’ora? – 6 euro. […] I periodi che ho lavorato, ho lavorato in una fabbrica di sartoria e, si, era in regola. E dopo ho smesso perché ho avuto problemi con mia figlia che non sta tanto bene e sono rimasta a casa perché non riuscivo a lasciarla. E dopo ho fatto anche un anno da badante, a fare la badante in regola.»

e della vita dentro l’occupazione: «Mi piace essere qui con tanta gente, mi piace l’ambiente, diciamo…essere tanta gente che vive insieme. Qua in questa occupazione ci sentiamo bene, anche se c’è qualche problemino di convivenza, ma passa. Perché siamo tanti, che uno supporta l’altro, così andiamo avanti. Magari se occupavo da sola una posto, se occupavo una casetta piccola, non stavo tranquilla così come a stare con tutta questa gente.

[…] Ci vorrebbe uno spazio di incontro fuori dalle camere, le camere sono un po’ strette per incontrarsi, per fare, diciamo, amicizia. Magari uno spazio per chiacchierare per due ore, tre, comodi. Magari anche con il Wi-Fi, come c’era prima. Così si mette insieme tanta gente, chiacchierano, cambiano le idee sullo spazio, su tutto quello che succede qua.»

 

Joy, 26 anni, una figlia e incinta, nigeriana, ci parla delle difficoltà legate all’ottenere il permesso di soggiorno e al non avere un lavoro:

«Ciò di cui ho bisogno prima di tutto è un documento, il mio compagno ce l’ha, e ho bisogno di un lavoro, anche lui ne ha bisogno e anche mia sorella. Mia sorella maggiore è appena arrivata, non voglio che soffra né che sia costretta a tornare indietro, anche lei ha i suoi problemi in Africa, il marito le ha spezzato il cuore ecco perché ha deciso di venire qui, mi ha detto ‘non voglio più farmi trattare male’ allora le ho detto ok, vieni qui, stiamo insieme, forse in due possiamo risolvere un po’ di cose, lei era d’accordo dunque mi ha raggiunta qui. Nemmeno lei ha i documenti. Io ho bisogno dei documenti, mia sorella ne ha bisogno. Ho bisogno di un lavoro, mia sorella ha bisogno di un lavoro, anche il mio compagno ne ha bisogno. Siamo disposti a spostarci pur di vivere bene.[…]Il 15 maggio sono 8 anni che sono in Italia, prima ho avuto il permesso di soggiorno rinnovabile ogni sei mesi e ogni volta sono dovuta andare a Crotone per rinnovarlo. Dopo 3 anni mi hanno dato un foglio di via, sono tornata per il ricorso. Il mio avvocato poi mi ha detto che avevo perso il ricorso, mi ha detto di tornare per farne un altro ma servono soldi per farlo. Già il primo che ho fatto l’ho pagato 500 euro, ma a quel punto ero incinta e non potevo più farlo.

Questo è soltanto un assaggio di un lavoro d’inchiesta che approfondiremo nei prossimi mesi. Ci sembra importante recuperare uno sguardo e un metodo di analisi dei contesti sociali e di lotta che attraversiamo/organizziamo scevro da ogni fascinazione “orientalista” ma capace di coglierne le specificità e le ricchezze. To be continued, quindi…

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