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Il partito di Mattarella all’incasso

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Raffaele Sciortino

Se vogliamo andare oltre gli aspetti psicopatologici della situazione politica italica, è utile fare due considerazioni generali.

Primo. Già in occasione del varo del governo gialloverde pesante era stata l’ipoteca richiesta da Mattarella sia in tema di dicastero dell’economia sia più in generale a garanzia dell’affidabilità italiana nei confronti dei mercati e della UE. In questo annetto si è poi visto che anche il premier, un oscuro paglietta dallo sguardo sornione, era della cerchia del pdr, se non da subito sicuramente lo è diventato, nello stile trasformista tipico del suo ceto (e da sincero adepto di Padre Pio). L’obiettivo era chiarissimo: controllare, ostacolare, imbalsamare, svuotare i due partiti populisti per distruggere quanto di pericolosamente sociale e anti-establishment c’era nel consenso elettorale raccolto, per poi al momento giusto…

Se è così, nello show agostano – dietro i movimenti confusi delle comparse messi in risalto dalle cronache bulimiche dei media buone solo a rim(bambin)ire la gente – il protagonista principale è stato il partito di Mattarella: lo Stato profondo con le sue tecnocrazie ministeriali, Bankitalia, la magistratura, i corpi armati, gli incroci trasversali con la Chiesa, i media e il partito del Pil, probabilmente anche con una parte delle reti di potere meridionali spaventate dal progetto di regionalismo spinto della Lega. Tutti uniti a evitare un secondo round di scontro con la Ue sulla prossima legge di bilancio, uno scontro cui preferiscono uno sconto in cambio degli scalpi politici da offrire a Bruxelles.

Secondo. La crisi italica va provincializzata, collocandola sull’orizzonte europeo. Qui assistiamo ad una vera e propria crisi di governabilità dei sistemi politici di stati cruciali: dal Brexit – con il tragicomico mix di colpi di mano dei conservatori, immobilismo dei laboristi, spinte secessioniste scozzesi – alla Spagna priva da un pezzo di governi centrali stabili e a rischio secessionismo dei ricchi catalano, alla Francia scossa dal più importante scontro sociale di classe, in Occidente, dallo scoppio della crisi globale. Neppure la stabile Germania è esente da smottamenti, tra la crisi irreversibile della sinistra socialdemocratica, la strana ascesa dei Verdi pro-debito – per l’economia green, chiaro, non per le spese sociali – e l’appannamento strategico della Merkel.

Se è così, solo apparentemente il voto europeo ha stoppato la rincorsa delle forze populiste, palesando in realtà tutte le fragilità e le linee di faglia intra- e inter-statuali. La questione di fondo è la crisi dei blocchi sociali e politici interni in uno con lo smottamento della collocazione geoeconomica e geopolitica dell’Europa, sballottata tra fedeltà transatlantica e scontro Stati Uniti/Cina (e Russia) che chiama dazio. Su tutto, la recessione economica in arrivo. Disinnescare per quanto possibile la mina vagante italiana, a rischio contagio innanzitutto in Francia, è diventata allora questione fondamentale per la UE e la sua nuova Commissione.

L’obiettivo, al momento, sembra raggiunto con la formazione del governo di un Conte neo-umanista born again basato sull’inedito asse 5S-Pd uscito fuori – su pressioni fortissime dei poteri europei e nostrani, segretario Montalbano dixit – da quello che sembra a prima vista un rocambolesco autogol di Salvini. Che, per il suo crescente consenso effettivo a fronte di un M5S sempre più slavato e disorientato, è diventato il pollo da spennare oggi per venir cucinato a fuoco più o meno lento domani (appigli ce ne sono o verranno creati: Russiagate, indagini sui comportamenti anti-umanitari e, se necessario, tanto altro ancora, magari anche guai giudiziari, ora che il pollo è stato mollato dai trumpisti…). Distruggere il suo progetto di Lega, dopo che già i 5S sono cappottati, ecco l’obiettivo delle forze europeiste, interne e esterne.

Ora, non è chiaro e forse neanche importante se Salvini abbia commesso un clamoroso errore politico oppure valutato di chiamarsi fuori – in attesa di un ritorno sull’onda dell’impopolarità del nuovo governo (ma, appunto, è tutto da vedere se ciò sarà possibile) – temendo uno scontro aperto sulle autonomie regionali, che avrebbe minato la sua idea di partito sovranista nazionale alienandogli il Meridione. Ufficialmente non avrebbe potuto prendere le distanze dai maggiorenti della Lega, e dalla sua stessa base popolare padanista, e uno scontro aperto sulla questione lo avrebbe di sicuro esposto al rischio di diventare o succube o nemico della trimurti Zaia-Maroni-Fontana. Va tenuto presente che la Lega attuale contiene due partiti in uno, quello borghese padano già filo-berlusconiano e quello nazionalista salviniano: il primo ha bisogno di Salvini per ampliare consenso elettorale e potere ma non vuole certo rinunciare alla propria rete di interessi legata principalmente alla filiera produttiva tedesca, e quindi alla UE, ed è allineato al partito del Pil contro reddito di cittadinanza e quota cento; il secondo si presenta popolare e anche operaio con un orizzonte (pseudo)sovranista filo-Usa ma è, al momento, assai debole al sud. La difficile situazione attuale del leader va dunque commisurata a questa contraddizione di fondo tra il suo progetto e l’autonomismo padano europeista (stile bavarese: v. http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=915); oltreché, in politica estera, alla non completa coincidenza con i progetti di Trump per la Russia: mentre Salvini pensa agli affari e a controbilanciare il potere di Bruxelles trovando sponde a Mosca e Washington, Trump vorrebbe una Russia alleata in quanto sottomessa, cui eventualmente togliere le sanzioni in cambio della rinuncia di Mosca ai legami con Pechino e alla proiezione in Medio Oriente. Insomma, in cambio del suo ruolo di guastatore interno all’Europa, al leader leghista Trump non sembra disposto a concedere nulla ma, come a Washington si è abituati a fare con gli utili idioti, si pretende a gratis.

Quanto ai 5S, c’è poco da dire che non sia sotto gli occhi di tutti. Bersaglio da subito del partito del Pil e strapazzati dalla Lega (troppo, si sarà ricreduto Salvini), si sono lasciati prendere a schiaffi da chiunque. Sempre più democristiani nei comportamenti interni e nelle scelte politiche – fino al voto a favore della neo-commissaria europea! – si sono ridotti a un contenitore moribondo di voti in uscita libera, che l’esperienza di governo prossima potrà solo rimandare ma non bloccare e tanto meno invertire. La fine ultraveloce dell’esperienza grillina non rimanda, però, tanto o solo alla pochezza del personale, quanto all’impossibilità di tenere insieme istanze inconciliabili: cittadini frastornati dalla crisi e imprese sempre più voraci e parassitarie, Nord e Sud, giovani e meno giovani, meritocrazia pretesa e risposte raffazzonate a domande sociali reali. Il tutto in assenza di una qualche consistente spinta dal basso, mentre l’unico movimento reale, quello NoTav, è stato sacrificato sull’altare della governabilità (con la benedizione di un Grillo sempre più rin-gretinito che crede di vedere nell’Italietta allo sbando un laboratorio economico-sociale del Green New Deal da far calare su di un popolo non rivelatosi all’altezza degli… elevati. Ma non è certo l’unico a non voler vedere che un capitalismo verde sarebbe per l’essenziale un mix di tasse ecologiche sui ceti bassi più debito pubblico pro-imprese, il tutto condito da tagli al welfare e misure neocolonialiste contro i paesi extra-occidentali produttori di materie prime). Insomma, l’istanza cittadinista si è rivelata inconsistente a fronte dell’assenza, al di là di qualche accenno, di un’effettiva politica sovranista ma, soprattutto, a causa del sistematico evitamento dello scontro coi poteri forti. Come possibile sottoprodotto di tutto ciò avremo forse, ma anche questo è tutt’altro che garantito, una mutazione di fatto dei 5S in Lega Sud dai connotati plebei in cerca di addentellati e mediazioni nelle reti di potere territoriali, nazionali, europee.

Il Pd da parte sua è un partito evanescente e frantumato – Calenda già in uscita, Renzi in attesa della prima occasione per spaccare e crearsi un partito macronista, il pezzo emiliano-romagnolo oramai regionalista spinto – che cercherà di usare i 5S come ciambella di salvataggio per continuare a esistere ancora un po’ (tipo modello Chiamppendino in via di sdoganamento, una volta archiviato il fastidio NoTav, in una Torino moribonda ma smart, tutta turismo e… nuova Salerno-Lione). In politica estera si colloca decisamente, e non da ora, dal lato filo-Usa, ma sul versante dei Democratici e dello stato profondo, la fazione che spera che Trump tolga il disturbo e si possa ritornare al precedente ordine mondiale lasciando all’Europa qualche margine ma pur sempre in funzione anti-cinese.

L’operazione mattarelliana Pd-5S è dunque pienamente di palazzo, in puro stile gesuitico. Nulla la possibilità di varare un blocco sociale con una sia pur minima stabilità e possibilità di indicare una prospettiva di lungo corso. Serve a prendere tempo e, non ultimo, a evitare che il prossimo presidente della repubblica sia espressione diretta di una destra ipotecata dalla fazione sovranista. Comunque vada, più zombie non fanno un vivente. A scorno della sceneggiata del fronte unito anti-salviniano Grillo-Renzi-antirazzisti-antifascisti-meridionalisti-preti-centrosocialisti (con qualche meritoria eccezione), per la salvezza nazionale e la rinascita della sinistra progressista grazie all’evitamento… del voto (simpatico questo risvolto anti-elettoralistico, esplicitamente rivendicato p.es. nelle pagine de Il Manifesto, da parte di chi ha fatto fin qui del voto garantito dalla Costituzione un feticcio intoccabile per le classi dominate: che la democrazia formale non serva più a contenerle? Anche a sinistra si è alla ricerca di un governo di illuminati?).

L’aspetto di fondo di questa commedia psicopolitica degna del miglior situazionismo è che essa mostra il livello cui è giunta la destrutturazione del sistema politico. Che se non è equivalente con il sistema dei poteri effettivi, ne è però stato fin qui, tra alti e bassi, elemento inaggirabile di mediazione dello stato e del capitale con le istanze e le classi sociali. Dei grillini – oramai esaurite le proficue ambivalenze di cui sono stati espressione – resta appunto il merito, peraltro del tutto involontario, di aver rivelato la crisi profonda di un sistema che nulla potrà riportare indietro alle caselle precedenti. Quello che si evidenzia è un generale incasinamento (pur con una temperatura delle tensioni sociali ancora bassa). L’Italia ne è solo il riflesso più abbagliante in un’Europa percorsa da profondissime e molteplici linee di faglia. La soluzione mattarelliana non è in grado di risolvere alcuno dei problemi del declino italiano e può solo sperare in un soccorso tedesco almeno di medio periodo, ciò che Berlino al momento farebbe volentieri, se non fosse per l’ammuina creata da Trump con la guerra dei dazi e la recessione alle porte. Che metteranno a dura prova la tenuta della UE costringendo a scelte decisive nei rapporti commerciali e nelle alleanze politico-militari. La pantomima italica – con seri rischi di frammentazione dello stesso tessuto nazionale – si svolge in questo quadro da cui non è possibile prescindere.

Su questo sfondo un attenuamento delle politiche restrittive di bilancio da parte della UE potrebbe dunque essere transitoriamente indispensabile per evitare un ulteriore indebolimento con la perdita di pezzi in direzione degli Stati Uniti e per cercare di prevenire forti scontri sociali, cui in questo momento ci sarebbero ben poche carote da offrire. Ma, appunto, si tratterà di vedere quali saranno le condizioni degli eventuali sconti, sui quali conta il nuovo governo. E, al di là di eventuali aspettative passive che dovessero riattivarsi tra la gente, è escluso a priori che ce ne sia per tutti e che il corso generale verso il baratro risulti invertito. L’Italietta, con una massa notevole di risparmi e quel che resta dell’apparato produttivo, è un boccone che la finanza internazionale deve ancora trovare il modo di ingurgitare a dovere. Delle ragioni di fondo che cosiddetti populismo e sovranismo hanno fin qui (mal)interpretato sentiremo ancora parlare: si spera, alla prossima tornata, un po’ più in salsa francese tipo conflitto di classe à la Gilets Jaunes…

31 agosto ‘19

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