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L’energia come epicentro di colonizzazione, accaparramento e discriminazioni.

Durante queste settimane di occupazione per la Palestina, nelle Università si sono susseguiti una serie di dibattiti, seminari e confronti che hanno avuto la questione palestinese come perno principale attorno a cui avvolgere diverse istanze, prospettive ed approcci.

Quello che hanno creato e creano tuttora le occupazioni di sostegno alle lotte di liberazione, sono stati momenti di confronto utili per approfondire ed allargare sguardi. Mettere in discussione equilibri, muovere coscienze critiche: fa parte del bagaglio resistente che si alimenta, si fortifica agendo contro il coinvolgimento in dinamiche predominanti e oppressive che tentano di sopire le coscienze e sfruttare le menti. Come Ecologia Politica Torino pensiamo che sia necessario ritagliarsi gli spazi per discutere di saperi e contro-saperi, narrazioni e contro-narrazioni riferite agli scenari globali in cui siamo immersi. Queste giornate di occupazione sono state un’occasione in più per riflettere collettivamente.

Proponiamo quindi il contenuto di uno dei dibattiti organizzati alle Università occupate del Politecnico di Torino e di Palazzo Nuovo, insieme a End Fossil.

Il primo dibattito si riferisce a un grosso nodo che imbriglia e costituisce al tempo stesso la società in cui viviamo: l’energia. Un nodo cruciale in quanto epicentro di dinamiche coloniali, accaparramento e discriminazioni: ecco un primo tentativo di scioglimento della matassa che abbiamo tentato di districare con ReCommon, Gastivist e il Professor Dario Padovan dell’Università di Torino.

Buona lettura!

L’occupazione delle Università a sostegno della Palestina, avvenute a cascata in seguito all’occupazione della Columbia University, possono rappresentare un’occasione decisiva per arrivare, sul lungo termine, a recidere i legami tra le aziende fossili e belliche e le Università.

È importante in contesti come quelli universitari creare un sapere alternativo critico, che sappia setacciare quegli accordi che alimentano la fame di distruzione ed estrattivismo andando a connettere a stretto giro le conoscenze create all’Università con aziende petrolifere o belliche.

La reticenza all’eliminazione di questi legami tra pubblico-privato fa trasparire come nell’accademia la politica giochi un ruolo tutt’altro che secondario. La retorica per cui il sapere e le università sono neutre diventa un mito barcollante e la fermezza con cui vengono difesi questi intrecci fa emergere ancora di più come questi costituiscano le posizioni politico-economiche dominanti e di come l’Università sia nient’altro che lo specchio degli equilibri che la governano.

Così come la scienza e la tecnica, anche l’energia non può essere considerata “neutrale” in quanto socialmente organizzata. Essa è prima di tutto uno strumento di produzione di profitti globali, fornisce gli elementi finanziari per scatenare guerre, ne costituisce la posta in palio ed è usata per indebolire gli avversari.

Testimoni della politicità dell’energia sono i discorsi di greenwashing dell’Unione Europea portati avanti attraverso la retorica della transizione energetica e della sicurezza energetica, che tentano di nascondere dietro a promesse di “Emissioni zero”, i piani profondamente ancorati al sistema fossile.

Governi e istituzioni, dietro l’egida dell’Unione Europea, promuovono addirittura il gas fossile e il nucleare come fonti di energia pulita e sicura. Questo approccio non solo alimenta conflitti e militarizzazione, ma minaccia anche la salute delle comunità vicine ai progetti di estrazione e accelera il collasso climatico, compromettendo la sicurezza alimentare e abitativa e aumentando il rischio di eventi meteorologici estremi.

L’Italia, nello specifico, spende gran parte del budget della difesa per proteggere gli impianti fossili e prevede la costruzione di ulteriori gasdotti e centrali a gas per almeno 5 GW. Dal 2004, quando si è iniziato a parlare del TAP (Trans Adriatic Pipeline) e del Corridoio Sud del Gas, si sono verificate numerose crisi geopolitiche che hanno coinvolto Azerbaigian, Turchia, Georgia e Grecia, paesi da cui proviene o transita il gas.

Attualmente, stanno sorgendo numerosi progetti di costruzione di gasdotti che attraversano paesi in conflitto e con violazioni dei diritti umani. Proprio la zona del Mediterraneo rientra in una delle aree più ricche di riserve di gas naturale, con giacimenti principali situati in Israele, Cipro ed Egitto. Ed è proprio questo il nuovo campo da gioco delle aziende fossili, tra cui quelle italiane: Edison e Snam ed Eni.

Quest’ultima, in particolare, guadagnerebbe dal gas estratto da un’area del Mediterraneo chiamata Zona G, che secondo l’ONU dovrebbe appartenere alla Palestina. Per poter estrarre in questa area Eni pagherebbe le royalties a Israele. Questo fa parte della strategia di Israele di isolare la Palestina anche dal punto di vista energetico. Si tratta di una delle tante armi di privazione che lo stato coloniale ha adottato per indebolire i territori che ha occupato. L’energia diventa -quindi- arma di colonizzazione e guerra.

Non a caso, nel giugno 2022, alla luce del conflitto russo-ucraino, l’Unione Europea ha stipulato – con Israele e Egitto – contratti di acquisto per sostituire il gas importato dalla Russia. I principali gasdotti che verranno utilizzati a tale scopo sono Arish-Ashkelon, noto come “gasdotto della pace” che trasporta gas dai giacimenti israeliani all’Egitto per arrivare in Italia e il gasdotto Eastmed-Poseidon. Un ambizioso progetto che prevede il trasporto di gas dalle acque del bacino levantino attraverso Cipro, Grecia e Italia. Il governo israeliano è un forte sostenitore di EastMed, poiché garantirebbe un mercato europeo per le riserve di gas israeliane. Anche il congresso americano ha approvato un disegno di legge a sostegno del gasdotto, promettendo assistenza per l’estrazione del gas nella regione.

In sintesi, i governi, in quanto promotori del gas fossile, diventano i principali responsabili di problematiche non solo ambientali, ma anche sociali e geopolitiche, complicando ulteriormente la situazione internazionale e locale.

La militarizzazione e il settore fossile, inoltre, coinvolgono profondamente i luoghi di formazione del nostro sapere, come il Politecnico di Torino.

PoliTo, fino a qualche anno fa, tra i vari corsi che proponeva, presentava un insegnamento chiamato “Petroleum engineering”. Di recente il corso è stato semplicemente rinominato “Geology and geoenergy engineering”, all’apparenza incentrato sul settore rinnovabili e verso l’adempimento della famosa transizione energetica, il contenuto è rimasto per lo più identico. Ancora una volta lo zampino del cane a sei zampe ha influenzato la didattica dei poli di studio, l’azienda infatti ne è una delle promotrici. Chiaramente il numero di borse di studio e stage organizzati insieme all’azienda fossile sono innumerevoli e non si limitano alla sfera ingegneristica.

Anche Unito si è reso complice della strategia estrattivista di ENI, da poco è attivo infatti il Geoscience for Energy – Eni Master School (GEMS), promosso all’interno del Dipartimento di Geologia https://www.eni.com/it-IT/carriere/percorsi-formativi/master/gems.html

Nessun accordo universitario, sia con aziende belliche che fossili, è stato rescisso in seguito all’inizio del genocidio in Palestina, nonostante i vari attori citati in precedenza, giochino un ruolo cruciale nel fortificare lo Stato coloniale di Israele.

L’unico accordo rescisso relativo all’industria fossile e l’Università è quello firmato con Gazprom, terza azienda più inquinante al mondo, strettamente connessa a Intesa San Paolo ed Eni e principale esportatrice di gas russo. Gli accordi sono stati sospesi all’interno di un CDA con lo scoppio della guerra in Ucraina.

Ci domandiamo allora, perché con così tanta facilità si è riusciti a sciogliere degli accordi con alcuni attori, mentre invece con altri, nonostante siano implicati in una carneficina da 40.000 morti, la burocrazia sia così lenta a procedere e le amministrazioni universitarie così indisponibili a rinunciare a queste partnership.

Ancora una prova di quanto energia e militarismo, ma anche istituzioni universitarie, vadano a braccetto e quanto smontarle sia complesso, ma fondamentale per non svendere le menti a delle industrie mortifere.

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