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Analisi: la guerra turca contro i curdi

La visita in Iraq del Presidente del Consiglio dei Ministri Binali Yildirim a Bagdad e Erbil all’opinione pubblica è apparso come uno scambio. La Turchia deve ritirare i suoi soldati da Bashiqa (Mosul). In cambio Bagdad e Erbil dovranno spingere il PKK fuori da Sinjar (Shengal). La delegazione turca per questo ha messo sul tavolo tre opzioni: primo – “voi combattete il PKK”; secondo – “noi operiamo insieme”; terzo – se non si possono fare entrambe cose, allora lo facciamo noi con il nostro esercito.

Con questo piano di battaglia il Presidente del Consiglio dei Ministri turco Yildirim il 7 e 8 gennaio ha visitato Bagdad e Erbil. Le priorità che Yildirim ha esplicitato nelle conferenze stampa congiunte con Abadi e Barzani erano focalizzate sul PKK. La collaborazione economica era in secondo piano. Quello che è stato infiocchettato diplomaticamente in queste conferenze stampa, dal punto di vista politico nel concreto significa: se combattete contro il PKK io vi aiuto nei vostri problemi economici. A questo è seguita anche la nota minaccia: se non solo fate, combatterò il PKK a Sinjar con il mio esercito. Ma nella realtà, la politica non è così semplice come è stata rappresentata nelle conferenze stampa a Bagdad, Erbil e Ankara tra Binali Yildirim, Haydar al-Abadi e Masoud Barzani. Perché nessuno dei tre può trasformare le sue parole in fatti, dato che tutti devono combattere con problemi sia di politica interna che estera e tutti al momento devono combattere con problemi di politica interna che quella estera e sono sovraccarichi sia dal punto di vista economico che militare. Lo Stato irakeno, così come quello turco, si trova in una crisi di sistema. E anche il Governo Regionale curdo in Iraq deve combattere con una profonda crisi politica.

Trio dei deboli
Per questo al momento né Bagdad né Erbil possono aiutare la Turchia, anche se volessero farlo. Perché essi stessi devono ricorrere ad aiuti. La Turchia a sua volta neanche la Turchia attualmente è in grado di dare sostegno a qualcuno. Le cause dei problemi attuali in Iraq e in Turchia a un primo sguardo possono sembrare di natura politica. Ma in effetti si tratta di una crisi di sistema. Derivano dai modelli di Stato dei due Paesi. Per questo da ogni angolo diventano più forti le grida che invocano nuovi modelli di amministrazione. E né a Bagdad né agli USA con l’offensiva congiunta di liberazione su Mosul riesce a rafforzare lo Stato Iraq. Il problema va più in profondità.

Il modello in Iraq, che è stato messo in piedi dagli USA insieme agli arabi sciiti e sunniti, nonché ai curdi, continua a perdere di significato. L’auspicata ripresa dello Stato attraverso la liberazione di Mosul non è molto promettente, dato che la questione su cosa succederà dopo la liberazione militare resta ancora irrisolta. Mentre Bagdad insiste sulle vecchie strutture a Mosul, i popoli minacciati da IS cercano altre soluzioni. Tutti loro, che siano cristiani, o curdi yezidi o curdi Shabak, turkmeni sciiti- sunniti, ecc., cercano il diritto all’autodeterminazione. La richiesta di decentralizzazione dello Stato dell’Iraq diventa sempre più forte. Anche i curdi nel nord dell’Iraq chiedono più indipendenza.

Anche la Turchia deve combattere con le stesse sfide. La vecchia repubblica sta scoppiano. Primi tra tutti a spingere per un’autonomia democratica, ossia una decentralizzazione dello Stato, sono i curdi. La risposta dell’AKP è di trasformare lo Stato in un sistema a un solo uomo, ossia in una dittatura. Per questo AKP/Erdogan hanno disegnato una nuova costituzione che attualmente è in discussione nel Parlamento turco. E i tutori di Atatürk prendono la parola e proclamano la loro sfiducia in proposito.

Sia la Repubblica turca che l’Iraq federale hanno bisogno di un sistema democratico. Le dottrine basate su Stati Nazione pan-arabi o pan-turchi non hanno futuro. La guerra di IS ha capovolto l’idea del sistema degli Stati Nazione secondo Sykes-Picot e Losanna. I popoli e le comunità religiose della regione chiedono sicurezza, libertà e democrazia, cose che questi Stati non sono in grado di offrire.

Un dilemma politico simile lo vediamo anche nella zona autonoma curda in Iraq. La crisi di sistema nella KRG si esprime nella miseria economica. I problemi interni non raggiungono tanto l’estero, dato che per via delle quasi quotidiane visite diplomatiche di alto rango dall’estero vengono messe in secondo piano. Già da tempo la gente in Kurdistan non chiede uno Stato curdo, ma chiede pane e democrazia. Il divario tra ricchi e poveri cresce di giorno in giorno. Qui si è creato un Kurdistan che è caratterizzato da due classi: i ricchi e i poveri. I ricchi allo stesso tempo sono anche i governanti.

Negli ultimi anni attraverso la propagazione di uno Stato indipendente credevano di poter distrarre le persone dai problemi sociali esistenti. A parte i governanti, nessuno nel territorio autonomo curdo parla di uno Stato curdo.

Per molto tempo il PKK è stato rappresentato mediaticamente come oppositore dello Stato dei curdi. Ma questo non ha dato frutti, dato che il PKK ha dichiarato di non immischiarsi nella politica interna del KRG (Kurdistan Regional Government). Ha invece proposto di discutere tra le altre cose anche di questo tema in un Congresso Nazionale del Kurdistan.
La fondazione di uno Stato dei curdi è stato un sogno dei curdi durato secoli. Ma ora le persone nel territorio autonomo del Kurdistan del sud vedono che con la fondazione di un proprio Stato i problemi non sono risolti. La domanda che viene posta è, se questo Stato propagandato con l’attuale stile di comando abbia la possibilità di assumere un carattere democratico? Anche questo sogno purtroppo è diventato vittima della politica di dominio curda in Iraq.

L’aiuto dei bisognosi di aiuto 
Le promesse di Binali Yildirim nei confronti del KRG che la Turchia aiuterà il KRG a superare la crisi economica, non è altro che una farsa. I fatti reali dell’economia turca dimostrano il contrario. Per via della crisi politica, anche gli investitori stranieri si ritirano dalla Turchia. Il turismo è a terra. La Lira turca continua a perdere valore. Il ceto medio, che finora è stato sostenuto dall’AKP con le risorse statali, presto non avrà più questa opportunità e si farà sentire. Non è giusto credere che la „maggioranza“ della popolazione turca sostiene l’AKP per motivi ideologici. Piuttosto c’è una dipendenza economica reciproca. Durante il suo governo l’AKP ha instaurato in modo diffuso una politica di dipendenza economica. Un tempo questo passava sotto il nome di „politica economica verde“. Il verde qui vuole rappresentare l’Islam.

A questo si aggiunge il corso di guerra totale dell’AKP. La guerra è costata al Paese molto dalle casse dello Stato. La Turchia conduce una guerra in Siria, Iraq e tende le sue braccia verso altri Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa. Questo costa caro al Paese. In questo contesto la promessa di Binali Yildirim di voler aiutare il KRG o Bagdad attraverso la collaborazione economica, è solo di natura verbale. La Turchia stessa ha bisogno di aiuto.

Ma anche dal punto di vista miliare né la Turchia né quelle forze alle quali la Turchia ha chiesto aiuto, quindi Erbil e Bagdad, hanno la capacità militare di condurre una guerra di successo contro il PKK. L’esercito turco dopo il fallito golpe del 15 luglio ha perso la sua motivazione per combattere. Migliaia di appartenenti all’esercito si trovano in carcere.
olti se ne sono andati all’estero. Da ultimo è attraverso un decreto con carattere di legge (KHK) al capo di stato maggiore Hulusi Akar, quindi il più alto esponente militare dell’esercito turco, sono state strappate le sue competenze che sono state passate a Erdogan.

A causa della sua debolezza militare, la Turchia anche in Siria si è vista costretta a rinunciare ad Aleppo e a concentrarsi contro i curdi nel nord della Siria. Quelli che finora hanno combattuto la guerra per procura turca in Siria, come l’Esercito Siriano Libero, Al Nusra e Ahrar al-Sham ad Aleppo si sono sentiti traditi e venduti dalla Turchia, motivo per cui oggi non possono più combattere al Bab (Siria del nord) come si desiderava. Per questo ora l’esercito turco combatte sul fronte più avanzato e deve accettare grandi perdite nelle proprie file. È quasi impossibile procedere con un esercito convenzionale contro IS o altre bande del genere, dato che questi seguono tattiche di guerra asimmetriche. Ciononostante la Turchia impegna tutta la propria forza ad al Bab, solo per impedire che i curdi qui aprano un corridoio tra i cantoni di Afrin e Kobane.

Ma anche l’esercito irakeno con tutte le unità speciali della milizia sciita, dallo scorso ottobre a Mosul si trovano in una strada senza uscita. Hanno subito pesanti perdite, cosa che ha avuto come conseguenza la perdita della motivazione a combattere dei soldati. Queste perdite si creano nonostante il generoso aiuto dagli USA e dall’Iran. Ma anche i Peshmerga del KDP, nonostante generosi aiuti dall’estero, non riescono a raggiungere gli obiettivi sperati.

la situazione a Mosul, le richieste delle minoranze in Medio Oriente e le mire espansionistiche della Turchia nella regione.
Nella sua visita a Bagdad e Erbil il Presidente del Consiglio turco ha proposto ai suoi ospiti un mercato delle vacche: datemi Sinjar (Shengal) e io ritiro le mie truppe da Bashiqa. Che la Turchia non si sarebbe ritirata tanto facilmente dal territorio irakeno, era chiaro. Perché Mosul per la Turchia un significato strategico e storico. Fino al crollo dell’impero ottomano, l’Iraq era diviso nei tre vilayet ottomani Mosul, Basra e Bagdad. Il territorio di Mosul all’epoca comprendeva tutte le zone di insediamento curde nell’attuale Iraq. Sia per la Turchia che per la Gran Bretagna, Mosul era una zona strategica, motivo per cui la sua spartizione non è avvenuta nelle quattro conferenze di Losanna nel 1923, ma è stata decisa solo con la diplomazia speciale tra turchi e britannici. Solo nel 1926 Mosul è stata consegnata da Ankara all’Iraq con un contratto.

La Turchia fino ad oggi non lo ha digerito. Erdogan e l’AKP quindi hanno dichiarato come loro obiettivo strategico rendere questa zona parte della Turchia entro il 2023. A questo scopo l’AKP ha esplicitamente elaborato una mappa per la Turchia del 2023. Su questa mappa si vedono quelle che un tempo erano le province ottomane di Aleppo (Siria) e Mosul (Iraq). Aleppo in questo contesto significa l’intera regione Siria del nord /Rojava. Mosul significa tutto il Kurdistan irakeno. Nel 2023 l’accordo di Losanna avrà 100 anni e secondo affermazioni turche dovrà perdere la sua efficacia. Considerata da questo punto di vista, la promessa del Presidente del Consiglio turco non corrisponde a verità. Yildirim ha dichiarato all’opinione pubblica mondiale nella sua conferenza stampa del 7 gennaio a Baghdad, “la Turchia prenderebbe in considerazione di ritirare le sue truppe da Bashiqa”. Anche il Presidente del Consiglio irakeno ha accennato che la Turchia glielo avrebbe assicurato. Ma solo cinque giorni dopo la visita di Yildirim il Ministro della Difesa turco Fikri Isik ha dichiarato che la Turchia si ritirerà da Bashiqa solo quando Mosul sarà liberata.

Da Aleppo a Mosul

Dopo la sua sconfitta ad Aleppo nel dicembre dello scorso anno, la Turchia si concentrerà su Mosul. La Turchia può motivare la sua presenza nell’Iraq del nord con la capacità di combattere IS a Mosul. Con la sua offerta”Sinjar contro Bashiqa” Binali Yildirim ha effettivamente cercato di prendere due piccioni con una fava. Vuole cacciare il PKK da Sinjar per mettere la regione sotto il proprio controllo e così controllare l’intera zona di confine del Rojava/Siria del nord. E anche se Iraq e KRG dovessero cedere su questo alla Turchia, è poco probabile che l a Turchia rispetti la sua parte dello scambio e si ritiri da Bashiqa. Quantomeno questo non è pensabile con questo AKP e la sua mappa per il nuovo regno turco per l’anno 2023.

E anche in questo sta la ragione per la quale lo Stato turco attualmente si sta trasformato in modo così rapido in una dittatura. Analogamente a quanto avviene in altre dittature, Erdogan crede di poter rinsaldare e trasformare lo Stato turco attraverso la dittatura di un solo uomo in qualcosa di più controllabile per compiere in questo modo l’espansione entro il 2023. La guerra contro i curdi, e soprattutto contro il PKK, viene condotta per le stesse ragioni. Perché le forze curde rappresentano l’ostacolo più difficile per l’espansione del sognato regno turco. E sicuramente in questo l’osso più duro è rappresentato dal PKK.

Inoltre gli yezidi a Sinjar con l’aiuto del PKK sono riusciti a costruire le proprie forze di difesa. Inoltre dopo l’attacco di IS nell’agosto 2014 hanno costruito anche proprie strutture amministrative. Sinjar è lo spazio vitale degli yezidi. E anche loro non si arrenderanno alla Turchia. Inoltre hanno la garanzia del PKK che in caso di emergenza starebbe al loro fianco. Gli yezidi di tutte le sfumature politiche credono nel PKK, dato che li ha salvati. Inoltre apprezzano la politica di „aiuto per l’auto-aiuto“ del PKK. Questo significa che il desiderio della Turchia di ripulire la regione i Sinjar dal PKK per stabilirvisi essa stessa, non è così facilmente realizzabile nemmeno con l’aiuto di Bagdad.

Lotta dei dominatori contro lo spirito del tempo
E poi c’è anche la questione di Mosul. La Turchia è solo uno di diversi attori che allungano i propri tentacoli sulla città. E anche se diversi attori nella missione di scacciare IS da Mosul si sono messi insieme, non c’è unità tra loro su come dovrà andare avanti la città dopo IS.

Mosul con le sue molte comunità etniche e religiose è come una versione dell’Iraq in piccolo. Per questo la ricerca di una soluzione per il futuro di questa città comporta anche una messa in discussione su come è stato amministrato l’Iraq fino ad ora. Sinora l’Iraq è suddiviso in 19 Gouvernements. La regione autonoma del Kurdistan ne ospita quattro. Anche se nella Costituzione irakena, democrazia e pluralismo sono scritti in maiuscolo, finora questo è stato valido per i tre grandi gruppi sociali del Paese: i curdi, i sunniti e gli sciiti. Dopo che IS il 9 giugno 2014 ha attaccato la regione di Mosul, soprattutto gli sciiti turkmeni, i cristiani, gli yezidi e i curdi Shabak sono stati le loro prime vittime. Il trauma dell’esperienza ha costretto questi gruppi a prendere in mano da sé il loro diritto all’esistenza. Oggi perorano una soluzione che vada oltre la regolamentazione dei Gouvernements. Così ad esempio i cristiani chiedono per la regione di Ninova un’autonomia cristiana con una propria difesa, istruzione, ecc. Gli yezidi che vivono a nord di Mosul nella regione di Sinjar, vogliono il loro proprio esercito, amministrazione, istruzione, ecc. Gli sciiti turkmeni nella zona di Tel-Afar chiedono lo stesso. Nessuno può togliere a questi popoli e comunità religiose il diritto all’autodeterminazione, da che nell’Iraq attuale sono particolarmente in pericolo.

Anche se yezidi, kakai, yaresan, faili, shabak, dal punto di vista etnico fanno parte dei curdi, contrariamente ai curdi in maggioranza caratterizzati come musulmani, hanno una filosofia di vita completamente diversa e una propria fede. Coloro che vivono nei confini del KRG vogliono più diritti autonomi. A questo si aggiunge anche che i curdi hawraman nella regione autonoma curda chiedono il diritto all’istruzione nel proprio dialetto, quindi Hawrami anziché Sorani. Simili richieste nei confronti del KRG vengono anche dai cristiani. La lista dei gruppi religiosi ed etnici che hanno richieste simili, si potrebbe allungare ulteriormente.

Per ora i rappresentanti dei tre gruppi dominanti in Iraq si oppongono a queste richieste. La ragione per questo sono i loro interessi di potere per via dei quali puntato su maggiore centralizzazione e controllo della società. Ma le richieste “dal basso” di maggiore sicurezza, pace, democrazia e welfare vanno di pari passo con le richieste di decentralizzazione, autonomia e autogoverno. Il centralismo per questo in questa zona in prospettiva non ha più alcuna possibilità.

La via verso la dittatura totale presenta difficoltà
Accanto ai problemi economici Ankara, Erbil e Bagdad devono affrontare anche difficoltà dal punto di vista militare. Se a questo poi si aggiunge anche uno scarso sostegno dalla propria popolazione, è difficilmente immaginabile che alle recenti minacce contro il PKK possano seguire anche azioni.

In Turchia ad esempio l’AKP per via dell’irrisolta questione curda, ha già problemi massicci a mettere in pratica il suo piano di dittatura totale. A questo si aggiunge che è solo una questione di tempo fino a quando la rabbia silenziosa della popolazione turca nei confronti dell’AKP si rifletterà nelle strade. Già ora l’insoddisfazione e la paura dei kemalisti e socialdemocratici rispetto alle intenzioni dell’AKP creano diffusa agitazione. Si schierano contro la nuova Costituzione che prevede il sistema presidenziale. Internamente la Turchia si trova di fronte ad una decisione strategica. Manterrà il sistema parlamentare già di per sé debole, o potere esecutivo, legislativo e giudiziario d’ora in avanti sarà unicamente sotto il controllo di Erdogan come previsto da nuovo disegno di legge presidenziale. Il Parlamento da giorni discute di questa bozza.

Combattendo con difficoltà interne del genere, non è possibile fare una politica estera forte. L’escalation della guerra con il PKK contribuiscono a distrarre l’opinione pubblica da questa realtà e ad “intrattenerla”. Così è più semplice anche far approvare la nuova costituzione da parte del Parlamento, con maggiore agio, evitando l’attenzione dell’opinione pubblica.

Anche l’Iraq si trova in una crisi di sistema
Problemi politici interni ci sono anche a Bagdad. Il regime non è in grado di garantire la sicurezza della propria popolazione. Nella capitale Bagdad di continuo esplodono bombe negli stessi punti del bazar. E le forze di sicurezza non riesco ad impedire nemmeno questo. Le ondate di fughe dalle regioni contese rappresentano un’ulteriore problema che Bagdad non è in grado di risolvere.

Inoltre le comunità etniche e religiose in Iraq mettono sempre di più in discussione il sistema di Stato attuale. Un tempo il sistema “federale” era stato elaborato insieme agli USA. Oggi minaccia di fallire. Perché dai diversi gruppi e comunità si fa più forte la richiesta di autonomia. Inoltre i curdi nel nord del Paese minacciano continuamente la loro separazione e la fondazione di uno Stato curdo. Anche gli arabi sciiti chiedono più diritti, di quanti ne possano offrire le leggi attuali. Gli attacchi di IS dal 2014 hanno fatto pensare tutti i gruppi etnici e religiosi minacciati a difendersi da sé d’ora in avanti, dato che non vedono garantita la propria sicurezza né da Bagdad né da Erbil.

Anche il territorio autonomo del Kurdistan non si trova in condizioni migliori. Da oltre un anno il Parlamento è abrogato nei fatti. Il governo si è sviluppato in un duetto dei partiti PUK-KDP. I due partiti a loro volta hanno proprie zone di potere e confini. In quasi tutte le città ci sono proteste quotidiane contro la miseria economica. Il divario tra ricchi e poveri si allarga sempre di più. Il sistema dell’istruzione è quasi fermo, dato che gli insegnanti sono continuamente in lotta per le proprie retribuzioni. Questa crisi si manifesta anche nel settore sanitario. I medici preferiscono trasferirsi all’estero per migliori condizioni economiche. Nel giro di un anno molti studi medici e ospedali sono stati chiusi. La catena della miseria può essere allargata con molti altri esempi.

La vittoria ad Aleppo porta al rafforzamento dell’offensiva dell’Iran

L’interessante nella triade Ankara-Erbil-Bagdad è che ciascuno sa della cattiva situazione dell’altro. A questo si aggiunge una combinazione controversa dal punto di vista della politica estera. Mentre Bagdad si barcamena tra Washington e Teheran e in questo per motivi religiosi (Bagdad-Iran sono sciiti) propende più per l’Iran; il KRG tende verso Washington-Ankara. Ma sia l’Iran che gli USA attualmente hanno un problema con la Turchia. Dopo la loro vittoria ad Aleppo, al momento l’Iran si trova all’attacco. Per questo osserverà il suo partner strategico Iraq con la massima attenzione nello scambio con la Turchia.

Per questo non appena il Presidente del Consiglio turco Binali Yildirim ha lasciato Bagdad, è stata annunciata una visita di alto rango dall’Iran. Bijan Namdar Zanganeh, Ministro iraniano per il petrolio, arriva con il progetto di portare sul mercato il petrolio curdo da Kirkuk attraverso l’Iran anziché attraverso la Turchia. Con questo progetto l’Iran vuole esercitare influenza sulla politica economica tra Erbil-Ankara. La maggior parte del petrolio proveniente da Kirkuk viene fornita dal KRG alla Turchia a prezzi molto convenienti e con questo rafforza la debole economia turca. Non il KRG, ma la Turchia tra vantaggio da questo scambio. Mentre l’Iran per quanto riguarda la guerra civile siriana siede allo stesso tavolo con la Turchia nella capitale kazaka Astana, Teheran cerca contemporaneamente di indebolire la Turchia con ogni mezzo. Di questo fa parte anche al commercio di petrolio tra Turchia-KRG-Iraq. Inoltre l’Iran con la milizia sciita dispone di una presenza militare in Iraq, in particolare nei dintorni di Mosul.

Intorno a Mosul sono attive sia la milizia sciita, nota come Hashd al-Shaab, che le milizie sunnite Hashd al-Watani. Queste ultime sono guidate dall’ex governatore di Mosul, Asil Nuceyfi, che ha rapporti molto stretti con Ankara. E così le milizie Hashd al-Watani vengono generosamente sostenute dalla Turchia. A questo si aggiunge anche che un esercito paramilitare della Turchia con il nome di SADAT addestra militarmente questi gruppi sunniti. Ufficialmente SADAT è un’azienda per la consulenza e il sostegno nelle questioni militari. Il suo capo Adnan Tanriverdi è un ex-generale dell’esercito turco e dall’agosto 2016 uno dei principali consulenti di Erdogan.

Anche per quanto riguarda Mosul, l’Iran ce la metterà tutta perché si possa realizzare il sogno dell’annessione di Mosul nel 2023. Anche se la Turchia dopo la sconfitta di Aleppo a Mosca sedeva allo stesso tavolo con l’Iran e lo farà di nuovo il 23 gennaio ad Astana, questo non significa che la lotta turco-persiana per il potere nel Medio Oriente sia finita. L’Iran continua a perseguire la strategia di potere di allargare la mezzaluna sciita (Iran, Iraq, Libano, Siria ecc.) e farà di tutto per impedire l’espansione della posizione di potere sunnita nella forma della Turchia. Questo finora è avvenuto attraverso la guerra per procura in Siria e Iraq.

Dopo la vittoria della Russia, dell’Iran e del regime Baath ad Aleppo, la Turchia ha dovuto accettare la propria sconfitta e compiuto un’inversione di rotta, dallo scontro attivo alla collaborazione apparente. La sconfitta turca in Siria e nel Rojava ha costretto Ankara a trasformare i nemici in amici.  Dall’inizio della guerra in Siria nel 2011 la Turchia, grazie al sostegno di organizzazioni come IS, Al-Nusra ecc. era determinante per il „campo sunnita“. Allo stesso modo curava vive relazioni diplomatiche, economiche e militari con l’Arabia Saudita e il Qatar e con loro combatteva il campo sciita. Questo trovava espressione in particolare nell’atteggiamento radicale anti-Assad. Ma questo atteggiamento ora appare appartenere più al passato.

Il peso della relazione USA-Turchia 
Di fronte alle critiche da Washington e Bruxelles, la Turchia ha minacciato di allontanarsi dall’occidente e di rivolgersi a est, in particolare in direzione dell’Organizzazione di Shanghai per la Collaborazione (SCO). Punto di partenza per questo cambio di direzione è soprattutto l’intervento militare della Turchia in Siria. Alla Turchia era stato lasciato un certo margine per l’intervento in Siria in forma di un ingresso a Jarablus alla fine di agosto dello scorso anno. Questo gli USA ovviamente lo hanno fatto a spese dei curdi Ma gli USA presto hanno dovuto aprire gli occhi, dato che la Turchia non voleva accontentarsi di Jarablus. Alla spinta per andare avanti per raggiungere Aleppo è stato poi posto termine da regime, Russia e Iran. A seguito della sua capitolazione dopo Aleppo, la Turchia si è rivolta al blocco sciita.  Il tono da Washington diventava sempre più brusco, motivo per cui tra l’altro ci sono state forti perdite nel cambio della Lira.
Provocazioni della Turchia per far divampare un conflitto tra curdi e i cambiamenti nella politica estera turca rispetto al blocco di potere sciita.La contro-strategia del movimento di liberazione curdo di fronte alla politica espansionistica turca.

Oltre agli altri sforzi in politica estera caratterizzati dalla politica anti-curda, l’AKP è anche impegnato a inscenare tra i curdi la tradizionale politica del “divide et impera”. A Erbil il Presidente del Consiglio turco ha invitato il KDP di Masoud Barzani a cacciare il PKK da Sinjar. Con questo Yildirm voleva interrompere il dialogo tra PKK e KDP iniziato negli ultimi anni e condurlo in una guerra civile. Ma non ha capito che il PKK farà tutto il possibile per non procedere contro un altro movimento curdo. Né il PKK né un altro movimento curdo per divergenze politiche metterà in gioco conquiste come la Regione Autonoma del Kurdistan. Lo status federale della regione in Iraq è una conquista nazionale complessiva di tutti i curdi e non il monopolio di un partito, anche se il KDP negli ultimi 70 anni ha svolto un ruolo pregnante nel Kurdistan irakeno. Una guerra tra KDP e PKK prevista dalla Turchia nuocerebbe molto di più al Kurdistan del sud che ai due partiti. Sia il PKK che il KDP sono consapevoli di questo pericolo.

Per il PKK è più semplice mantenere in piedi il dialogo politico con il KDP, mentre il KDP in questo deve affrontare diverse difficoltà. Perché per via del commercio del petrolio è finito in una dipendenza economica dall’AKP che lo rende ricattabile. A questo si aggiunge che il KDP a nome del KRG ha firmato un contratto per la cooperazione economica e politica con la Turchia per altri 50 anni. Finora non si conoscono i dettagli di questo accordo. Ma la minaccia da Ankara è sempre la stessa: „O combatti contro il PKK o l’oleodotto viene chiuso.“ Attualmente questi ricatti e minacce sono rivolti contro la presenza del PKK a Sinjar.

L’atteggiamento del PKK nei confronti di Ankara è chiaro. Non permetterà che Sinjar finisca sotto controllo turco, né che qualcosa del genere avvenga a Mosul. Per questo da mesi PKK e KDP discutono di una soluzione curda a Sinjar.

Ma le questioni relative a Sinjar, Mosul o anche la Siria del nord/Rojava non sono problemi da risolvere solo tra PKK e KDP. Questi problemi devono essere trattati nell’ambito di un congresso complessivo dei curdi per poter sviluppare impostazioni per la soluzione che coinvolgano tutti i curdi. In un congresso del genere i curdi devono sviluppare una strategia comune di difesa e diplomazia per tutta la regione. Devono consultarsi sull’attuazione del diritto all’autodeterminazione dei curdi in Turchia, in Iran, in Iraq e in Siria.

Gli attuali pericoli costringono i curdi a passi comuni. I rappresentanti politici delle curde e dei curdi si trovano di fronte a una responsabilità storica. Per questo era importante che il PKK per la fine dello scorso anno facesse un nuovo appello per un congresso curdo e sempre per questa ragione ha avviato anche il dialogo con il KDP. È importante anche che il KDP si sia dichiarato disponibile a un simile dialogo e che lo voglia proseguire.

Sconfitta turca nella guerra siriana
Dal 2010, l’inizio delle cosiddette primavere arabe, la Turchia ha fatto il possibile per sfruttare questa fase si svolta per le proprie aspirazioni di espansione del proprio potere. Sei anni dopo, la Turchia passo per passo ha dovuto rivelare le proprie vere intenzioni, che all’inizio perseguiva in modo nascosto. La presunta lotta turca anti-IS nell’ambito della coalizione internazionale non era altro che una facciata. La Turchia ha perso la maschera nella lotta contro i curdi nel Rojava. Perché quello che la Turchia in realtà voleva nascondere alla coalizione internazionale e all’opinione pubblica mondiale, era il dato di fatto che fin dall’inizio aveva come obiettivo l’annientamento delle conquiste curde nel Rojava. Ma la vittoria militare dei curdi contro IS nel Rojava e nel nord della Siria ha fatto deragliare la Turchia. Con l’ingresso turco a Jarablus nello scorso agosto ha poi rigettato la propria strategia di una guerra per procura contro i curdi con l’aiuto di IS e di altri islamisti, per diventare essa stessa attiva dal punto di vista militare. Ora l’esercito turco è presente in prima persona nel nord della Siria e cerca con tutte le proprie forze di impedire che i curdi e quei gruppi etnici e religiosi che collaborano con i curdi nella costruzione di una Federazione Democratica Siria del Nord, continuino a sviluppare il loro sistema.

Contrariamente alle affermazioni turche secondo le quali i curdi del Rojava vi vogliono costruire un proprio Stato o una federazione curda secondo il modello irakeno del 2003, i popoli della regione sotto la guida dei curdi sono riusciti nel corso degli ultimi sei anni a costruire la base per la proclamazione di una Federazione Democratica Siria del Nord. Alla fine di dicembre curdi, arabi, armeni, assiri e ceceni hanno deciso una propria bozza comune per il nuovo contratto sociale. Nel giro dei prossimi sei mesi ora cittadine e cittadini della Siria del nord ora dovranno votare sul contratto sociale composto da 15 pagine. Il 23 gennaio sarà difficile per la Turchia convincere i partecipanti alla conferenza sulla Siria di Astana che i curdi perseguono una separazione.

Cambio di partner della Turchia: dall’asse sunnita a quello sciita

Attraverso la bozza comune di contratto sociale per la Federazione Democratica Siria del Nord, non è stato possibile confermare le affermazioni di Ankara che i curdi vogliono staccarsi dalla Siria per uno Stato curdo. Perché con questo argomento nello scorso ha cercato di conquistare nuovi partner per la sua strategia anti-curda. Contrariamente ai partner che ha avuto finora, come Arabia Saudita, Qatar e le rimanenti cosiddette forze del campo sunnita, ora i suoi nuovi partner sono Russia, Cina, Siria e Iran. Questi Stati sono noti per la centralizzazione del potere e per questo essi stessi mostrano forti deficit democratici. Il principio di tutto il potere allo Stato in questi Paesi porta all’interdizione della propria popolazione. Per questo la Turchia crede che qui potrà trovare meglio punti di collegamento per il suo atteggiamento politico. Tutti loro hanno grandi paure della richiesta di democrazia delle comunità etniche e religiose all’interno dei loro confini statuali. La Turchia crede che qui troverà comprensione. Tuttavia non può ottenere molto con la sua argomentazione sul distacco curdo dalla Siria, dato che i curdi si considerano parte della futura Siria e per questo vogliono a ogni costo democratizzare questo Stato.

Dopo il successo nella liberazione di Minbic il 13 agosto 2016 da parte delle Forze Siriane Democratiche con la partecipazione delle YPG e YPJ le forze armate turche il 24 agosto sono entrate nel nord della Siria con la loro operazione “Scudo dell’Eufrate” e da allora controlla la regione settentrionale di Shehba, la città di Jarablus e località come Dabiq e Soran.

Prima dell’ingresso c’è stata una trattativa con IS, perché sgomberi questi territori e apra lo spazio per le forze dell’Esercito Libero Siriano che cooperano con la Turchia. Insieme alle forze dell’ELS l’esercito turco ha combattuto fino ad arrivare alla regione critica intorno ad al-Bab.

Ad oggi la Turchia in Siria si è presentata in modo puramente esteriore come partner della NATO all’interno della coalizione internazionale nella lotta internazionale contro IS. Ha cercato con ogni mezzo di spingere primi tra tutti gli USA, ma anche altri componenti della coalizione, a considerare le YPG/YPJ e forze politiche come il PYD come organizzazioni terroristiche al pari di IS. In questo non ha avuto successo. Ma la coalizione internazionale agisce essa stessa sul posto e dispone delle migliori informazioni, su chi effettivamente combatte con successo IS e altri gruppi islamisti e chi no.

La democrazia curda impedisce l’espansione turca 

Non solo nel nord della Siria, anche in Turchia i curdi combattono per la democrazia, dato che vogliono mettere in pratica il loro diritto all’autodeterminazione attraverso la democratizzazione dei rispettivi Stati occupanti del Kurdistan. Nella Siria del nord da questo punto di vista è stata compiuta una rivoluzione nel verso senso del termine. Alla fine di dicembre ora tutte le componenti della Siria del nord hanno concordato sulla Federazione Democratica Siria del Nord, Nella bozza di contratto sociale di 15 pagine, tutte le comunità etniche e religiose si manifestano come cittadini con pari diritti con i loro diritti e doveri per la costruzione di un futuro comune. Anche se curdi con idee nazionaliste hanno avviato una forte battaglia di contrasto, tutti i partecipanti alla conferenza di dicembre hanno dichiarato di essere popoli della Siria e di voler lavorare dal nord della Siria verso un modello democratico per tutta la Siria.

Anche in Turchia il rappresentante curdo Abdullah Öcalan nel processo negoziale con lo Stato turco tra il dicembre 2012 e l’aprile 2015 si era impegnato per democratizzare la Turchia attraverso una soluzione costituzionale della questione curda.
Guardando indietro alle trattative durate quasi tre anni tra Öcalan e lo Stato turco si può dire che in base all’attuale situazione in Turchia si può capire meglio perché Öcalan ha fatto sforzi incredibili per andare incontro all’AKP e tenerlo al tavolo delle trattative. Più volte ha fatto notare che una guarigione della Turchia dipende dalla soluzione della questione curda. La strategia di Öcalan fondamentalmente era una lotta intensiva per la democratizzazione della Turchia attraverso la soluzione della questione curda.

Solo ora diventa chiaro ed evidente perché Öcalan ha insistito in modo così palese e perseverante sul processo di pace. Riusciva perfettamente a prevedere che la Turchia non aveva digerito la perdita di territori attraverso l’accordo di Losanna e che l’AKP avrebbe sfruttato il vuoto politico determinato dalle primavere arabe per la realizzazione di un impero turco secondo il modello ottomano. Ogni pronunciamento di Erdogan dopo l’aprile 2015, la fine dei negoziati con Öcalan, ha confermato i timori di Öcalan. Erdogan ha parlato in modo aperto e chiaro e ha sempre ripetuto che avrebbe permesso un’autonomia curda nel nord della Siria e che la Turchia non avrebbe ripetuto l’errore dell’anno 2003 nel nord dell’Iraq (la fondazione del KRG).

Öcalan sapeva in anticipo che la Turchia con l’AKP avrebbe seguito la politica del impero neo-ottomano. Il 4° Congresso dell’AKP nel settembre 2012 si è tenuto con la parola d’ordine „Grande Nazione, Grande Potere, Obiettivo 2023“. Qui Erdogan ha dichiarato che il primo passo sarebbe stato il 2023, quindi il 100° anniversario dell’accordo di Losanna (spartizione dell’impero ottomano), e poi il secondo passo nel 2071. Ha detto anche che lui non vivrà il secondo passo, ma che la generazione dopo di lui avrebbe continuato a seguire questo passo. Circa 1000 anni fa, quindi nel 1071 d.C., le prime tribù turche sono migrate dalle steppe mongoliche verso la Mesopotamia e l’Anatolia, dove poi hanno fondato l’impero ottomano. Lo sconvolgimento nel Medio Oriente con le primavere arabe e soprattutto con la guerra siriana nel 2011, avevano aumentato gli appetiti della Turchia per la realizzazione di questo sogno.

Öcalan, correndo grandi rischi, ha cercato di convincere lo Stato che il sogno turco del grande impero è pericoloso e che i curdi non lo accetteranno.

La guerra in Iraq e Siria fondamentalmente sarà una lotta tra i curdi e la Turchia. Erdogan entro il 2023 vuole riavere i territori persi del 20° secolo. Per questo modifica le strutture della repubblica turca e per questo scopo vuole far passare la nuova Costituzione per potersi meglio espandere attraverso la dittatura. Vuole entrare nella storia come il secondo Atatürk. Come ostacoli trova sul suo cammino trova i curdi, ma soprattutto il PKK. L’idea curda del 21° secolo vede il riconoscimento del popolo curdo da parte degli Stati occupanti e della politica internazionale. Ma questo significa anche che i curdi non lasceranno alla Turchia i territori da lei rivendicati intorno ad Aleppo e Mosul. Contrariamente a quanto avvenuto nel 20° secolo, oggi i curdi non sono soli, ma sono riusciti a sviluppare insieme ai popoli che vivono nelle zone intorno ad Aleppo e Mosul una prospettiva di futuro comune.

Un ulteriore vantaggio per i curdi è dato dal fatto che la politica coloniale franco-britannica del 20° secolo nel Medio Oriente è fallita. Il tracciare confini artificiali tra Stati, passando sulla testa dei popoli, come è stato deciso cento anni fa attraverso l’accordo Sykes-Picot e i contratti di pace di Sevres e Losanna, è disastrosamente fallita. Al confronto con questa politica, anche l’esperienza con modelli federali come negli USA o in Russia non sono una soluzione, ma quanto meno tiene conto del pluralismo della regione. Questa impostazione quindi è il male minore. Da qui parte anche la soluzione di Öcalan e del PKK, ma va oltre. Perché strutture federali, autonome, confederali, contrariamente agli Stati Nazione centralizzati, si possono sviluppare. Dipenderà dall’abilità della politica e della diplomazia curda, far passare la loro impostazione di soluzione basata sul comune denominatore con i popoli rispetto a strutture federali nei confronti dei player globali. L’esperienza nella Siria del nord, quindi la costruzione di una Federazione Democratica Siria del nord, può in questo senso rappresentare un primo inizio.

La Turchia sarà la prima tra tutti a procedere contro la proposta di modello da parte curda. Il corso turco va in direzione della dittatura, mentre quello curdo va verso la democrazia. Potrà sembrare una guerra curdo-turca. Ma anche le decisioni delle restanti potenze nella regione avranno forti influenze sul percorso. Per questo sarà anzitutto importante vedere come reagirà la popolazione turca alla nuova bozza di Costituzione per la manifestazione di una dittatura turca. In secondo luogo sarà importante l’atteggiamento politico dei partner della NATO. Una dittatura turca non troverà comunque approvazione, dato che avrà conseguenze per tutti coloro che hanno a che fare con la Turchia. In ogni caso alla domanda su cosa si può fare per impedire la trasformazione della Turchia in direzione di una dittatura, si può rispondere con il riconoscimento dei curdi.

di Nilüfer Koc, Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK)

da: uikionlus.org

 
 

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