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Bologna, il 36, la rabbia giovanile, un modello di città

Sono giorni di accelerazione rispetto ad un tentativo che da sempre è al centro delle attenzioni della governance (Università, Comune, Questura) di Bologna: normalizzare la vita sociale e politica della zona universitaria della città, da sempre spina del fianco di chi vorrebbe imporre un potere assoluto sulla vita degli studenti. Andare a lezione, consumare nei bar, tornare a casa. Niente di più è concesso, niente di più è accettabile.

Da anni un luogo come il 36 di via Zamboni si oppone a tutto questo. Lo fa, semplicemente, esistendo in quanto luogo di riproduzione di vita alternativa al produci-consuma-crepa; da sempre, è luogo di dibattito e contaminazione, da sempre chi è attivo nei percorsi sociali e culturali in città lo riconosce come bene prezioso da difendere.

In tempo di confini, muri e barriere all’ordine del giorno, anche l’Università di Bologna ha provato a ergerne uno: e casualmente, la scelta è ricaduta proprio sul 36, dove un sistema di accesso via badge doveva disciplinare l’entrata della Biblioteca a pochi eletti, quando da sempre il 36 è luogo aperto a tutti e noto in città proprio per l’ambiente differente che vi si respira e si vive al suo interno.

Da giorni contro questi tornelli è in corso una battaglia: gli studenti e le studentesse semplicemente li boicottano, aprendoli al mattino e vigilando affinchè l’accesso sia consentito a tutti. In tempi di chiusura, uno spazio pubblico è mantenuto tale. L’Università non vuole tornare indietro, sente il clima cittadino propizio, Comune e Questura si accaniscono contro lotta per la casa, figure della povertà, spazi sociali..ogni questione sociale è derubricata ad ordine pubblico.

L’Università non accetta alcun tipo di confronto rispetto a quanto espresso dagli studenti, finti tavoli vengono convocati per ribadire che non c’è alcun tipo di confronto da portare avanti. La risposta è semplice, se i tornelli non li leva l’Università, vorrà dire che lo dovrà fare qualcun altro. E i tornelli vengono giù.

La risposta dell’Università è in linea con muri, frontiere e barriere: il 36 viene chiuso. Se possono entrare tutti, allora meglio che non entri nessuno. E’ una vendetta, e come tale non può essere accettata. Il 36 viene riaperto, e nella sala studio torna la normalità: gente che studia, gente che discute, gente che vive il suo essere studente come da logica.

 

 

Ma la logica diventa follia, e si spinge fino al peggio del pensabile: l’Università, come riportato dai giornali qualche ora dopo, chiede alla Questura di inviare la celere. Al prode Coccia, giustiziere di ogni opposizione alla crisi e al deserto sociale, fregano le mani: può inviare le sue truppe a rompere uno dei tabù più grandi, la neutralità dell’Università rispetto alla lotta politica e l’espressione di dissenso.

La polizia entra verso le 17,30 in Università: cariche indiscriminate contro studenti e studentesse avvengono in uno scenario surreale, con manganelli e libri che si confondono e studenti tenuti in ostaggio nei loro luoghi di studio. Philip Dick è tra noi.

 

 

 

Si avanza a calci e pugni in 30 contro 1..

 

 

Fuori si forma un presidio solidale: la rabbia è tanta, in Università c’è sbigottimento misto a odio nei confronti di una tale decisione, e immediatamente fuori dal 36, su via Belle Arti, si radunano centinaia di persone che non vogliono accettare una cosa del genere.

Mentre la notizia invade le prime pagine di giornali e i notiziari delle televisioni, la polizia carica e spinge il presidio su via Belle Arti. Qui il corteo si compatta e torna a spron battuto su via delle Moline per poi arrivare in piazza Verdi, conquistata e barricata mentre la polizia si attesta davanti al 36.

Ogni arredo urbano è sradicato dai manifestanti, del resto quanto successo in Università raggiunge picchi incredibili di provocazione e ogni tipo di aggressione poliziesca è possibile. Bisogna difendersi e prepararsi a reagire.

 

 

La polizia allora attacca la piazza coi blindati, in uno scenario che nelle enormi differenze si realizza proprio a quarant’anni dal 1977. Le camionette presenti su via Zamboni partono con caroselli sulla piazza, mentre vola di tutto.

 

 

 

La polizia nella calca effettua dei fermi che dureranno solo qualche minuto.

 

 

Di nuovo compatti, di nuovo determinati il corteo si attesta su via Petroni, ma non accetta più di dover scappare. Il 36 è il posto da difendere, va ripreso perchè è un furto quello in corso, un furto di uno spazio collettivo. E allora si riparte. 

Ormai sono migliaia le persone che urlano “Tous le monde deteste la police” e incominciano ad individuare nei loro slogan Ubertini, Coccia e Merola come responsabili.

 

 

Su via Belmeloro allora si va all’attacco: non esiste accettare una tale situazione. Si riparte verso via Zamboni, di nuovo il corteo si lancia, attacca, non intende esprimere alcun segno di resa. La polizia risponde, ma il corteo tiene compatto. 

I numeri ormai sono sempre maggiori, e il corteo si impone di andare a bloccare i viali, per dare un nuovo segnale alla città. Si paralizza la circolazione prima di puntare di nuovo verso il centro cittadino, direzione piazza Maggiore. 

 

 

Qui si scioglie il corteo, dopo una giornata di lotta che segna una grande risposta ai progetti di normalizzazione della zona universitaria e di tutta una città, che sulla ricchezza di quanto prodotto nelle vie delle facoltà basa ancora la sua bellezza e la sua economia. Una città che non si potrà, semplicemente, mai normalizzare: perchè significherebbe condannarla alla sua morte perenne.

 

Uno scenario che troverà sempre, ogni giorno come questo, la nascita di un nuovo oppositore.

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