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Il capitale non ha frontiere: Fiat dice addio all’Italia

1. Dal 2010, con il progetto Fabbrica Italia, Marchionne si è impegnato nella distruzione di quanto rimaneva delle conquiste della classe operaia nella stagione di conflitto del secolo scorso. Grazie al ricatto e al rapporto di forza verso una controparte assai indebolita, ha distrutto il contratto nazionale di lavoro, imposto delocalizzazioni, mandato in cassa integrazione migliaia di lavoratori, aumentato lo sfruttamento e diminuito i salari in nome di investimenti mai arrivati. La necessità di valorizzazione del capitale odierno, nell’odierna divisione internazionale del lavoro, non può permettersi i costi (ambientali, sociali e salariali) che il residuo di welfare – distrutto, ma non ancora abbastanza – impone in Italia. Probabilmente Fiat manterrà una base produttiva in Italia, non fosse altro per la presenza di impianti difficili da collocare sul mercato. Come il caso Electrolux ha insegnato in maniera forse più diretta: o gli operai si dimezzano il salario, rinunciano ai diritti e agli scioperi oppure si trasferisce la produzione all’estero, ancora meglio se mandando tutto in malora (stabilimenti, manodopera, etc…) in modo da non lasciare niente ad eventuali concorrenti. Dal canto suo il sindacato americano si fa garante dell’accettazione dei principi organizzativi dell’azienda da parte dei lavoratori e ha accettato di massacrare le condizioni dei lavoratori pur di avere del lavoro a salario dimezzato.

 

2. Dietro alla fusione e al trasferimento delle sedi legali vi sono ovviamente dei forti interessi finanziari. Infatti per ora i maggiori vantaggi di quest’operazione sono stati tutti per gli azionisti. Fiat ha acquistato le azioni di Chrysler a prezzi stracciati ed è pronta a rivenderle sul mercato borsistico di Wall Street (proprio la quotazione al New York Stock Exchange è un’altra delle novità di questa fusione), ad oggi carico di denaro grazie alla liquidità immessa dal governo statunitense. La notizia dell’avvenuta totale fusione tra le due aziende ha, infatti, dato via ad un forte rialzo delle quotazioni delle due aziende. Senza addentrarci oltre in questioni specifiche, c’è da rilevare un’indicazione politica. Il caso Fiat ci dimostra ancora una volta che la classe capitalistica non ha interessi che non siano quelli di inseguire i flussi di valorizzazione finanziaria su scala globale: le filiere produttive, gli investimenti e le sedi legali devono essere riorganizzate secondo criteri che consentano il massimo accumulo di capitale anche, e soprattutto, sui mercati finanziari. Quindi nell’impossibilità di scindere un livello “reale” della produzione da quello dell’accumulazione finanziaria è facile trovarsi con le armi spuntate laddove si ragioni con i criteri della sovranità nazionale o di formule neokeynesiane, per quanto di sinistra.

 

3. Non c’è sta stupirsi quindi dell’incapacità di individuare una soluzione alternativa, per quanto di segno capitalistico, da parte dei governi succedutisi negli anni. La Fiom non può che assistere agli esiti della sconfitta subita nel 2010 (probabilmente all’epoca era possibile osare qualcosa in più?), mentre la posizione dei sindacati confederali si conferma l’apice del servilismo (come se ci fosse ancora bisogno di farlo notare!) con Bonanni, Angeletti e Camusso subito pronti a benedire la mossa di Fiat come una grande possibilità anche per l’Italia, ancora una volta compiacenti con l’arroganza che la classe dominante (di cui Marchionne è ottimo esempio).

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