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La metropoli come processo: transizione urbana e produzione di soggettività

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Riprendiamo da Connessoni Precarie un contributo proposto il 10 ottobre quando il Laboratorio Crash e il Collettivo Universitario Autonomo hanno organizzato alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Bologna la presentazione del libro Il campo di battaglia urbano. Trasformazioni e conflitti dentro, contro e oltre la metropoli (Red Star Press 2019). Quello che segue è l’intervento di Felice Mometti che è tra gli autori del testo e che, insieme a Simona De Simoni, Agostino Petrillo e Maurizio Bergamaschi ha preso parte alla presentazione.

 

 

Bisogna innanzitutto ringraziare e dare merito al Laboratorio Crash per aver organizzato e animato gli incontri che hanno permesso la pubblicazione di questo libro. L’idea di mettere a confronto ricercatori e attivisti sulle trasformazioni urbane e i conflitti sociali nella metropoli ha permesso di mettere in circolo e approfondire alcune analisi degli spazi urbani. E di riflettere su una domanda che assume un’importante valenza nelle aree metropolitane: qual è la relazione che oggi esiste tra la produzione dello spazio urbano e la produzione di soggettività? Il contributo che ho dato al libro ha come titolo «Una metropoli urbana e sociale» per sottolineare come ci sia un rapporto tra la metropolizzazione degli spazi, dei luoghi, dei flussi e quella dei soggetti che li vivono e attraversano con diversi gradi di conflittualità. Più che fare una sintesi di quel contributo penso sia più interessante sviluppare alcuni aspetti di quel discorso.

Negli ultimi dieci/quindici anni le metropoli sono state investite da una grande transizione urbana che sta ridefinendo spazi e tempi della valorizzazione capitalistica. Al tempo stesso i processi di soggettivazione che abbiamo visto con l’esplodere di movimenti urbani e metropolitani presentano non poche novità rispetto al passato. Ci sono alcune ipotesi che andrebbero verificate, anche assumendoci qualche rischio interpretativo: la prima riguarda la produzione dello spazio urbano. A ogni grande crisi, e quella scoppiata nel 2007-8 lo è tuttora, emerge una nuova «questione urbana». In epoca industriale, fordista se volete, si è assistito all’affermazione di quella che è stata chiamata, con un po’ di approssimazione, la città-fabbrica mediante uno specifico uso capitalistico del territorio e le differenze tra centro e periferia e tra urbano e non-urbano erano evidenti e facilmente riconoscibili. Oggi non è più così. Il processo di urbanizzazione ha investito grandi aree dando vita a costellazioni territoriali di cui le definizioni di città diffusa e di campagna urbanizzata non ne danno più il senso e nemmeno l’immagine. La metropoli non è una delle tappe di un’ipotetica evoluzione della città. L’attuale metropoli si riproduce sulla metropoli stessa, mai però nello stesso identico modo. Più che uno spazio e un luogo, la metropoli è un processo. Si possono citare due esempi, non perché siano dei modelli riproducibili ma per la natura e il tipo di processi che hanno attivato, che sono riscontrabili in molte aree metropolitane in vari continenti. Il primo è la grande metropoli lineare della costa atlantica statunitense, soprannominata «Bos-Wash», cioè da Boston a Washington, che per prodotto interno lordo sarebbe il quinto Stato a livello mondiale. È uno dei principali nodi in cui si intersecano le catene globali del valore, dove prevalgono di gran lunga le connessioni produttive, riproduttive, finanziarie, culturali, simboliche con altri nodi con le medesime caratteristiche che non con i territori contigui.

Il secondo esempio è l’area metropolitana che comprende Hong Kong e la provincia del Guandong in Cina. Una grande zona economica e istituzionale speciale in cui si combinano immense fabbriche militarizzate, il circuito finanziario internazionale e massicci movimenti migratori. Quasi una distopia. Quindi, si diceva, più che dei luoghi, dei processi che producono spazio urbano articolando catene globali del valore, rapporti con lo Stato nazionale e i flussi di quello che Bourdieu chiamava capitale culturale oggettivato. Le catene globali del valore che attraversano i territori metropolitani tendono ad allungarsi e a diversificarsi. Vanno dalla progettazione di merci, servizi, prodotti finanziari alla produzione, alla brandizzazione, al marketing, alla circolazione, scambio e riciclo. Possono avere strutture gerarchiche, modulari oppure essere inserite in contesti relazionali. Gli effetti tuttavia sono simili seppur su scale territoriali non omogenee: una densificazione degli spazi urbani, un progressivo riempimento dei vuoti interstiziali e una riduzione dei tempi nelle molteplici traiettorie dei passaggi tra una sussunzione formale e una reale del lavoro al capitale. Questi aspetti strategici delle catene globali del valore configurano lo spazio metropolitano nei modi della produzione e riproduzione sociale. Per restare più vicini a noi, ci sono anche esempi italiani come l’area metropolitana milanese che comprende una decina di province in tre regioni diverse, arrivando fino a Novara e a Piacenza, senza soluzione di continuità. Nella metropoli milanese si possono ritrovare gli elementi costitutivi che caratterizzano i processi delle metropoli globali. Un’accentuata finanziarizzazione del territorio urbano con una continua rigenerazione della rendita differenziale, una riqualificazione degli spazi urbani mediante progetti gestiti da governance informali e governance ibride di pubblico/privato che oltrepassano il governo del territorio come previsto dalla legislazione vigente, flussi culturali e stili di vita che si stratificano superando la distinzione tra una cultura «alta» e un insieme di «subculture» metropolitane. Il caso di City Life, lo spazio urbano rigenerato della vecchia fiera di Milano, assume da questo punto di vista un valore paradigmatico. Un intervento territoriale di anticipazione strategica nella produzione dello spazio urbano. L’attivazione di un dispositivo morfogenetico che eccede la propria localizzazione per i processi urbani che genera e per l’immaginario collettivo che veicola.

Le tre torri iconiche, progettate da tre archistar (Isozaki, Hadid e Libeskind), sono l’esemplificazione della messa a valore economico-culturale di teorie architettoniche e di una concezione dello spazio pubblico inteso come marketing urbano per attrarre imprese, investimenti e visitatori. E ‘ovvio che le catene del valore non vanno pensate sempre e solo esclusivamente a livello internazionale, a volte sono anche molto brevi ma tuttavia posseggono un’elevata capacità di produrre spazio urbano. Ad esempio, la fascia centrale del Veneto con l’area metropolitana da Vicenza a Venezia interessata anch’essa da una «rivoluzione» logistica in cui muta lo stesso concetto di infrastruttura. Le attuali infrastrutture, se ancora così si possono definire, non collegano più solo dall’esterno le imprese ma le attraversano nelle fasi di produzione, circolazione e scambio delle merci e dei servizi. L’articolazione territoriale delle catene globali del valore risignifica anche i confini di provincie, regioni e Stati nazionali. I confini geografici o amministrativi non costituiscono più, o in misura minore, dei punti di riferimento delle metropoli. La delimitazione amministrativa e istituzionale dei territori entra in contraddizione con l’estensione e le connessioni delle aree metropolitane. Viene posta a tutti gli effetti la questione dei rapporti tra metropoli e Stato, per quel che riguarda il governo di territori che non coincidono più con gli spazi della produzione sociale nel capitalismo contemporaneo. Le forme di governance informale delle rigenerazioni e riqualificazioni urbane si affermano sempre più facendo leva su modelli tipicamente anglosassoni che mettono al centro le reti decisionali degli stakeholders, i «portatori di interessi» che divengono a tutti gli effetti dei city-maker: coloro che “fanno” la metropoli.

I flussi del capitale culturale oggettivato, forzando un po’ la categoria messa a punto da Pierre Bourdieu, ci mostrano una grande mobilità fisica – soprattutto di giovani e migranti ‒ e virtuale sul web, che spesso si traduce in percorsi culturali, artistici, in forme comunicative che fanno dell’accessibilità e di una presunta informalità i veicoli della loro standardizzazione. Un processo che si dà anche con cooperazioni sociali inedite che diventano terreno di caccia dell’industria culturale e dalle grandi piattaforme informative e comunicative. Che rapporto c’è quindi tra questa grande transizione urbana e la produzione di soggettività? Non c’è ovviamente alcun determinismo, non c’è nemmeno un percorso chiaro e già definito, tuttavia alcune riflessioni si possono fare. Ciò che abbiamo visto dal 2011 in poi dal ciclo Occupy agli Indignados, da Piazza Tahrir a Gezi Park, dai riot di Londra e di alcune città americane a Nuit Debout, dalla lunga estate dei migranti del 2015 al movimento femminista che mette al centro lo sciopero della produzione delle riproduzione sociale fino, nell’ultimo periodo, ai gilet gialli e al movimento contro il cambiamento climatico, sono fenomeni certamente diversi che però è possibile guardare attraverso alcuni elementi comuni nei loro percorsi di soggettivazione. La trasmissione della memoria storica, la memoria dei vinti per dirla con Benjamin, se non si è interrotta è quanto meno sospesa. La memoria non è più trasmissibile facendo affidamento esclusivamente a modalità verbali o scritte, alla vicinanza dei corpi che condividono un’esperienza, un conflitto, una lotta. Le forme di comunicazione sono cambiate perché intrecciano linguaggi verbali, scritti, visivi e quelli performativi dei social network. Il secondo elemento importante che abbiamo visto nei movimenti sociali in questi ultimi anni è la velocità di una politicizzazione che avviene senza che si affermino forme di socializzazione condivisa della stessa. Spesso è una politicizzazione che arriva ad esaurirsi in tempi abbastanza brevi. Ritorna di attualità, in forme nuove, la riflessione sul rapporto tra organizzazione e spontaneità. In conclusione, non per arrivare ad un’impossibile sintesi ma per individuare una possibile ipotesi di ricerca: la metropoli è un processo che astrattizza il lavoro mediante la sussunzione reale dello stesso al capitale e temporalizza lo spazio urbano facendolo diventare sociale a tutti gli effetti. È la metropoli in processo che possiamo ritrovare a Bologna, a Londra, a New York.

 

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