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Aver trent’anni il 14 Novembre

Un contributo personale che ragiona sulle “mancanze” nella piazza di ieri.

 

Quest’oggi si possono leggere già molti racconti, numerose riflessioni e proposte di analisi sulla giornata di ieri. Per questo si rimanda alla rete in cui scovare – tra siti e blog – interlocutori di riferimento per una valutazione collettiva. Comunque lo si osservi, lo sciopero europeo del 14 Novembre va accolto come un segnale positivo di vocazione alla lotta e al cambiamento. Tuttavia, è forse importante provare a interpretarne anche le mancanze, le assenze. Non per intonare un lamento, non per scadere nel cinismo, non per lasciar spazio a retoriche reattive o sminuenti, ma per capirne qualcosa di più guardando sempre avanti.

Quando ieri sono arrivata in piazza e mi son guardata in giro ho avuto la sensazione di esser la più vecchia (e ho trent’anni!). Poi, con un po’ più d’attenzione ho capito che non era vero, che c’erano anche molti adulti e anziani nel corteo e che altri sostavano ai margini, in quella strana posizione di limbo che, tuttavia, esprime sempre approvazione e solidarietà. Tuttavia, non ho incontrato i volti dei miei coetanei, se non sporadicamente. Mi chiedo perché? In fondo sono proprio i trentenni (in senso metonimico a indicare una fascia di giovani adulti precari, diciamo tra i 30 e 40) a essere particolarmente colpiti e danneggiati dallo stato di cose presenti. I giovanissimi hanno davanti un futuro desertificato, una prospettiva che rifiutano con ragione sacrosanta, coraggio e determinazione; i meno giovani certificano la loro presenza in un tessuto di lotte localizzate la cui eterogeneità e le eventuali difficoltà ricompositive – se pur se ne auspichi il superamento – risultano quantomeno comprensibili all’analisi. I trentenni, invece, che in massa vivono in condizione di povertà materiale attenuata soltanto dal “welfare di famiglia”, lottano poco. Non c’erano ieri. Eppure fanno lavori talmente precari e malpagati che a perderli ci sarebbe solo da guadagnare. Oppure pratiche e tirocini non pagati o sottopagati in vista di una professione che si raggiungerà ormai completamente declassata. Oppure ancora ci si forma, con soldi propri o con borse dello stato, ma in ogni caso – questo sì e con certezza – a tempo indeterminato. Oppure, in casi rari si possiede finalmente un lavoro pseudo-decente che non era quello sognato, ma che di questi tempi va bene e ce lo si tiene stretto. Tutto sacrosanto, non fosse che nessuno si dichiara soddisfatto. Ci si lamenta e ci si arrabbia molto, infatti, pur perseverando nelle attività di sempre, raccontandosi ognuno la menzogna individuale più convincente. Ieri, per far un esempio personale, ho ricevuto circa una decina di sms colmi di sensi di colpa, di volta in volta assopiti dai più improbabili “non posso” il cui senso – fuor di metafora, consciamente o inconsciamente – era: “continuo anche oggi a mettere mattoncino su mattoncino affinché la baracca maledetta continui a reggere”.

Com’è possibile? A pensarci c’è da diventare matti! Cosa impedisce di disertare un lavoro con cui non ci si mantiene neppure? O con cui, magari, ci si mantiene, ma che non prevede malattia, ferie, pensione? O che magari dà tutto questo, ma si prende in cambio il corpo, la salute, il tempo e la vita? Paura, ricatto, speranza, cosa? Quale logica perversa può indurre a temere di perdere un lavoro che, in cambio del profitto altrui, offre soltanto un certificato di buona volontà che attesta sforzo e merito, omettendo tutto ciò che importa davvero. Trascurando, ad esempio, che mentre si cerca di salvarsi la pelle ci si appoggia ai genitori (che, così, restituiscono pure loro al mittente quel poco di denaro che credevano di essersi guadagnati). Quale potente strumento e pratica potrebbe mandare all’aria tutto questo? Ovviamente non esiste una ricetta bell’e fatta, ma si possono individuare alcuni nodi discorsivi su cui far leva.

In primis proprio il rapporto tra le generazioni. Ogni retorica che contrappone garantiti e precari va rispedita al mittente con tutta la forza possibile per numerose ragioni. Anzitutto perché ogni diritto acquisito sul lavoro non costituisce un “privilegio” o una concessione calata dall’alto, ma è il risultato di passati cicli di lotte. In secondo luogo perché lo stesso potere che aggredisce le garanzie dei lavoratori stabili s’inventa sempre nuove forme di sfruttamento precario. Infine, perché non esistono due mondi del lavoro paralleli, ma, al contrario, proprio la gerarchizzazione di differenze attraverso profili lavorativi ed esistenziali caratterizza il sistema produttivo entro il quale ci si muove e con cui ci si confronta.

L’altro cardine su cui insistere è la rottamazione completa della retorica meritocratica con cui molti miei coetanei si sono letteralmente rintronati. Circola, infatti, una sorta di definizione essenzialistica del merito, il quale viene presentato come l’ingrediente principale di un processo di modernizzazione del paese inteso come differenziazione “giusta e naturalizzata” del tessuto sociale. Una sorta di grottesco “darwinismo sociale” che pur fa presa e che si può riassumere nel motto qualunquista “Basta con la casta, viva il merito”. E cosa dovrebbe essere questo “merito”? Rispondere a determinati requisiti in un sistema neutro? E se, ad esempio, io fossi intelligentissima (una nobel potenziale), ma poverissima e immigratissima e quindi il “curriculm Harvard-style” me lo devo scordare, cosa sarei? Meritevole oppure no? E se invece fossi sempre intelligentissima e pure dotata di qualche mezzo materiale e poi, però, mi ammalassi e non riuscissi più a fare granché, cosa sarei? Non meritevole o meritevole da commiserare? E se, invece, non fossi proprio un genio e manco mi piacesse troppo né studiare né lavorare, cosa mi meriterei? La gogna e il disprezzo sociale o potrei ambire a vivermi la mia vita in pace? E se, invece, sempre molto intelligente, persino un po’ cool, non mi importasse nulla di diventare classe dirigente di sto mondo, cosa sarei? Meritevole o disgraziata scansafatiche? Sono esempi idioti – ci mancherebbe – ma non meno della retorica meritocratica. Nessuna valutazione è neutra rispetto al sistema in cui è inserita: meritevole per chi e per cosa? Meritevole a partire da quali condizioni materiali e in quale sistema di gerarchie? Meritevole a che prezzo per se stessi e per il prossimo? Questa storia del merito è davvero intollerabile: la misura di ciò che è bene o male, desiderabile o meno, lo decidono i soggetti a partire dalle loro vite, non certo il mercato anche se – ovviamente – pretende di farlo.

C’è poi un senso d’isolamento che fa leva sulla paura di un fallimento esistenziale e materiale. Questo a trent’anni lo si vive, per molte ragioni. Perché non si riesce a scrollarsi di dosso la violenza di modelli di vita normativi che certificano la maturità con casa-famiglia-lavoro anche qualora il terzetto sia materialmente irrealizzabile o forse, soprattutto, soggettivamente indesiderabile. Oppure perché, forse per la prima volta, la realtà tradisce le più intime aspettative e bisogna cavarsela per conto proprio. Oppure perché si ha voglia di smentire le aspettative altrui ed è legittimo. Oppure perché il narcisismo giovanile si mostra per quel che è e bisogna venire a patti in modo onesto con se stessi. O, ancora, perché si è vissuto almeno un amore infelice e, forse, qualche altra delusione ma è difficile socializzare l’esperienza dove la sfera collettiva si è fatta gelida, deserta, austera. Forse è proprio questo il senso primario e violento dell’austerity: mortificare l’animale sociale. E allora, forse, il rapporto tra merito e fallimento andrebbe capovolto rivendicandosi collettivamente il diritto a fallire, a una sorta di default soggettivo come pratica di inadempienza di ogni ingiunzione normativa.

C’è poi la rabbia che, anziché divenire prassi, recede nella frustrazione e affoga nelle passioni negative. Risentimento, pigrizia e cinismo spesso canalizzate entro retoriche legalitarie o convogliate in un lessico di vizi e virtù che sbaglia completamente la mira, sprecando energie e passioni in inutili ragionamenti sulle virtù formali dei “paesi davvero democratici, mica come l’Italia”. Eldoradi del Nord, di cui non importa se se ne sappia davvero qualcosa, purché l’esempio immaginario permetta di bacchettare senza lottare. Anche questo bagaglio retorico è da rispedire al mittente perché descrive la politica come una sfera che può fare a meno dei soggetti.

Il prossimo 14 Novembre – perché ce ne saranno altri – vorrei incontrare i volti dei miei coetanei. Vorrei che la composizione giovanissima delle piazze di ieri si ampliasse a coloro che, forse, si sono lasciati già troppo ingannare. Naturalmente non si tratta convincere anime infelici e neppure di squarciare improbabili veli di Maya poiché viviamo e vediamo tutti la stessa realtà. Si tratta se mai di prenderne parte a partire da sé, con le reti che si possono costruire. Walter Benjamin descriveva come “pigrizia del cuore” la peggiore delle passioni e intendeva con essa la tristezza che colpisce colui o colei che – pur vedendo i mali del tempo – non sa o non vuole più agire. Ad essa contrapponeva l’organizzazione della rabbia e la lotta. Chissà se può valere come indicazione per chi, come me, ha trent’anni e la prossima volta avrà voglia di complicare la composizione delle piazze italiane.

 

Simona

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