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Ancora Roma: il sindaco, il commissario e i grandi eventi

Contro questo disfattismo per riuscire ad orientare un punto di vista critico bisogna innanzi tutto rovesciare completamente la prospettiva. Il dibattito ossessivamente amplificato dai più grandi media nazionali sulla Capitale non è niente altro che la riproposizione odierna di quella che nella storia dell’Italia Unitaria si è chiamata “Questione Romana”. Dopo che Roma è diventata la Capitale d’Italia suggellando simbolicamente l’egemonia della borghesia di una parte del paese su tutto il territorio nazionale, i discorsi pubblici sulla Capitale sono diventati lo specchio riflesso dei conflitti interni, delle ansie e delle aspirazioni delle classi dominanti Italiane sul futuro del paese tutto. Perché la particolarità di questo paese è che, anche dentro la scala dello Stato Nazione, il dominio delle classi superiori è sempre stato fortemente localizzato. Bisognerebbe invece rovesciare la prospettiva e tentare di capire che cosa le vicende della Metropoli romana fatte di intrighi, ma anche e soprattutto di conflitti di massa possono dire oggi sulla trasformazione del Paese. Proviamoci.

La sinistra intellettuale borghese si è sempre distinta nell’esercizio del moralismo come arma politica e nel 1955 restò celebre l’inchiesta dell’Espresso, che sta costantemente sulla bocca anche dell’ultimo opinionista, intitolata “Capitale corrotta, nazione infetta” che metteva in luce gli scandali connessi allo sregolato sviluppo edilizio di Roma e che portò successivamente alle dimissioni dell’allora sindaco Rebecchini. Era un’inchiesta che esprimeva oltre ad un sano giornalismo di critica, anche l’intolleranza, oltre che la semplice incomprensione, di un meccanismo di sviluppo basato esclusivamente sulla Rendita fondiaria. Mentre i modelli urbani delle città del così detto triangolo industriale abituavano la borghesia ed i ceti medi italiani ad iniziare a confrontarsi con il resto d’Europa, l’Italia aveva una Capitale dove le favelas rimarranno incontrastate fino agli anni ’70 e faceva finta di non capire che questo non era che l’effetto del consolidamento del suo dualismo territoriale.

Oggi l’intensità del lamento è identica, ma il contesto è totalmente cambiato. Non esiste più – se non nelle parole di qualche magistrato meridionale che con accento borbonico celebra le virtù del modello Expo – un’ Italia produttiva da contrapporre alla Capitale malata. Anzi, è il paese intero che ha imparato molto da Roma. La bolla immobiliare ha inondato di cemento tutti gli altri grandi comuni, medie città della decorossissima provincia emiliana o piemontese hanno dovuto dichiarare bancarotta per gli abusi dei loro amministratori, e la Milano “capitale morale”, dopo essere stato fra i pochi luoghi in Italia dove il Capitale aveva espresso la sua essenza ai tempi del fordismo, ora celebra la sua “rinascita” sul turismo fieristico di una sagra di paese di dimensioni continentali. Segno di quali tempi e di quale Capitalismo parliamo.

E allora perché intestardirsi a parlare dell’eccezione Romana in termini apocalittici, quando solo fino a pochi anni fa la stessa città era il “modello Roma”? Perché fino a dieci anni fa bastava un’etichetta per celebrare l’alleanza tra Pd e palazzinari, e l’impiego di tutte le risorse pubbliche ai fini della riqualificazione dei quartieri storici e della loro trasformazione in Disneyland per turisti, e ora bisogna rifondare la Capitale dalle fondamenta? Perché quel periodo ha creato le basi di una crisi sociale esplosa poi in decine di mobilitazioni, conflitti, palazzi occupati nei quartieri, che neanche il pugno di ferro militare prefettizio riesce a contenere? Anche, ma non solo. La risposta di quel (piccolo) pezzo di città fatto di professionisti, intellettuali e gente bene, che vive di nostalgia per quel periodo avrebbe potuto facilmente proiettare la causa del veloce declino sulla meteora post-fascista Alemanno, che pure dal Veltronismo aveva ereditato molto, cambiandogli però il segno.

Del resto la fotografia di una classe politica impresentabile ritratta nelle sue maschere di maiale inizia allora, con Fiorito, consigliere regionale del pdl, che quelle maschere le compra con i soldi dei contribuenti. Passate le elezioni però, la narrativa del degrado non finisce ma anzi si moltiplica, investe Marino, la sua giunta, il sistema dei Servizi Sociali e straborda dal solo agone politico. I maiali prendono corpo “fisicamente” nelle stesse strade mentre rovistano nei rifiuti abbandonati sulla Boccea diventando il simbolo di una decadenza che smette di avere delle spiegazioni razionali, anzi le rovescia. È qui che risiede la spiegazione del caso Marino. Se la manutenzione quotidiana della città è ai minimi termini, è a causa della draconiana cura di austerità imposta a Roma per risolvere la sua crisi fiscale, come quella di altre città. Invece il pubblico diventa esattamente l’obiettivo da colpire per la risoluzione del degrado. Marino si è prima debolmente opposto a questa strategia. Non per anti-liberismo, ma perché privato della leva della spesa pubblica veniva meno il modello Roma nella sua versione originale, fatta di significativi flussi di spesa orientati a sostenere l’attrattività turistica della città. Qui sta il punto per le classi dirigenti nazionali (ed una grossa parte di quelle locali, per non parlare delle gerarchie Vaticane): Marino ha fatto prima saltare il secondo salva Roma invocando folle armate di forconi, esponendo Renzi premier da appena un mese alla prima battuta di arresto e poi è stato incapace di adattare quel modello al tempo dell’austerità fiscale con una cura shock che innalzasse ancora di più il prelievo fiscale, privatizzasse definitivamente la gallina dalle uova d’oro Acea, e socializzasse il debito delle società municipali di servizio per poi metterle sul mercato. (Questo non gli ha ovviamente impedito di concordare il quadro normativo nel successivo e definitivo testo del salva Roma). Ha saputo, in compenso, esercitare il suo coraggio sul salario accessorio dei dipendenti comunali, sui carichi di lavoro dei lavoratori delle società municipali lasciando il lavoro sporco della repressione dei movimenti sociali ingenerati dalla crisi sociale della città al Prefetto Gabrielli.

Non ci interessa parlare della discutibile figura del sindaco genovese, ricordando soltanto a scanso di equivoci, non deve la sua ambiguità di comportamenti alla estraneità alla Politica, non essendo stato affatto candidato come espressione della società civile, ma come alfiere di Goffredo Bettini, plenipotenziario del pd romano per quindici anni, ideatore del modello Roma di cui sopra, e referente nel Pd dei grandi gruppi immobiliari. Va detto però, che al di là di Marino una specificità c’è nella vicenda romana. La mobilitazione dei poteri messi in campo per l’attuazione del progetto reazionario di ristrutturazione sociale della città è centrata non solo sulla Prefettura, ma anche sulla Procura della Repubblica. Da un certo tipo di lancio mediatico dell’Inchiesta Mafia Capitale, alla vicenda degli “scontrini”: dopo un silenzio di venti giorni l’iscrizione nel registro degli indagati di Marino avvenuta il giorno del suo estremo tentativo di restare in sella, la Procura di Roma ha sempre dato l’idea di giocare un ruolo in una partita decisiva.

Non è un caso che una parte dei poteri giudiziari utilizzi il loro uomo-immagine del momento per propagandare che la Corruzione sia una morbo dell’intero corpo sociale della città e non un fenomeno criminale che cresce negli interstizi del rapporto tra Stato e Impresa. Nella Suburra nessuno è “innocente” dal politico, allo zingaro, al disgraziato. In questa maniera conflitto sociale e criminalità dei colletti bianchi sono immediatamente equiparati lasciando invocare una repressione che sia un tot al chilo, che consenta di estirpare il primo e lasciar proliferare la seconda. La via milanese ai grandi eventi è diventata nelle ultime ore qualche cosa di più di un riferimento ideale con la nomina del commissario prefettizio Tronca, quello dei 200 sgomberi prima di EXPO, il modello proposto è quello degli sgomberi e degli appalti truccati. La sfida è nell’opposizione sociale di questa città, e nei tanti settori di scontento che ancora non raggiungiamo, diffondere gli “anticorpi” per contrapporci ai veri barbari.

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