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Alla ricerca di nuove soglie: il senso politico del pensiero di Romano Alquati

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di Veronica Marchio da Machina

Continuiamo ad approfondire il rapporto tra le nuove generazioni militanti e il pensiero di Romano Alquati. Un pensiero incarnato in un metodo, un metodo incarnato nelle trasformazioni della composizione di classe e della specifica civiltà capitalistica. È quanto sostiene Veronica Marcio, autrice di questo prezioso contributo. L’autrice ipotizza dunque cosa può voler dire mettere collettivamente a verifica alcune categorie e questioni proprie di un discorso teorico incompleto. È esattamente l’incompletezza delle sue ipotesi, tuttavia, che può divenire per noi oggi griglia di lettura e valutazione della realtà contemporanea, invece che repertorio di risposte certe su di essa.

* * * *

Alla domanda sul perché riprendere in mano il pensiero e gli scritti di Romano Alquati oggi, si potrebbe rispondere in tanti modi. Anzitutto ricostruendo una bibliografia dei suoi lavori, passaggio decisamente necessario al fine di collocarne storicamente le riflessioni. Non è però compito di questo scritto elencare o soffermarsi su tutti i testi che compongono l’enorme quantità di riflessioni alquatiane, perlopiù inesplorate. Mi limiterò a ipotizzare cosa può voler dire provare collettivamente a incarnare alcune categorie e questioni proprie di un discorso teorico incompleto, almeno quello che è legato alla sua produzione teorica dagli anni Ottanta in avanti. È esattamente l’incompletezza delle sue ipotesi che può divenire per noi oggi griglia di lettura e valutazione della realtà contemporanea, invece che repertorio di risposte certe su di essa. 

Intanto è la stessa biografia militante di Alquati [1] a suggerire il metodo con cui usare, tradurre e far girare nella realtà le sue ipotesi. Una biografia inattuale per i suoi tempi, in controtendenza con ciò che lo circondava. Alquati considerava la militanza come posizionamento, radicamento, internità nella composizione di classe, conricerca, studio, atteggiamento. Militanza politica significava per lui stare al mondo senza stancarsi mai di dare fastidio a chi pensava di avere tante certezze. 

E allora alla domanda iniziale si deve rispondere innanzitutto provando a porre al centro il senso politico del pensiero di Alquati, rifuggendo qualsiasi tentazione di farne un feticcio specialistico da mettere a disposizione del ceto politico e intellettuale di turno. Lo specialismo, la specializzazione, è infatti un mezzo tipicamente capitalistico di neutralizzazione – nel senso che produce neutralità – della conoscenza e della formazione; una pratica che incatena il pensiero per renderlo innocuo. Lo specialismo è accompagnato dalla sacralizzazione del testo scritto – che è invece una merce come tutte le altre e, come dice Alquati, necessita di essere de-mercificata – e dal rendere difficile un pensiero e un ragionamento. 

Riprendere il pensiero e gli scritti di Alquati dovrebbe invece voler dire riportare la teoria rivoluzionaria al passo con la realtà, perché è solo in questo modo che si può individuare un senso politico di ciò che si fa, collocando lo sguardo e le ipotesi a livello sociale e materiale, uscendo così da cortili ideologici che potenziano dimensioni identitarie, ormai fin troppo note. 

Semplificare allora un pensiero complesso, come complessa è la realtà, non settorializzare un campo teorico al fine di farne un simulacro che si presume dotato di purezza. D’altra parte il pensiero alquatiano è intrinsecamente ed esplicitamente collocato dentro le ambivalenze sistemiche e soggettive. È complesso nel senso di uno sguardo complesso sulla realtà, ma a partire da un punto di vista parziale. È esattamente la parzialità del punto di vista a semplificare lo sguardo, non la pretesa che il pensiero si faccia universale. 

Esplorare l’inesplorato 

Nel corso di questo scritto, come già accennato, farò riferimento alle analisi di Alquati dagli Ottanta in avanti, le più inesplorate e dunque più a rischio di divenire di competenza specialistica. Si tratta di ipotesi racchiuse ad esempio nelle Dispense di sociologia industriale [2] che teorizzano il «modellone» della civiltà capitalistica; o ancora negli scritti sulle diverse industrie della riproduzione (formazione, comunicazione, servizi del terziario e così via) [3] e Nella società industriale d’oggi [4]. Qui Alquati modellizza la realtà capitalistica contemporanea, tagliandola nei suoi minimi dettagli: in livelli di realtà che si presentano come determinazioni differenti dello stesso processo di produzione di dominio (assi verticali), in elementi trasversali, come l’industria e la scienza; in assi orizzontali o ambiti che ricompongono le attività della società: produzioni di beni o servizi, consumo distruttivo e riproduttivo, politica. Infine in assi di profondità che si sostanziano in tre percorsi: quello ufficiale del capitale, quello informale o latente che nel suo divenire può assumere facce negative e positive (qui l’ambivalenza, come diremo meglio più avanti) e che ha a che fare con la possibilità di innescare un terzo percorso, quello contro. Ad attraversare l’analisi è sempre quel punto di vista parziale, quella ricerca di fuoriuscita dalla civiltà capitalistica, quel «contro» ipotetico e sempre possibile – né certo, né necessario – che rimane come «residuo irrisolto». 

Modellizzare significa quindi anche rendere più comprensibile la realtà complessa, fatta di astrazioni, da parte del capitale, dei processi reali e di mutamento. Alquati non è uno specialista del capitalismo, lo analizza, lo studia, lo scompone per elementi trasversali e livelli di realtà, ma sempre con l’obiettivo di costruire delle macchine teoriche aperte e ipotetiche per il suo ribaltamento. Delle macchinette utili a costruire delle capacità collettive di ragionamento per pensare oltre la civiltà capitalistica. Come si diceva all’inizio, si tratta di riflessioni incomplete, griglie di lettura della realtà in divenire. 

A dover essere recuperata è la capacità di Alquati di intravedere la politicità intrinseca che può stare nella «classe parte» proletaria. Politicità intrinseca si può intendere come «una passività attiva» [5], ossia la condizione di chi apparentemente accetta tutto (fino al nichilismo) ma è potenzialmente pronto a sfruttare le possibilità di fuga che gli si presentano davanti. 

Dunque il senso politico del pensiero di Alquati: l’insistente ricerca di una soggettività capace di arrivare ad agire sui livelli alti di dominio, ma attraverso un punto di vista intermedio che si costruisce sulle ambivalenze individuate dal modello ed evita la possibile chiusura teorica. 

Cosa fare allora delle categorie e dell’astrazione, elementi che rendono effettivamente complesso il suo pensiero? Sicuramente non dei mantra immutabili, bensì materia viva da mettere a verifica in quello che facciamo e pensiamo. Il rischio è altrimenti di rimanere incastrati dentro a una metodologia che riteniamo infallibile e statica, mentre Alquati è stato definito non a caso come l’operaista del processo – torneremo anche su questo punto.

I concetti e le categorie vengono creati per essere usati, sporcati ed eventualmente buttati via se inutili. L’astrazione deve essere determinata nella realtà e la determinazione deve assumere anche l’esigenza dell’astrazione. Astrazione determinata significa concretamente che l’apparato concettuale deve collocarsi su un livello di medio raggio della realtà, ma tendere verso il basso, cioè verso la realtà. Le nostre categorie non devono essere meramente sociologiche, possiamo certamente servici anche di quelle, ma devono essere innanzitutto politiche. L’astratto che troviamo nel modello inerisce al concreto non nel senso che quest’ultimo è un punto osservativo e di partenza, bensì nella misura in cui l’astrazione, come operazione concettuale, deve trovare la propria dimensione reale e socio-storica. Le due polarità astratto/concreto rimandano l’un l’altra «in un incompiuto lavorio di ri-costruzione continua» [6]

È la separazione dalla realtà infatti che secondo Alquati determina l’incapacità di cogliere il divenire dei processi, le possibilità di «contro-soggettivazione» della composizione sociale e di classe. Il lavoro intellettuale, quello che per definizione usa i concetti, il pensiero e l’astrazione, è la principale attività umana che rischia sempre di separarsi dalla realtà concreta. Questa separazione avviene con l’esaltazione di una cultura esplicita ad esempio, che fa della conoscenza un’entità sacra e posseduta da pochi soggetti separati dal resto. 

Categorie fondamentali intermedie 

Possiamo dire che il metodo di Alquati sta nel punto di vista parziale e processuale, che guarda a ciò che ancora non c’è ma potrebbe esserci. Attento alla trasformazione di qualcosa, piuttosto che alla sua conservazione e riproduzione, attento alla trasformazione della soggettività. La sistematizzazione della realtà nel modellone serve a immaginare un contro-percorso e a indicare delle linee di fuga. 

Ci sono alcune categorie alquatiane più importanti di altre che possiamo definire come categorie intermedie, perché da considerare sempre meno come concetti e sempre più come griglie di lettura. 

Innanzitutto leggere la realtà attraverso le lenti del processo, della dinamicità e della trasformazione. Si tratta dell’intelligenza politica di distruggere ogni staticità deterministica, portando il pensiero sempre al limite della sua processualità e trasformatività. Nell’ambito dei processi di ristrutturazione, avverte Alquati, le trasformazioni sistemiche non sono neutre, perché non indicano né liberazione già avvenuta, né cattura inesorabile da parte del capitale. Cogliere il divenire significa allora capire quanto una certa dimensione sia dotata di prospettiva e che direzione di tale prospettiva si vuole sviluppare. Sembrano considerazioni ovvie, ma in realtà non lo sono: cosa significa concretamente far proprio questo metodo di guardare ai fenomeni nella loro processualità? Significa non separare la politica, significa assumere concretamente che le ipotesi sono sempre provvisorie, incerte, non definitive. È proprio ciò che consente poi di saltare in avanti nell’ignoto. 

È qui allora che la categoria di soggettività [7], intesa come processo e campo di battaglia tanto per il capitale quanto per il militante, assume una baricentralità importante. Si tratta di un modo di osservazione, di valutazione, di una lente di ricerca. Se la politicità intrinseca è legata alla dimensione sociale, soggettività non è un termine per dire antagonismo già compiuto. Come si diceva, Alquati si pone il problema delle forze contro-soggettive possibili per la fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. Quella della soggettività è una questione sostanziale che Alquati non smetterà mai di portarsi dietro; essa non è un modo di essere generico o oggettivamente dato, ma intenzionale. Nonostante questo la soggettività è propria di tutti gli agenti umani viventi, mentre il soggetto, con propri fini, è potenziale. La soggettività non va quindi riferita al soggetto – che per Alquati, se c’è, è già contro – ma alla persona, in quanto soggetto intermedio e portatore di ambivalenza. È la contro-soggettività che va ricondotta al soggetto, strappando al capitale l’iniziativa dei percorsi di risoggettivazione individuale e collettiva. 

È forse qui utile spiegare brevemente come Alquati scompone in determinazioni sociali differenti quello che lui chiama agente umano. Quest’ultimo non è solo l’agente individuale, ma anche quello collettivo (gruppi, classi sociali ecc). 

L’attore umano è quello che interpreta ruoli sociali già predisposti dalla civiltà capitalistica, ascritti a lui e attesi dagli altri. È piuttosto accettante e attiva ruoli carichi di funzioni sistemiche specifiche. Quando parla di attore accentante Alquati non fa riferimento a una scelta, ma a un’accettazione coattiva – il ricatto della sopravvivenza, della riproduzione e soddisfazione dei bisogni. 

La persona è l’agente umano che residua all’attore, gli sottostà e lo sostiene; implica già una certa autonomia dei ruoli e la riproduce, imponendo al sistema, nei suoi processi e scambi, anche l’informalità e la latenza. Seguendo il ragionamento di Alquati, ciò significa che all’organizzazione dei ruoli si giustappone (e potrebbe contrapporsi?) un’organizzazione informale, nella quale sono le persone che operano sopperendo alle carenze dei ruoli; attore e persona si integrano, completano e alimentano. L’attore infatti è sempre costretto a far leva sul proprio essere anche persona, nella sua socialità ad esempio. «La persona sta dietro l’attore, nella sua natura di persona sociale, non può sopravvivere senza attivare ruoli sistemici e senza essere attore» [8]

Infine c’è il soggetto, che si qualifica come quella determinazione dell’agente che persegue interessi e fini propri distinti da quelli del sistema e implica un certo antagonismo nei confronti del sistema capitalistico. Il soggetto usa il suo essere attore o persona per scopi autonomi e antagonisti. È quella parte dell’agente umano che sviluppa e qualifica la sua autonomia anche come alternatività. I suoi scopi e fini non sono solo diversi ma in contrasto con quelli del sistema, coi vincoli tollerati e gli scopi sistemici (il capitalismo è intollerante e totalitario). 

Il rapporto tra la persona e l’eventuale soggetto si può dare sia nella formazione sia nell’informalità e in situazioni impreviste e contraddittorie. Alle tre determinazioni sociali di agente umano corrispondono distinti percorsi di rappresentazione/lettura/interpretazione del sistema; di suo attraversamento e utilizzo possibile e reale; di atteggiamento e comportamento nei suoi confronti. Mettere a verifica queste categorie significa dunque partire da questi percorsi, comportamenti, sentimenti, credenze – quindi soggettività – per arrivare a dare loro una direzione contro.

Composizione di classe, tendenza, anticipazione 

Arrivo così a un’altra categoria baricentrale che ci può essere utile come griglia di lettura, quella di composizione di classe. È questo un modo di guardare alla classe che porta con sé ciò di cui abbiamo detto prima: è un modo complesso del guardare, sta nella processualità e nel divenire della realtà e della dimensione sociale, tiene conto dei processi di formazione (anche capitalistici) delle soggettività e ha come suo implicito riferimento l’idea della ricomposizione di classe. Utilizzare questo concetto significa rifuggire da una lettura meramente fenomenologica (collocazione tecnica) della classe, perché la composizione tecnica non è una semplice fotografia dello sfruttamento. Significa anche rifuggire da una lettura meramente ideologica (identità, coscienza di classe da svelare): la composizione politica non è già antagonista solo perché etichettata come tale. In altre parole, guardare ai processi attraverso questa categoria significa rovesciare il punto di vista: al centro non c’è lo sviluppo del capitale ma il conflitto dentro e contro il rapporto di capitale. Non c’è alcuna simmetria tra la composizione del capitale e la composizione di classe, ma esse sono articolate assieme. 

Bisogna guardare ai comportamenti sociali che si muovono tra sussunzione capitalistica e possibile autonomia. La soggettività, infatti, è al contempo influenzata e va oltre la determinatezza, oltre l’origine, la collocazione economica e il reddito, oltre l’elemento psicologico, oltre l’identità. Da questo punto di vista composizione e ricomposizione di classe indicano qualcosa di completamente opposto all’idea di intersezionalità. Quest’ultima rischia di essere categoria spesso statica e composta da elementi dati una volta per tutte, quando questi si formano a partire dall’identità (individuale o collettiva). Sembrerebbe più una sommatoria di identità le quali, già completamente o parzialmente assorbite e valorizzate dal capitale – si pensi all’efficacia normalizzante e controllante delle identity politics –, faticano a essere la base e la spinta per contro-percorsi o contro-soggettivazioni. Detta nei termini alquatiani, qui la persona entra in gioco, ma riproduce i ruoli e finisce per perseguire i fini sistemici dell’attore, cosicché la libertà è sempre la libertà del capitale e ogni possibilità di contrapposizione è tappata. 

In precedenza ho fatto riferimento al concetto di ambivalenza, un termine spesso abusato – nel senso di venire nominato senza aver capito a cosa serve – e il motivo di questo abuso è a mio avviso sempre lo stesso: fissarsi sul concetto senza dargli un’utilità concreta. Si tratta banalmente di un metodo di valutazione di un fenomeno, capace di vedere le differenze sostanziali che lo caratterizzano (perché vanno in direzioni realmente o potenzialmente diverse o opposte, una negativa e una positiva) e proporle come alternative. Si capisce bene come l’ambivalenza (specifica, cioè che inerisce alla specificità della civiltà capitalistica) non sia qualcosa da cogliere, ma soprattutto da inventare – attraverso una forza-invenzione che non è solo o non tanto quella del militante – e da anticipare, più che inverare. E qui allora si apre tutto davanti a noi, un tutto che dobbiamo necessariamente esplorare perché non è dato, né oggettivo, né da oggettivare. 

E arrivo alle ultime categorie intermedie, quelle che ci portano a ragione verso il problema di cogliere o aprire possibilità di trasformazione e di interferire sulla tendenza. Si tratta in altre parole del porsi l’obiettivo della rottura, dell’individuare – ma anche inventare – le possibilità del contro-percorso. Si è parlato di materialismo della possibilità, inteso come capacità di sottrarre la tendenza all’idea di necessità, linearità delle cose e inevitabilità della direzione (capitalistica). Anche dire ciò sembra ovvio e scontato, nessuno fa politica se non crede di poter cambiare qualcosa, se crede nell’inevitabilità delle cose per come sono. Ma tendenza non significa previsione e possibilità non significa opportunità di riprodursi in quanto ceto politico o comunità – questione ben diversa dalla durata di un punto di vista parziale sul mondo e di uno stile della militanza. Talvolta sottrazione della tendenza alla necessità può significare rottura con forme di militanza ormai divenute inefficaci e autoreferenziali. Oppure capacità di odiare se stessi in quanto prodotto del rapporto sociale capitalistico o prodotto di una rovinosa crisi delle forme di militanza politica rivoluzionaria. Può voler dire concretamente non affezionarsi a identità di coltivatori di patate nei propri cortili, ma sradicare quelle radici infestate e ricominciare. Anche questo significa incarnare le categorie di Alquati. La possibilità non può stare nel già noto, così come non si può pensare di navigare nell’ignoto senza dotarsi di strumenti per farlo. Nel primo caso si starebbe tranquilli perché non si farebbero errori, nel secondo caso invece ci si limiterebbe a dire di essere meglio degli altri perché non si conosce ancora quello che si farà. Il rischio della rottura si deve correre attraverso la costruzione di macchinette collettive di ragionamento teorico e di messa in pratica. 

Questo significa anche chiedersi concretamente in che modo stiamo negli ambiti sociali in cui siamo collocati. Spesso gli atteggiamenti che assumiamo qui sono puro mimetismo e ideologia, oppure presunzione di rappresentare la medietà delle soggettività sociali con cui abbiamo a che fare. Queste questioni dunque interrogano e hanno ricadute pratiche sulla questione dello stile di militanza, su quella di radicamento sociale, sul modo in cui valutiamo i fenomeni sociali. 

Insomma, il come e il perché usiamo le categorie (di Alquati, ma questo vale per qualsiasi pensiero teorico-politico di cui vogliamo servirci), può avere delle conseguenze in termini di sperimentazione pratica e di ragionamento completamente opposte a seconda delle modalità con cui esse vengono incarnate e anche divulgate; se pensiamo ad esempio di poterle usare rimanendo sempre uguali a noi stessi, non le stiamo incarnando per davvero, ma svuotando della loro portata dirompente. Come scrive lo stesso Alquati: «Sono tutte questioni vecchiotte; ne sono convinto anch’io. Non c’è molto di nuovo e i processi si muovono e muovono dentro antiche tendenze: però arrivano a soglie nuove» [9].

Immagine: Foto di S.B., 2021-05-21
Note
[1] Si veda a tal proposito: F. Bedani – F. Ioannilli, a cura di, Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, DeriveApprodi, Roma 2020.
[2] R. Alquati, Dispense di sociologia industriale, Il Segnalibro, Torino 1989, vol. III, tomo 1-2.
[3] Il volume Sulla riproduzione della capacità umana vivente, scritto nei primi anni Duemila e rimasto finora inedito, è di imminente pubblicazione per la casa editrice DeriveApprodi.
[4] Il testo, scritto alla metà degli anni Novanta, è ancora inedito: anch’esso verrà pubblicato dalla casa editrice DeriveApprodi.
[5] Vedi G. Borio, Soggettività e militanza, in Un cane in chiesa, cit.
[6] Vedi M. Pentenero, Per una teoria di medio raggio, in Un cane in chiesa, cit., p. 37.
[7] Si rimanda alla definizione che ne dà Alquati in Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità Alternative, Torino 1994.
[8] R. Alquati, Dispense, cit., vol. III, tomo 2.
[9] Citazione presa da R. Alquati, Osservazioni su teoria, cultura, storia, «Ombre rosse», n. 27-28, febbraio 1979, pubblicato recentemente su Machina.

 

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