
Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple

  
 La settimana scorsa The Morning Call, un quotidiano della Pennsylvania, ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta – intitolata Inside Amazon’s Warehouse – sulle terribili condizioni di lavoro nei magazzini Amazon della  Lehigh Valley. Il reportage, risultato di mesi di interviste e  verifiche, sta facendo il giro del mondo ed è stato ripreso dal New York Times e altri media mainstream. Il quadro è cupo:
 – estrema precarietà del lavoro, clima di perenne ricatto e assenza di diritti;
 – ritmi inumani, con velocità raddoppiate da un giorno all’altro (da 250  a 500 “colli” al giorno, senza preavviso), con una temperatura interna  che supera i 40° e in almeno un’occasione ha toccato i 45°;
 – provvedimenti disciplinari ai danni di chi rallenta il ritmo o,  semplicemente, sviene (in un rapporto del 2 giugno scorso si parla di 15  lavoratori svenuti per il caldo);
 – licenziamenti “esemplari” su due piedi con il reprobo scortato fuori sotto gli occhi dei colleghi.
 E ce n’è ancora. Leggetela tutta, l’inchiesta. Ne vale la pena. La frase-chiave la dice un ex-magazziniere: “They’re killing people mentally and phisically.“   
A giudicare dai commenti in rete, molti cadono dalle nuvole, scoprendo soltanto ora che Amazon è una mega-corporation e Jeff Bezos un padrone che – com’è consueto tra i padroni – vuole realizzare  profitti a scapito di ogni altra considerazione su dignità, equità e  sicurezza.
 Come dovevasi sospettare, il “miracolo”-Amazon (super-sconti, spedizioni  velocissime, “coda lunga”, offerta apparentemente infinita) si regge  sullo sfruttamento di forza-lavoro in condizioni vessatorie, pericolose,  umilianti. Proprio come il “miracolo”-Walmart, il “miracolo”-Marchionne  e qualunque altro miracolo aziendale ci abbiano propinato i media nel  corso degli anni.
 Quanto appena scritto dovrebbe essere ovvio, eppure non lo è. Il  disvelamento non riguarda un’azienda qualsiasi, ma Amazon, sorta di  “gigante buono” di cui – anche in Italia – si è sempre parlato in modo  acritico, quando non adorante e populista.
 The Morning Call ha rotto un incantesimo. Fino a qualche giorno  fa, con poche eccezioni, i mezzi di informazione (e i consumatori  stessi) accettavano la propaganda di Amazon senza l’ombra di un dubbio,  come fosse oro colato. D’ora in poi, forse si cercheranno più spesso i  riscontri, si faranno le dovute verifiche, si andranno a vedere  eventuali bluff. Con il peggiorare della crisi, sembra aumentare il  numero degli scettici.
Il problema di multinazionali che vengono percepite come “meno aziendali”, più “cool” ed eticamente – quasi spiritualmente – migliori delle altre riguarda molte compagnie associate a Internet in modo tanto stretto da essere identificate con la rete stessa. Un altro caso da manuale è Apple.
iPhone, iPad, youDie
 
L’anno scorso ha fatto scalpore – prima di essere sepolta da cumuli  di sabbia e silenzio – un’ondata di suicidi tra gli operai della  Foxconn, multinazionale cinese nelle cui fabbriche si assemblano iPad,  iPhone e iPod.
 In realtà le morti erano iniziate prima, nel 2007, e sono proseguite in seguito (l’ultimo suicidio accertato  è del maggio scorso; un altro operaio è morto a luglio in circostanze  sospette). A essersi uccisa, nel complesso, è una ventina di dipendenti.  Indagini di vario genere hanno indicato tra le probabili cause tempi  infernali di lavoro, mancanza di relazioni umane dentro la fabbrica e  pressioni psicologiche da parte del management.
 A volte si è andati ben oltre le pressioni psicologiche: il 16 luglio 2009, un dipendente 25enne di nome Sun Danyong si è gettato nel vuoto dopo aver subito un pestaggio da parte di una  squadraccia dell’azienda. Sun era sospettato di aver rubato e/o smarrito  un prototipo di iPhone.
 Che soluzioni ha adottato la Foxconn per prevenire queste tragedie? Beh, ad esempio, ha installato delle “reti anti-suicidio”.
 [Per approfondire questo tema, consiglio i link raccolti nella pagina di wikipedia e la visione del video divulgativo Deconstructing Foxconn]
Questi dietro-le-quinte del mondo Apple non ricevono molta attenzione, a paragone dei bollettini medici di Steve Jobs o di pseudo-eventi come l’inaugurazione, nella centralissima via Rizzoli di Bologna, del più grande Apple Store italiano (kermesse doverosamente smitizzata dal sempre ottimo Mazzetta). In quella circostanza, diverse persone hanno trascorso la notte in strada in attesa di entrare nel tempio. Costoro non sanno niente del connubio di lavoro e morte che sta a monte del marchio che venerano. Nel capitalismo, mettere la maggiore distanza possibile tra “monte” e “valle” è l’operazione ideologica per eccellenza.
Feticismo, assoggettamento, liberazione
 
Quando si parla di Rete, la “macchina mitologica” dei nostri discorsi – alimentata dall’ideologia che, volenti o nolenti, respiriamo ogni giorno – ripropone un mito, una narrazione tossica: la tecnologia come forza autonoma, soggetto dotato di un suo spirito, realtà che si evolve da sola, spontaneamente e teleologicamente. Tanto che qualcuno – non lo si ricorderà mai abbastanza – ha avuto la bella pensata di candidare Internet (che come tutte le reti e infrastrutture serve a tutto, anche a fare la guerra) al… Nobel per la Pace.
A essere occultati sono i rapporti di classe, di proprietà, di produzione: se ne vede solo il feticcio. E allora torna utile il Karl Marx delle pagine sul feticismo della merce (corsivo mio):
«Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi.»
“Forma fantasmagorica di un rapporto tra cose”. Come i computer  interconnessi a livello mondiale. Dietro la fantasmagoria della Rete c’è un rapporto sociale determinato, e Marx intende: rapporto di produzione, rapporto di sfruttamento.
 Su tali rapporti, la retorica internettiana getta un velo. Si può  parlare per ore, giorni, mesi della Rete sfiorando  solo occasionalmente  il problema di chi ne sia proprietario, di chi  detenga il controllo  reale dei nodi, delle infrastrutture,  dell’hardware. Ancor meno si  pensa a quale piramide di lavoro – anche  para-schiavistico – sia incorporata nei dispositivi che usiamo (computer, smartphone, Kindle) e di conseguenza nella rete stessa.
Ci sono multinazionali che tutti i giorni (in rete) espropriano   ricchezza sociale e (dietro le quinte) vessano maestranze ai quattro  angoli del mondo, eppure sono considerate… “meno multinazionali” delle   altre.
 Finché non ci si renderà conto che Apple è come la Monsanto,  che Google  è come la Novartis, che fare l’apologia di una corporation è la pratica  narrativa più  tossica che esista, si tratti di Google, FIAT, Facebook,  Disney o Nestlé…  Finché non ci si renderà conto di questo, nella rete  ci staremo come pesci.
 [N.B. A scanso di equivoci: io possiedo un Mac e ci lavoro bene. Ho  anche un iPod, uno smartphone con Android e un Kindle. Chi fa il mio  lavoro deve conoscere le modalità di fruizione della cultura e di  utilizzo della rete. Ma cerco di non essere feticista, di non rimuovere  lo sfruttamento che sta a monte di questi prodotti. E’ uno sforzo  improbo, ma bisogna compierlo.]
Per colpa del net-feticismo, ogni giorno si pone l’accento solo sulle pratiche liberanti che agiscono la rete – pratiche su cui, per essere chiari, noi WM scommettiamo tutti i giorni da vent’anni -, descrivendole come la regola, e implicitamente si derubricano come eccezioni le pratiche assoggettanti:  la rete usata per sfruttare e sottopagare il lavoro intellettuale; per controllare e imprigionare le persone (si veda quanto accaduto dopo i riots londinesi);  per  imporre nuovi idoli e feticci alimentando nuovi conformismi; per   veicolare l’ideologia dominante; per gli scambi del finanzcapitalismo   che ci sta distruggendo.
 In rete, le pratiche assoggettanti sono regola tanto quanto le altre. Anzi, a voler fare i precisini, andrebbero considerate regola più delle altre, se teniamo conto della genealogia di Internet, che si è evoluta da ARPAnet, rete informatica militare.
La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto.
La lotta allora dovrebbe essere questa:  far leva sulla liberazione  per combattere l’assoggettamento.  Moltiplicare le pratiche liberanti e  usarle contro le pratiche  assoggettanti. Ma questo si può fare solo  smettendo di pensare alla  tecnologia come forza autonoma e riconoscendo  che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e  indirizzata da  relazioni di potere e di classe.
 Se la tecnologia si imponesse prescindendo da tali rapporti semplicemente perché innovativa, la macchina a vapore sarebbe entrata in uso già nel I secolo a.C., quando Erone di Alessandria realizzò l’eolipila.  Ma il modo di produzione antico non aveva bisogno delle macchine,  perché tutta la forza-lavoro necessaria era assicurata dagli schiavi, e  nessuno poté o volle immaginarne un’applicazione concreta.
E’ il feticismo della tecnologia come forza autonoma a farci ricadere sempre nel vecchio frame “apocalittici vs. integrati”. Al minimo accenno critico sulla rete, gli    “integrati” ti scambieranno per “apocalittico” e ti accuseranno di    incoerenza e/o oscurantismo. La prima accusa di solito risuona in frasi    come: “Non stai usando un computer anche tu in questo momento?”; “Non   li   compri anche tu i libri su Amazon?”; “Ce l’hai anche tu uno    smartphone!”  etc. La seconda in inutili lezioncine tipo: “Pensa se oggi    non ci fosse Internet…”
 Nell’altro verso, ogni discorso sugli usi  positivi della rete verrà   accolto dagli “apocalittici” come la servile  propaganda di un   “integrato”. 
 Ricordiamoci sempre di Erone di Alessandria. La sua storia ci  insegna che quando parliamo di tecnologia, e più nello specifico di  Internet, in realtà stiamo parlando di altro, cioè dei rapporti sociali.
 
Insomma, torniamo a chiederci: chi sono i padroni della rete? E  chi sono gli sfruttati nella rete e dalla rete?
 Scoprirlo non è poi tanto difficile: basta leggere le “Norme di   utilizzo” dei social network a cui siamo iscritti; leggere le  licenze  del software che utilizziamo; digitare su un motore di  ricerca  l’espressione “Net Neutrality”… E, dulcis in fundo, tenere in mente storie come quelle dei magazzini Amazon e della Foxconn.
 Solo in questo modo, credo, eviteremo scemenze come la campagna  “Internet  for Peace” o, peggio, narrazioni del futuro  orrende, di   “totalitarismo soffice”, come quella che emerge dal famigerato video  della  Casaleggio  & Associati intitolato Gaia: The Future of Politics.
Non illudiamoci: saranno conflitti durissimi a stabilire se all’evoluzione di Internet corrisponderà un primato delle pratiche di liberazione su quelle di assoggettamento, o viceversa.
Il lavoro (di merda) incorporato nel tablet
 
Ultimamente, chi ritiene che nel capitalismo odierno non valga più la  teoria marxiana del valore-lavoro fa l’esempio dell’iPad, e dice: il  lavoro fisico compiuto  dall’operaio per assemblare un tablet è poca  roba, il  valore del tablet è dato dal software e dalle  applicazioni  che ci girano sopra, quindi dal lavoro mentale, cognitivo, di  ideazione e programmazione. Lavoro che “sfugge” da ogni parte, inquantificabile in termini di ore di lavoro.
 Ciò metterebbe in crisi l’idea marxiana che – taglio con l’accetta – il  valore di una merce sia dato dalla quantità di lavoro che essa   incorpora, o meglio: dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla. Per “tempo socialmente necessario” Marx intende il tempo  medio utilizzato dai produttori di una data merce in una data fase dello  sviluppo capitalistico.
Non sono un esperto di economia politica, ma mi sembrano due livelli coesistenti. Forse la teoria del valore-lavoro viene liquidata troppo in fretta. Io credo che il suo nocciolo di senso (nocciolo “filosofico” e concretissimo) permanga anche col mutare delle condizioni.
Oggi il lavoro è molto più socializzato che  ai tempi di Marx e i  processi produttivi ben più complessi (e  il capitale più condizionato  da limiti esterni, cioè ambientali), eppure chi fa quest’esempio accorcia il ciclo e isola l’atto  dell’assemblaggio di un singolo iPad. Mi sembra un grosso errore metodologico.
 Andrebbe presa in considerazione la mole di lavoro  lungo l’intero ciclo produttivo di un’intera infornata di tablet (o di  laptop, di smartphone, di e-reader, quel che vi pare). Come giustamente diceva Tuco nella discussione in cui ha iniziato a prendere forma il presente intervento:
«Uno dei punti essenziali è che tutta la baracca non si potrebbe mai mettere in movimento per produrre cento iPad. Se ne devono produrre almeno cento milioni. A prima vista potrebbe sembrare che il lavoro intellettuale necessario per sviluppare il software dell’iPad generi di per sé valore, indipendentemente dal resto del ciclo produttivo. Questo però vorrebbe dire che il valore generato da questo lavoro intellettuale è indipendente dal numero di iPad che vengono prodotti. In realtà non è così. Se non facesse parte di un ciclo che prevede la produzione con modalità fordiste di cento milioni di iPad, quel lavoro intellettuale non genererebbe praticamente nessun valore.»
Fissato questo punto, nel considerare quanto lavoro vada a incorporarsi in un tablet si può:
 1) partire dal reperimento di una materia prima come il litio. Senza di  esso non esisterebbero le batterie ricaricabili dei nostri gadget. In  natura non esiste in forma “pura”, e il processo per ottenerlo è costoso  e impattante per l’ambiente.
 [Tra l’altro, il 70% dei giacimenti mondiali è in fondo ai laghi salati  della Bolivia, e il governo boliviano non ha alcuna intenzione di  svenderlo. Oltre a questi problemi  geopolitici, ci si mettono pure i terremoti. Questa fase primaria del ciclo pare destinata a complicarsi e a richiedere più lavoro.];
 2) prendere in considerazione le nocività esperite da chi lavora nell’industria petrolchimica che produce i polimeri necessari;
 3) considerare il lavoro senza tutele degli operai che assemblano i  dispositivi (di come si lavora alla Foxconn abbiamo già parlato sopra);
 4) arrivare fino al lavoro (indegno, nocivo, ai limiti del disumano) di chi “smaltisce”  la carcassa del laptop o del tablet in qualche discarica africana. Trattandosi di una merce a obsolescenza rapida e soprattutto pianificata,  questo lavoro è già incorporato in essa, fin dalla fase della progettazione.
Prendendo in considerazione tutto questo, si vedrà che di lavoro  fisico (lavoro di merda, sfruttato, sottopagato, nocivo etc.)  un’infornata di iPad ne  incorpora parecchio, e con esso incorpora una  grande quantità di tempo di lavoro. E non vi è dubbio che si tratti di tempo di lavoro socialmente necessario: oggi gli iPad si producono così e in nessun altro modo.
 Senza questo lavoro, il general intellect applicato che inventa  e aggiorna software, semplicemente, non esisterebbe. Quindi non  produrrebbe alcun valore. Se “per fare un tavolo ci vuole il legno”, per  fare il tablet ci vuole l’operaio (e prima ancora il minatore etc.).  Senza gli operai e il loro lavoro, niente valorizzazione della merce  digitale, niente quotazione di Apple in borsa etc. Azionisti e  investitori danno credito alla mela perché produce, valorizza e vende  hardware e gadget, e ogni tanto fa un nuovo “colpo”, mettendo sul  mercato un nuovo “gioiellino”. E chi lo fa il gioiellino?
  
 Se sia ancora possibile una precisa contabilità in termini di  ore-lavoro, non sono in  grado di dirlo. Ripeto: non sono un esperto di  economia politica. Ma so che quando gettiamo nell’immondizia un  telefonino  perfettamente funzionante perché il nuovo modello “fa più  cose”, stiamo buttando via una porzione di vita e fatica di una gran  massa di  lavoratori, sovente pagati con due lire e – nella migliore  delle ipotesi – un calcio nel culo.
Intelligenza collettiva, lavoro invisibile e social media
 
Quel che sto cercando di dire lo anticipava già Marx nel Capitolo VI inedito del Capitale (ed. it. Firenze, 1969, la citazione che segue è alle pagg. 57-58). Il passaggio è denso perché, appunto, è uno di quei testi che Marx non rivide per la pubblicazione:
«L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente […] questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione.
Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale.»
In sostanza, Marx dice che:
1) la natura collettiva e cooperativa del lavoro viene realmente sottomessa (a volte si traduce con “sussunta”) al capitale, cioè è una natura collettiva specifica, che prima del capitale non esisteva.
 La“sottomissione reale” del lavoro al capitale è contrapposta da Marx alla “sottomissione formale“,    tipica degli albori del capitalismo, quando il capitale sottometteva    tipologie di lavoro pre-esistenti: la tessitura manuale, i processi  del   lavoro agricolo etc. “Sottomissione (o sussunzione) reale”  significa che il capitale rende forza produttiva una  cooperazione  sociale che non  pre-esisteva a   esso, perché non pre-esistevano a esso  gli operai, il  lavoro salariato,   le macchine, le nuove reti di  trasporto e distribuzione.
2) Quanto più è avanzato il processo produttivo (grazie all’applicazione di scienza e tecnologia), tanto più mistificata sarà la rappresentazione (oggi qualcuno direbbe la narrazione) della cooperazione produttiva.
Ora cerchiamo nell’oggi gli esempi di questa formulazione: la  produzione di senso e di relazioni in Internet non è considerata   forza  produttiva di lavoratori cooperanti; tantomeno l’ideologia   dominante  permette di riconoscere il lavoro del singolo. Questa produzione viene  (truffaldinamente, mitologicamente) attribuita direttamente al capitale,  allo “spirito d’impresa”, al presunto genio del capitalista etc.   Per  esempio, si dice che dobbiamo a una “intuizione” di Mark Zuckerberg se oggi grazie  a  Facebook bla bla bla.
 Altrettanto spesso tale produzione di senso viene considerata, come dice  Marx, “forza   produttiva del lavoro in quanto identico al capitale”.  Traduciamo:   lo sfruttamento viene occultato dietro la facciata di un  lavoro in rete   autonomo, non subordinato, fatto tutto di  autoimprenditoria  e/o  libera  contrattazione e/o comunque molto più  “cool” dei lavori “tradizionali”  etc.,  quando invece la produzione di  contenuti in rete va avanti anche grazie al lavoro subordinatissimo di  masse di “negri” – nel senso di “autori-fantasma” – che lavorano a  cottimo,  come  racconta Adrianaaaa a proposito di Odesk.com.
Esiste, per usare un’espressione marxiana, la “Gemeinwesen”,  una tendenza dell’essere umano al    comune,   alla comunità e alla  cooperazione? Sì, esiste. E’ sempre rischioso usare quest’espressione,  ma se c’è un universale antropologico, beh, è questo. “Compagnevole animale”,   così  Dante   traduce lo “zòon politikon” di Aristotele (lo ricorda Girolamo De  Michele nel suo  ultimo libro Filosofia) e le neuroscienze stanno dimostrando  che siamo… “cablati” per la gemeinwesen (la scoperta dei neuroni specchio etc.)
 Nessun modo  di produzione ha sussunto e reso produttiva la tendenza umana alla cooperazione con la stessa forza del capitalismo.
 Oggi l’esempio più eclatante di cooperazione sussunta – e al tempo  stesso di lavoro invisibile, non percepito come tale – ce lo forniscono i  social media.

Sto per fare l’esempio di Facebook. Non perché gli altri social media siano “meno malvagi”, ma perché al momento è il più grosso, è quello che fa più soldi ed è – come dimostra la recentissima ondata di nuove opzioni e implementazioni – il più avvolgente, pervasivo ed espansionista. Facebook si muove come se volesse inglobare tutta la rete, sostituirsi ad essa. E’ il social network par excellence, dunque ci fornisce l’esempio più chiaro.
Sei uno degli oltre settecento milioni di utenti che usa Facebook? Bene, vuol dire che quasi ogni giorno produci contenuti per il network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti affettivi e relazionali. Sei parte del general intellect di Facebook. Insomma, Facebook esiste e funziona grazie a quelli come te. Di cos’è il nome Facebook se non di questa intelligenza collettiva, che non è prodotta da Zuckerberg e compagnia, ma dagli utenti?
Tu su Facebook di fatto lavori. Non te ne accorgi, ma lavori. Lavori senza essere pagato. Sono altri a fare soldi col tuo lavoro.
Qui il concetto marxiano che torna utile è quello di “pluslavoro”.  Non è un concetto astruso: significa “la parte di   lavoro che, pur  producendo valore, non si traduce in salario ma in   profitto del  padrone, in quanto proprietario dei mezzi di produzione”.
 Dove c’è profitto, vuol dire che c’è stato pluslavoro. Altrimenti, se tutta la quota di lavoro fosse remunerata in base     al valore che ha  creato, beh… sarebbe il comunismo, la società senza classi. E’ chiaro  che il padrone deve pagare in salari meno di quel che trarrà     dalla vendita delle merci. “Profitto” significa questo. Significa     pagare ai lavoratori meno del valore reale del lavoro che svolgono.
 Per vari motivi, il padrone può anche non riuscire a      venderle, quelle merci. E quindi non realizzare profitti. Ma questo non      significa che i lavoratori non abbiano erogato pluslavoro. L’intera      società capitalistica è basata su plusvalore e pluslavoro.
Su Facebook il tuo lavoro è tutto pluslavoro, perché non  vieni pagato. Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si  vende la tua vita   (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione  etc.) e le tue   relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al  giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu no.
 L’informazione è merce. La conoscenza è merce. Anzi, nel postfordismo o   come diavolo vogliamo chiamarlo, è la merce delle merci. E’ forza   produttiva e merce al tempo stesso, proprio come la forza-lavoro. La   comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli  di  consumo, sui trend di mercato) che il padrone impacchetta in forma  di  statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere.
 Inoltre, lo stesso Facebook, in quanto rappresentazione della più estesa  rete di relazioni sul pianeta, è una  merce. L’azienza Facebook può   vendere informazione solo se, al contempo e senza sosta,  vende quella  rappresentazione di se stessa. Anche tale rappresentazione è dovuta agli  utenti, ma a riempirsi il conto in banca è Zuckerberg.
Non c’è dentro e fuori
Se dopo questo discorso qualcuno mi chiedesse: “Allora la soluzione è  stare fuori dai social media?”, risponderei che la questione è mal  posta.
 Certamente, costruire dal basso social media diversi, funzionanti con  software libero e non basati sul commercio di dati sensibili e  relazioni, è cosa buona e giusta. Ma lo è anche mantenere una presenza  critica e informativa nei luoghi dove vive e comunica la maggioranza  delle persone, magari sperimentando modi conflittuali di usare i network esistenti.
 Sto provando a spiegare, da un po’ di tempo a questa parte,   che secondo me le metafore spaziali (come il “dentro” e il “fuori”)   sono inadeguate, perchè è chiaro che se la domanda è: “dov’è il   fuori?”, la risposta – o l’assenza di risposta – può solo essere   paralizzante. Perchè è già paralizzante la domanda.
Forse è più utile ragionare ed esprimersi in termini temporali.
 Si tratta di capire quanto tempo di vita (quanti tempi e quante vite) il capitale stia rubando  anche e soprattutto di nascosto (perché tale furto è presentato come “natura delle cose”), diventare  consapevoli  delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare nel  rapporto di  produzione, nelle relazioni di potere, contestando gli  assetti  proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione, per  rallentare i ritmi, interrompere lo sfruttamento, riconquistare pezzi di  vita.
Non è certo nuovo, quel che sto dicendo: un tempo  si era soliti  chiamarla “lotta di classe”. In parole povere: gli  interessi del  lavoratore e del padrone sono diversi e inconciliabili.  Qualunque  ideologia che mascheri questa differenza (ideologia aziendalistica,   nazionalistica, razziale etc.) è da combattere.
 Pensiamo agli albori del movimento operaio. Un proletario lavora  dodici-quattordici ore al giorno, in condizioni bestiali, e la  sua  sorte è condivisa anche da bambini che non vedono mai la luce del  sole.  Cosa fa? Lotta. Lotta finché non strappa le otto ore, la remunerazione   degli straordinari, le tutele sanitarie, il diritto di organizzazione e   di sciopero, la legislazione contro il lavoro minorile… E si  riappropria  di una parte del suo tempo, e afferma la sua dignità,  finché queste  conquiste non saranno di nuovo messe in discussione e  toccherà lottare  di nuovo.
Già renderci conto che il nostro rapporto con le cose non è neutro né   innocente, trovarci l’ideologia, scoprire il feticismo della merce,  è  una conquista: forse cornuti e mazziati lo siamo comunque, ma almeno  non “cornuti,  mazziati e contenti”. Il danno resta, ma almeno non la beffa di crederci  liberi in ambiti dove siamo sfruttati.
 Trovare sempre i dispositivi che ci assoggettano, e descriverli cercando il modo di metterli in crisi.
La merce digitale che usiamo incorpora sfruttamento, diventiamone  consapevoli. La rete si erge su gigantesche colonne di lavoro  invisibile, rendiamolo visibile. E rendiamo visibili le lotte, gli  scioperi. In occidente se ne parla ancora poco, ma in Cina gli scioperi si fanno e si faranno sempre di più.
 Quando uno sfigato diventa un tycoon, andiamo a vedere su quali  teste ha  camminato per arrivare dov’è, quale lavoro ha messo a  profitto, quale  pluslavoro non ha ricompensato.
 Quando parlo di “defeticizzare la rete”, intendo l’acquisizione di   questa consapevolezza. Che è la precondizione per stare “dentro e   contro”, dentro in modo conflittuale.
E se stiamo “dentro e contro” la rete, forse possiamo trovare il  modo di allearci con coloro che sono sfruttati a monte.
 Un’alleanza mondiale tra “attivisti digitali”, lavoratori cognitivi e  operai dell’industria elettronica sarebbe, per i padroni della rete, la  cosa più spaventosa.
 Le forme di quest’alleanza, ovviamente, sono tutte da scoprire.
Wu Ming 1
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