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La liberazione di imola

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Dall’inizio di aprile ricomincia l’avanzata alleata nella pianura, giorno dopo giorno le città vengono liberate, i tedeschi e gli ultimi repubblichini fuggono in direzione nord.

I partigiani sono sempre in prima fila e in molte occasioni sono loro a preparare la strada libera per gli alleati. Il 14 aprile 1945 è la volta di Imola, viene liberata e la gente si riversa per le strade a festeggiare la tanto attesa liberazione. Nel ricordo del partigiano Ferruccio Montevecchi partigiano nelle SAP gli episodi di quella giornata.

Alle 10 circa del sabato mattina, il 14 aprile, giunse invece Tonino per comunicarmi che l’insurrezione sarebbe avvenuta a mezzogiorno. L’ordine di Miglino era quello di condurre le squadre a casa sua, dove ci avrebbe forniti di un bracciale e di una tessera e recarci quindi alla sede della « Protezione antiaerea », in via Verdi, per ritirare le armi.

La giornata era splendida, ma il cielo era oscurato, a tratti, da nubi di polvere prodotte dai calcinacci che cadevano dalle case colpite dal cannone; un acuto odore di esplosivo stagnava nell’aria. Non vidi l’ombra di un tedesco ma non ebbi fortuna: dei dieci partigiani che componevano la mia squadra ne rintracciai soltanto sette e quattro di questi si rifiutarono di seguirmi. Quando poi, pochi minuti dopo mezzogiorno, incontrai Medeo, la delusione fu completa: al momento della verità, di tutta la nostra compagnia, una quarantina di sappisti, eravamo presenti soltanto in quindici, più Novello, un partigiano della pianura che era rimasto ferito ad un braccio in uno scontro sulla via San Vitale; poiché non poteva adoperare il moschetto gli passai la « Beretta ».

Il nostro obiettivo era quello di occupare e presidiare la Rocca sforzesca, sede delle carceri nazifasciste, e catturare gli eventuali briganti neri che ancora vi si trovavano. Non sarebbe stato, evidentemente, un compito facile, ma il pensiero di tornare a combattere dopo mesi d’inattività ci galvanizzò. Per raggiungere la fortezza, che si trovava al di fuori della cintura protettiva eretta dai tedeschi attorno a Imola, passammo attraverso uno stabile di via Saragozza, munito di due ingressi (che io conoscevo bene essendomene servito più volte): quando sbucammo in viale Saffi scorgemmo dei paracadutisti che stavano dirigendosi verso la periferia.

Sparammo, ma non li colpimmo; alcuni di loro si misero a correre lungo il viale, altri si rifugiarono all’interno di Casa Gardi. Attendemmo alcuni minuti al riparo dei tigli del viale, poi una donna, da una finestra del caseggiato, ci avvertì che tre soldati si erano dileguati attraverso i campi e che un quarto era nascosto in cantina. Lo catturammo subito: all’imbocco della scala lo ammonimmo che se non si arrendeva subito lo avremmo stanato con le bombe a mano e lui fu lesto a salire con le mani alzate. Non gli fu torto un capello, forse perché faceva pena: aveva la divisa sudicia e scucita, una barba di più giorni che nascondeva un viso pallidissimo e tremava come una foglia; poteva avere si e no vent’anni, un ragazzo, come noi. Mentre Pucci (Lino Balbi) lo scortava al comando di battaglione, entrammo nella Rocca, che trovammo deserta, popolata soltanto dai fantasmi di coloro che, ancora poche ore prima, avevano sofferto inenarrabili torture da parte degli sgherri fascisti. Usciti da quel tetro luogo ci imbattemmo in tre polacchi, fucile a tracolla e sigaretta in bocca; provenivano da via degli Orti e ci vennero incontro senza mutare atteggiamento, per nulla sorpresi. Ci offrirono sigarette profumate sorridendo, ci salutarono e proseguirono dirigendosi verso porta Bologna.

Poco dopo le 15 giunse una staffetta con l’ordine di rientrare al comando, sotto l’atrio del palazzo comunale. Per strada uomini e donne ci salutavano, chi con le lacrime agli occhi, chi con grida gioiose; in piazza, poi, era il finimondo.

 

Una moltitudine di gente entusiasta e festante andava e veniva senza méta, cantando, abbracciandosi, mentre il campanone della torre civica suonava a distesa.

Sul volto di tutti c’era la grande gioia della conquistata libertà.

Anche noi eravamo commossi per queste dimostrazioni di affetto da parte di persone che mai avevamo conosciute. Ci chiedemmo, l’un l’altro, notizie su come si era svolta l’insurrezione e così appresi che erano stati catturati altri sette tedeschi: tre in via Selice, due in via Aldrovandi, due ancora in via Tozzoni; due paracadutisti erano rimasti uccisi in via Vittorio Veneto e uno in via Pambera.

Ma anche un partigiano (probabilmente si riferisce a Anacleto Cavina. ndr) era caduto, in via Emilia, presso la piazzetta dei Servi.

Man mano che la folla aumentava, notai una cosa che mi stupì; vidi cioè moltiplicarsi anche coloro che portavano il bracciale e tra questi i quattro sappisti che non avevano voluto seguirmi. Fui tentato di rimproverarli, poi lasciai perdere; anzi, li ignorai per non metterli in imbarazzo. Mi dissi che, alla fine dei conti, in un giorno come quello nella piazza c’era posto per tutti. Ciò che contava, veramente, era che la guerra si allontanava, e con essa la paura e il terrore. Lontano, infatti, si sentiva ancora il rombo del cannone anticarro e il crepitio della mitragliatrice, ma la città era già in festa. Noi, del battaglione SAP, avremmo trascorso ancora una notte mobilitati, fianco a fianco con polacchi e inglesi, poi avremmo deposto le armi. Il compito dei partigiani, l’indomani, sarebbe stato quello di rimarginare le ferite che la guerra aveva lasciato dietro di sé, rafforzando una volta di più i legami con quel popolo generoso che ci aveva eroicamente sorretti durante quell’interminabile inverno in prima linea.

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