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Quando arrivano i nostri? Considerazioni sul libro dei Clash City Workers

Es irrt der Mensch, so lang er strebt (Goethe)

Curiosamente, mentre leggo il lavoro collettivo dei Clash City Workers (Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, La casa Usher, Firenze-Lucca 2014) mi arriva un testo, ordinato, di due studiosi dell’Hamilton College di New York (Henry Rutz, Herol Balkan, Reproducing Class: Education, Neoliberalism, and the Rise of the New Middle Class in Istanbul, BerghahnBooks, Oxford-New York, 2013): insomma la questione del ripensamento del concetto di classe, e della sua morfologia reale, finisce sempre per raggiungerti da più parti. Certo, il lavoro di Rutz e Balkan non solo riguarda un’altra classe, quella media, ma anche un altro paese, la Turchia, in un periodo economico molto diverso. Infatti buona parte del lavoro etnografico di Reproducing Class risale al periodo in cui il Pil turco cresceva mediamente del 4% annuo, anni ’90, mentre una parte successiva è del periodo in cui il prodotto interno lordo ha sfondato persino il 7% (metà anni 2000). Eppure il lavoro di Rutz e Balkan, come vedremo, finisce per tornare utile proprio per completare il commento al testo collettivo dei Clash City Workers. Testo che parla, al contrario, non solo delle classi subalterne ma di un paese, come ricordato nell’introduzione, dove sono oltre 150 i tavoli di crisi aperti presso il ministero del lavoro. E in questo scenario la necessità impellente, che muove Dove sono i nostri, è quella di capire il profilo sociologico dei conflitti di classe in Italia. Non per questioni di inquadramento disciplinare dei conflitti, che comunque rimane fin troppo indefinito nella asfittica letteratura scientifica nazionale, ma come questione fortemente politica: senza la comprensione della struttura di classe, sostengono sostanzialmente i nostri autori, nella quale esplodono i conflitti è impossibile esercitare ogni forma reale del politico (Introduzione, pg. 9-14). Non è quindi un caso che lo schema marxiano utilizzato, proprio per strutturare il libro, è quello dell’assunzione dell’analisi, da parte della scienza dominante, dei conflitti tra capitale e lavoro presenti in una società data. Con una differenza, già presente in Marx, proprio per questo chiamato in causa: alla comprensione dei conflitti, mutuata dalla scienza dominante, non segue una teoria del governo ma un pensiero della irriducibilità permanente dei conflitti all’organizzazione sociale del capitalismo (Introduzione, Ibidem). Proprio per questo ritorna, nei nostri autori, la necessità teorica del concetto di classe: il conflitto deve essere riportato non ad una costellazione di episodi del presente ma ad una morfologia della vasta composizione sociale irriducibile al capitale. Economia e conflitti tornano così a tenersi assieme e, finalmente, il politico non è più disciplina di governo ma di nuovo strategia, e pratica, di emancipazione.Se la teoria del conflitto, in Dove sono i nostri, è tradizionalmente mutuata da Marx, le lotte come segno storico e permanente dell’irriducibilità delle classi subalterne al capitalismo, allora il concetto di classe è direttamente ripreso da Lenin. E più precisamente, e tradizionalmente, si guarda al concetto di classe proprio nel momento storico in cui questo si colloca in un sistema di produzione dato; nel rapporto tra classe e uso dei mezzi di produzione; nell’organizzazione sociale del lavoro; nelle modalità di redistribuzione del reddito a cui hanno accesso le cassi subalterne (Introduzione, Ibidem). Coerentemente i capitoli successivi all’introduzione vengono sviluppati secondo le indicazioni ricavate dai classici: uso della scienza del dominio per definire i contorni sociologici e materiali della classe, della sua collocazione nella società italiana e nelle sue modalità di esercizio. Il testo, nelle struttura delle citazioni, appare più radicato nella patristica marxianache in qualche sua diretta filiazione italiana come l’operaismo: Marx e Lenin per come sono definiti in Italia dall’Istat, piuttosto che tramite la conricerca, si potrebbe dire. Infatti, il profilo della struttura delle classi subalterne nel nostro paese è definito, in modo marxiano, attraverso un uso ricognitivo della statistica: isolare e compilare dati, evidenziare squilibri strutturali così come emergono nella dimensione numerica. Di invasivo, rispetto all’impostazione statistica, c’è l’analisi dei conflitti presenti in ogni segmento di classe evidenziato da questo uso ricognitivo dei dati. Istat, Eurostat e diverse fondi statistiche possibili rappresentano così, in Dove sono i nostri, il Ricardo del Marx dei nostri giorni. Come i Principles dell’economista classico, anche se in completamente altri termini epistemologici e narrativi, i dati statistici non definiscono infatti la sola produzione e distribuzione di ricchezza ma anche delineano una infrastruttura sociale.Ne esce così un lavoro definito secondo questa trama di capitoli: struttura produttiva italiana (pg. 20-35); principali caratteristiche della forza lavoro (pg. 37-61); anatomia della forza lavoro (pg 63-144); lavoro indipendente, disoccupati e Neet (146-175); e, per uscire dal Ricardo dei nostri giorni e ripercorrere Marx, organizzare il conflitto (pg. 177-202).

Dall’esposizione di dati statistici e previsioni, e il relativo tema delle modalità di narrazione dei numeri e di rappresentazione dei grafici potrebbe davvero far entrare in un continente a parte (oggi assai remoto per la teoria politica italiana pietrificata in campi di cui si è persino perduto il senso), escono sostanzialmente tre filoni di analisi. Il primo insiste, e contribuisce a storicizzare una questione che è comunque pane quotidiano per chi si occupa di economia industriale da un quarto di secolo: il decentramento della base produttiva, del nucleo economico della “classe”, che aiuta il lettore anche a ripensare un tema classico. Quello espresso da Gorz nel suo Addio al proletariato che, in termini più distesi, nell’arco di un trentennio, possiamo così definirlo oggipiuttosto come un addio al proletariato dei grandi insediamenti produttivi (l’idea che ci sia uno stabilimento, come nel passato, genere Mirafiori con 60.000 operai in Italia e in occidente è oggi semplicemente impensabile). Gli effetti, sia sociali come urbanistici e politici, di questo decentramento sono stati immensi e nel testo vi è, chiaramente definita, una ricognizione statistica di questo spostamento sociale e produttivo. Il secondo filone di analisi presente riguarda la questione chiara,in Dove sono i nostri, della contrazione della base produttiva. Tanto è evidente la struttura economica delle classi in Italia, con squilibri di ricchezza crescenti ma pur sempre meno polarizzati che negli Stati Uniti, tanto si dimostra come la base produttiva, infrastruttura economica delle classi subalterne, è in contrazione (in linea con l’andamento drammatico della crisi). Il terzo elemento, coerente con l’impostazione “superare Ricardo con Marx”, dimostrare in modo classico che struttura economica delle classi subalterne e conflitti si tengono reciprocamente, è l’analisi ricognitiva dei conflitti presenti nei segmenti di società osservati e la messa a questione dell’organizzazione del conflitto. Ne emerge una mappatura dei conflitti locale e polimorfa che compone un quadro delle classi subalterne dove al decentramento, e alla contrazione della base produttiva, si risponde con la proliferazione locale dei conflitti (anche qui, e sul ruolo della comunicazione politica territoriale nella neutralizzazione di questi conflitti, si potrebbe dischiudere un altro continente ma una cosa alla volta).

Non è un caso quindi che nel testo si concluda, tra decentramento e contrazione della base materiale delle classi subalterne, che anche che la classe è una “complessità” (pg. 178). Non è un omaggio messo lì in un testo, in modo tardivo, ad un concetto ineludibile. Bastariavvolgere la trama del libro: ribadire i fondamentali della strutturazione economica delle classi subalterne, fare ricognizione della loro strutturazione nazionale ma anche del loro decentramento produttivo e della localizzazione dei conflitti. Come mai, infatti, non c’è un passaggio, una tendenza dalla territorializzazione dei conflitti alla compiuta nazionalizzazione delle vertenze? Perché nessuna di queste assume il ruolo catalizzatore che ebbe, a suo tempo, il contratto dei chimici durante l’autunno caldo? E’ solo questione di agenda setting dei media principali? La risposta, immaginiamo, non può che essere apparentemente sibillina: sta nella particolare, complessa struttura sociale delle classi subalterne italiane.

Per quanto quindi la base materiale della struttura in classi della società italiana sia determinata, e Dove sono i nostri fa lavoro di chiarimento sul tema, emerge quindi un concetto di complessità con il quale è bene, sia dal punto di vista teorico che politico, fare i conti. Quali possono essere i temi che possono agitare un dibattito positivo, nel rapporto tra complessità della classe, delle classi subalterne, verso uno sbocco politico dei conflitti? Vediamone qualcuno.

– Il primo tema da affrontare, anch’esso classico, specie se legato a decentramento produttivo, contrazione, conflitti locali e polimorfi in presenza di una classe, sta ineludibilmente in Durkheim. E più precisamente nella tematica della divisione del lavoro sociale. Il sociologo di Épinal già alla fine del XIX secolo poneva infatti una questione che, in termini mutati, ci fa comprendere anche oggi il rapporto tra individuo, territorializzazione dei comportamenti e classi subalterne. Il fenomeno chiamato sbrigativamente individualismo, la parcellizzazione dei comportamenti (anche conflittuali) trovano in Durkheim la spiegazione entro l’idea che il legame sociale non si sia allentato ma modificato lungo tutto l’insieme della società. Che non si possa quindi parlare di società frammentata ma diversamente legata e collegata, connessa in modo mutato tra particolare e generale. Durante il fordismo era evidente che la divisione del lavoro sociale, compresi i processi di autonomizzazione e di legame tra particolare e generale, passava comunque in riferimento alla grande fabbrica. Oggi, in una economia sempre saldamente capitalistica, per quanto molto mutata rispetto al fordismo,emerge, da testi come Dove sono i nostri, la necessità di una mappatura rinnovata del rapporto tra particolare e generaledella divisione del lavoro sociale. E’ da questo genere di mappatura, che integra l’aspetto economico-redistributivo di Dove sono i nostri, che la lettura dei conflitti appare ancora più efficace. In modo che i “nostri” siano collocabili senza esitazione entro la nuova, riconoscibile divisione del lavoro sociale. Quella divisione che, non composta del solo aspetto produttivo, fa comprendere come i momenti di parcellizzazione, la frammentazione dei conflitti rimandano comunque ad un assieme sociale conosciuto. Assieme che fa capire quanto i conflitti riguardino la società nel suo complesso non alcuni elementi locali e specifici. Insomma, emerge qui la neccessità di una produzione teorica di un assieme che ancora la dimensione conflittuale non riesce ad avere e ad indicare.

-Come organizzare il conflitto, oggetto della parte finale del testo, è comunque lo scoglio contro il quale sbattono 30 anni di teoria, e di pratiche di movimento. Qui, se ci si è rivolti all’Istat per una ricognizione della struttura di classe in Italia, non farebbe male rivolgersi a Berlusconi e a Grillo per farsi un’idea strategica di come si organizzano le classi subalterne. Per inciso stiamo parlando dei due fenomeni che sono risultati, secondo studi dedicati, essere il primo partito operaio d’Italia alle elezioni 2008 e 2013. Ma, e non stiamo parlando degli autori di Dove sono i nostri, se, a volte, riesce ad essere comprensibile un uso creativo della statistica risulta quasi impossibile una analisi, a fini di ricomposizione sociale, dei processi spettacolari di ricomposizione politica. Il criptofrancofortismo, lo spettro dell’alienazione pronto a ghermire ogni volta che si mette mano a strumenti di comunicazione politica, è ancora vivo specie nella teoria critica di movimento. In epoche ormai ancestrali, la sinistra del Pci ha studiato, criticato, compreso e superato il modello del partito, da Togliatti a Berlinguer, per incalzarlo lungo tutti gli anni ’60 e ’70. Oggi è chiaro come l’acqua di sorgente che i modelli di organizzazione del consenso delle classi subalterne, e persino operaio, sono altri, mutuati dalla comunicazione generalista e dalla sue successive filiazioni. Il ritardo clamoroso, su questi temi, di tanta sinistra di movimento è la cifra del suo rischio di marginalizzazione. Perché questi non sono temi di comunicazione, “mediologici”, ma la moderna cifra dell’organizzazione. Un altro tema complesso non da poco.

-In sede d’analisi è poi importante, proprio come fa questo testo collettivo, tenere a mente un fondamentale punto di vista di Marx: i conflitti e la classe, le classi subalterne non sono mai come li vede la scienza dominante. Continuare ad usare la statistica comporta, successivamente, entrare nel merito nei cambiamenti delle modalità di calcolo, delle mutazioni dei paradigmi epistemologici, nei conflitti scientifici interni a quella disciplina (come in tutte le altre), dei rapporti (ad esempio) tra Istat ed Eurostat, tra pubblico e privato. Non esiste una lettura oggettiva del dato, a crederci c’è rimasto giusto qualche mohicano della politica, c’è piuttosto una continua e instabile ridefinizione del rapporto tra complessità e sviluppo della statistica, da una parte, e organizzazione dello stato, dall’altra, già vivissima fin dalla seconda metà dell’ottocento. Tutto questo finisce, da allora,sia per per mutare continuamente i contorni dell’oggetto (porzioni intere di classe che appaiono e scompaiono, a seconda delle dinamiche di reificazione “oggettiva” cioè delle mutazioni di paradigma epistemologico e delle esigenze di accumulazione) che esprimere la dinamica stessa della ristrutturazione continua sia dell’amministrazione che della forma stato. Una ristrutturazione così sottile ma forte in maniera tale da condizionare potentemente le stesse forme giuridiche. Inoltre l’organizzazione, la lettura, l’analisi dei dati, a parte la questione di quanto la ormai pressante questione dei big data cambi o meno quel mondo, sono da tempo in preda a processi di internazionalizzazione, e di privatizzazione, della reificazione che ce le rendono, a loro volta, merce. E’ evidente quindi che il dato, che non era meramente tale già dagli ultimi tre decenni dell’ottocento, ha un potere di reificazione instabile e complesso che non può rimanere in mano alla scienza borghese. Non solo, se si segue un classico importante come Il caso domato di Ian Hacking si comprende come, alla nascita stessa della statistica, non emerge solo o tanto la questione epistemologica del controllo del mondo dell’indeterminato ma quello del disciplinamento della società. Il puro dato sulle classi subalterne è quindi già un dato di disciplinamento, con effetti di potere amministrativo e relazionale come giuridico e politico, ottenuto in modo complesso. Ma così forte tale da essere immanente alle modalità di ristrutturazione sia dello stato che, come oggi, della governance europea. Non solo, come benissimo sa chi segue a vario titolo il mondo finanziario, il dato ha subito da molto tempo un processo di commodification. Non è più, come nel laboratorio borghese dell’800, un prodotto della scienza autonoma dello stato ma è, in modo sempre più crescente, merce tra le merci con connesso potere di reificazione. Un altro tema di impressionante complessità da aggiungere. Proprio per “vedere” l’oggetto classe subalterna con maggiore chiarezza.

-Da qui, sulla questione, vertiginosa se presa sul serio, dei processi di commodification che vanno ben oltre la dimensione del lavoro, e della stessa moneta, va sicuramente ripensato il lavoro cognitivo. In Dove sono i nostri il tema è pensato in contrapposizione alla questione del lavoro della “classe”. Il lavoro è infatti pensato, citazione letterale, come qualcosa che produce “le cose visibili”. Il punto è che la commodification delle cose invisibili –dalla scienza a, toh, la struttura stessa di Internet già dagli anni ’90 a dati, algoritmi, software e concetti- rappresenta quella natura ineludibile del nuovo capitalismo che porta con sé, in modonuovo, la questione del lavoro come merce. Già perché il lavoro non è merce, se prendiamo il modello Amazon comprensivo di molte generazioni di modalità di assoggettamento capitalistico, solo nei magazzini della logistica. Ma anche nelle piattaforme tecnologiche e, (per alcuni sorpresa), persino negli uffici di progettazione. Se studiare, Capitale alla mano, le modalità di accumulazione economica di Google regala molte sorprese, di cui la stessa Google è spaventata, e molte conferme, il modello Amazon fa capire spontaneamente cosa sia il piano generale di assoggettamento del lavoro. Amazon sussume infatti figure del lavoro diversissime tra di loro, unificando le forme cognitive e “non cognitive” dell’assoggettamento al capitale, per adesso, meglio di tantissimi saggi. Questo anche per capire che le stesse modalità capitalistiche di determinazione della ricchezza, e dell’assoggettamento del lavoro, possono anche sfuggire alla scienza del dominio. Solo recentemente, ad esempio, la statistica britannica ha scoperto che l’uso dell’analisi dei big data ha prodotto nel Regno Unito, in un biennio, oltre 50.000 posti di lavoro. Di cui molto, va aggiunto, è merce sottomessa quanto il lavoro che fa vedere le “cose visibili”. E questo accade anche in Italia e andrebbe capito alla luce delle polemiche scientifiche che sono emerse negli Usa sulla determinazione del Pil. Possibile, dicono in Usa che nel ventunesimo secolo, nella determinazione del Pil americano, il mondo dell’informatica contribuisca sostanzialmente per quanto era stimato negli anni ’70? Anche qui le risposte sono molto complesse, probabilmente con sorprese, ma “i nostri” li si scoprono, ineludibili e inevitabili, anche in quelle latitudini del lavoro. Resta da dire, sempre in termini di dibattito sul calcolo del Pil, che entrando nelle questioni beyond Gdp, che attraversano tanti dibattiti nella statistica, si può arrivare a scoprire un mondo importante quanto quello determinato dall’accumulazione della ricchezza: quello relazionale presente nelle classi e nei ceti sociali. Ed è nell’intreccio tra dimensione economico-materiale e dimensione relazionale che si struttura, anche sul piano cosiddetto quantitativo, la questione della classe. Un altro piano di complessità molto alto quanto essenziale.

-In Dove sono i nostri esce poi una dimensione di classe eminentemente nazionale. E’ una questione di restringimento di campo nell’analisi o c’è dell’altro? Perché qui siamo di fronte ad un evidente e drammatico paradosso fino ad oggi superato solo dalla retorica di testi, generosi quanto prevalentemente letterari, che invocano improbabili, per adesso, ricomposizioni continentali. Mentre il capitalismo, da tempo, ha di nuovo rotto i confini dello stato-nazione, in modo estremamenente più radicale dell’epoca della prima globalizzazione, le classi sembrano sostanziarsi solo sul piano nazionale. E non è questione di argomentare sulle similitudini sul modo di lavorare, persino di consumare, in Spagna, Italia o Germania. Esistono e sono rilevabili anche in termini di comparazione dei dati. Solo che siamo di fronte, e dalla parcellizzazione dei conflitti sui territori qualcosa lo si deduce già, ancora alla coincidenza tra confini nazionali e confini politici nella relazione tra le classi subalterne. Classi che, sul continente, vivono politicamente, in modo prevalente, sul proprio spazio nazionale mentre quello del capitale è efficacemente globalizzato. Una risposta teorica, a suo tempo, è stata datanello storico Antisystemic Movements di Hopkins, Wallerstein e Arrighi. Risposta secondo la quale i movimenti, e la composizione sociale delle classi subalterne, seguono, e qui oltre a Marx si chiama in causa Weber, una combinazione di elementi di classe e di ceto (o, se si preferisce, non di classe) . Ad esempio, su Antisystemic Movements, la “classe operaia britannica”, fenomeno storico, era la combinazione tra un elemento strutturale di classe, l’essere operaio, e di un non di classe (l’aspetto nazionale britannico). Questo elemento combinatorio, tra classe e non classe per capirsi, è formente presente nei movimenti come nella struttura sociale reale. Il mondo reale non funziona, ad esempio, come nella lirica del cognitariato. E nel mondo reale oggi l’assenza della classe “pura” è così forte tanto che, come è accaduto, negli anni passati sia nei movimenti che, nella loro analisi, hanno prevalso gli elementi di ceto, di identità mettendo in secondo piano, fino a far scomparire, le determinanti economiche di un comportamento, di un movimento, dell’esistenza stessa di una stratificazione sociale. Gli stessi Occupy o Indignados, per quanto abbiano riportato al centro dell’attenzione la questione materiale, non a caso hanno faticato molto a darsi una strutturazione di classe. I “nostri” di oggi sono quindi qualcosa di complesso, di combinatorio , di fronte ad una frattura sociale estesa e permanente che rischia di accompagnarci minimo per tutti gli anni ’10, di cui Dove sono i nostri fa emergere il lato quantitativamente di classe e statisticamente legato all’ineguaglianza della distribuzione della ricchezza. Ma come avviene la combinazione, in Italia, tra elemento di classe e non di classe? Negli ultimi 20 anni, abbiamo citato non a caso l’esempio Berlusconi e quello Grillo, con la prevalenza di quest’ultimo. La complessità può però parlare in ben altro modo. Basta non credere alla retoriche, simmetriche, della classe pura o del superamento puro della classe. La società oggi si presenta sempre, nelle forme reali, in modo combinatorio e apparentemente incomprensibile alle forme pensate dalla politica (che è strutturata per pensare in ritardo). Basta assumere, in una logica di classe, la complessità di questa situazione.

-Un’ultima questione che riporta al tema iniziale del testo di Rutz e Balkan, sulle tattiche di riproduzione di identità e relazione di classe (media) nella Turchia dei periodi di picco di boom economico. Non è il caso di riportare alla luce i termini della polemica tra Edward Thompson, autore della fondamentale opera sulla formazione della classe operaia in Inghilterra, e il marxismo a lui storicamente contemporaneo e culturalmente antecedente. Basta ricordare l’essenziale insegnamento di Thompson: il making, il farsi storico della classe operaia non è mai la registrazione di un fenomeno puramente quantitativo. E’ un lungo lavoro relazionale costruito attraverso vasti conflitti, la popular culture (le cui mutazioni sono un altro continente sconosciuto alla teoria politica contemporanea ma non al marketing), l’alfabetizzazione delle masse e la costruzione di un modello di organizzazione politica adatto all’epoca. Entro questa dimensione, nella quale si sedimenta una combinazione tra elementi di classe e non di classe con i primi come prevalenti (la “classe”, “operaia”, “britannica”, dividiamo per tag), è possibile definire un processo politico che abbia caratteri di realtà e una prospettiva storica di emancipazione non più legata alla contingenza, alla sola letteratura o all’effimero politico. Il testo di Rutz e Balkan a modo suo, è un lavoro qualitativo, ci fa capire quanto sia adattabile, come funzioni e allo stesso tempo sia instabile, la microfisica relazionale, ed istituzionale, che riproduce le gerarchie della classe media. In adattamento, e anche in risposta, al neoliberismo. Se la classe media ha le proprie strategie immanenti e microfisiche, diffuse di adattamento al nuovo, tanto riconosciute che il recupero della middle class è al centro del discorso politico occidentale tanto si teme la sua scomparsa, si devono esplicitare quelle “della classe”, delle classi subalterne. Che, thompsonianamente, non possono che comporsi di conflitti, sviluppo della popular culture (indispensabile tessuto relazionale che fa una classe), nuova alfabetizzazione tecnologica e un modello di organizzazione politica in grado di competere con l’alta complessità delle organizzazioni esistenti nel mondo capitalistico (basta avere la pazienza di entrare nella logistica, nella teoria delle organizzazioni, delle decisioni, dell’intreccio tecnologico di queste, per farsi un’idea dell’attuale primato capitalistico in materia). La complessità evocata nella conclusione di Dove sono i nostri finisce quindi per portare alle questioni della mappatura della divisione del lavoro sociale; dell’analisi e del superamento delle forme della comunicazione che, comunque, sono egemoni sulla classe; dello statuto epistemologico della statistica, del suo potere di reificazione e del suo rapporto con le mutazioni dello stato, della commodification del lavoro cognitivo da intrecciare a quella del “non cognitivo”, dell’analisi combinatoria del profilo reale delle classi subalterne; del making, concreto e relazionale assieme della classe.

Dove sono i nostri è quindi un’utile istantanea sul profilo materiale, e dei conflitti, di un paese finalmente intrecciato allo spessore delle classi sociali in Italia. Un lavoro pulito, chiaro, stimolante. Come tutti i lavori ricognitivi sulla statistica tende infatti a riprodursi come un’istantanea. Di quelle che “fanno” il presente e poi, con il corso degli anni, tendono ad essere utili per fare lavoro di comparazione tra un periodo e l’altro. Il punto, una volta che entra di nuovo in campo una ulteriore dose di complessità, è poi usare questo genere di lavori per comporre scenari. Perché senza scenario, e quindi una nozione di futuro anche tutto giocato sulla possibilità e non sulla certezza, non c’è lavoro politico oltre il presente.E qui non possiamo non citare, per gli scenari che si compogono, un testo sul quale varrà la pena ritornare: The Second Revolution Machine di Erik Brynjolfsson, direttore del MIT Center of Digital Business, e di Andrew McAfee (editori Norton & Company, New York 2014). Il testo è stato presentato in casa Google, a Mountain View, e a casa Microsoft a Seattle in tutto allarme econ un’avvertimento di fondo: il ritmo della rivoluzione tecnologica attuale, che comporta la restrizione della base lavorativa, cognitiva e non, sta minando persino il capitalismo . Diciamo che qui Google è un tipo di capitalismo che si pone il problema strategico della propria sopravvivenza. Proprio come quello che interrogava sé stesso, cominciando a differenziare il business, entro il fenomeno della restrizione della base operaia della grande fabbrica trenta anni fa.

Si noti quindi che, in contemporanea all’uscita del testo dei due studiosi del MIT Center, una vestale dell’ azienda leader del capitalismo delle conoscenza Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, al forum di Davos si è detto preoccupato del fatto che “l’intera gamma dei lavori oggi in pericolo verrà spazzata via” dai processi di evoluzione tecnologica. L’Economist stima che, nei prossimi anni, il 46 % dei posti di lavoro, nel mondo occidentale, rischia di essere azzerato con scarsa possibilità di sostituzione. Dove sono i nostri va quindi messo, come il testo di Rutz e Balkan, accanto a testi come The Second Revolution Machine: in modo da poter comporre lo scenario. Uno scenario di mutazione sociale dettata dalle leggi del valore che, in filiazione con le trasformazioni degli ultimi 20 anni, sarà dirompente per ogni classe e tanto più per quelle subalterne. Ma, nella consapevolezza degli scenari possibili, lacomplessità ci porta proprio a indagare dove sono i nostri e a chiedersi quanto anche quando arrivano. Già, ma quando arrivano i nostri? Nelle Affinità elettive Goethe ricorda che tanto più si moltiplicano gli ostacoli tanto più la meta è vicina. Ascoltare un altro classico, stavolta del romanticismo ma anche di uno straordinario materialismo acerbo, altro non è che opera di saggezza. Del resto, l’entusiasmo del giovane Marx per Goethe è testimone di questa saggezza.

 

Per Senza Soste, nique la police

19 marzo 2014.

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