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Milano: nasce Ecolab, nuovo spazio liberato in università

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Ecologia Politica è una rete nazionale di collettivi nata nel contesto globale delle mobilitazioni per la giustizia climatica degli ultimi anni. Il suo approccio teorico consiste nel leggere fenomeni politici e sociali da una prospettiva intersezionale, considerando cruciali per l’analisi tutte le forme di sfruttamento del sistema economico in cui viviamo, e provando a comprendere in che modo la crisi climatica interagisca con i vari caratteri dell’oppressione sociale, di genere e razziale. Perciò, per l’ecologia politica è fondamentale problematizzare, senza gerarchizzare, l’interconnessione delle lotte. Proprio grazie a questi presupposti teorici, le attività svolte nei primi due anni di Ecologia Politica Milano sono state molteplici: momenti di auto-formazione, attività di mutualismo e solidarietà, lotte per la difesa del verde pubblico e per condizioni di lavoro dignitose, lotte contro le grandi opere e contro le forme di oppressione patriarcale fuori e dentro i contesti politici.

Un aspetto fondamentale dell’ecologia politica, inoltre, è la forte connessione con il lavoro di chi fa ricerca, ed è per questo che Ecologia Politica Milano ha trovato fin da subito nel contesto universitario una delle sue principali collocazioni.

Da anni ormai l’università italiana sta subendo un processo di aziendalizzazione, in cui i saperi vengono trasmessi con il mero fine di creare competenze spendibili nel mondo del lavoro, i ricercatori e il personale tecnico-amministrativo si trovano sottopagati e in condizioni di precarietà, e gli studenti vengono preparati per essere individui acritici, passivi ed efficienti, anche a costo di farsi sfruttare. Questa tendenza è inevitabile in una società capitalistica in cui la ricerca del profitto economico non lascia spazio a un’istruzione di qualità. Non stupiscono i 29 milioni tagliati al sistema d’istruzione da parte del Governo Di Maio-Salvini, uno degli ultimi passi di un cammino cominciato nel 1999 con il Bologna Process, e continuato con la riforma Moratti, le riforme Gelmini e Tremonti (queste ultime due responsabili di 10 miliardi di tagli a scuola e università tra il 2008 e il 2012), e la Buona Scuola di Renzi. Quindi il sistema d’istruzione, e nello specifico quello universitario, inserito in un processo di omologazione a livello europeo, è sottoposto a una totale riconfigurazione, che prende esempio dal modello anglosassone. L’università italiana infatti ormai si basa sempre di più sulla competizione interna tra i vari atenei, accentuata anche da una disparità di finanziamenti che formano una polarizzazione tra università d’eccellenza e università mediocri. La competizione è presente anche tra gli studenti, che hanno introiettato il modello di performance ed efficienza tipico della società capitalistica, e che subiscono pressioni a dare sempre il massimo in poco tempo, anche spremendosi oltre i limiti delle loro energie. Lo si vede, ad esempio, nella necessità di raggiungere una certa quantità di crediti all’anno, altrimenti ci si trova esclusi dalle graduatorie che elargiscono borse di studio e alloggi a studenti “meritevoli”, essendo costretti a una corsa ai crediti che non permette di studiare in maniera approfondita ed arricchente, ma in modo superficiale ed esclusivamente finalizzato all’esame, con la minaccia – in caso di mancato ottenimento dei CFU -della perdita dell’alloggio e della necessità di restituire la borsa di studio. Anche a chi vive con l’ansia di conciliare studio e lavoro, spesso appoggiandosi a lavori precari e sottopagati, è preclusa una vita universitaria soddisfacente, che diventa un lusso solo per chi se lo può permettere. Ma un lusso per pochi è pure l’università stessa: i soggetti economicamente svantaggiati faticano ad accedervi per i costi che comporta, quali libri, tasse, alloggio, biglietti per i mezzi pubblici, strumenti tecnologici e spese di sussistenza. Lo stesso vale per le studentesse madri, lasciate spesso senza supporto dall’istituzione universitaria: per esempio i bagni non hanno fasciatoi e non ci sono agevolazioni economiche che permettano di pagare asili o babysitter.

Il modello anglosassone non viene declinato solo nell’elitismo dell’accesso all’università, ma anche nella progressiva privatizzazione: i vari atenei, privi di fondi pubblici, si appoggiano sempre di più a fondi europei o ai finanziamenti delle aziende, diventando completamente organici ai distretti industriali del territorio dove sono situati e parte integrante della produzione stessa. La formazione aziendale viene esternalizzata dalle imprese alle scuole e alle università, che ormai sono funzionali ad assolvere questo compito. Rispetto a 5 anni fa, la collaborazione tra università e territorio è sempre più improntata verso un dialogo con le aziende piuttosto che con associazioni ed enti pubblici. Le aziende, attraverso eventi come il Job Placement e il Job Day, in cambio di cospicui finanziamenti agli atenei, ottengono la possibilità di ricercare tra una vasta gamma di studenti quelli più brillanti da poter inserire all’interno del ciclo produttivo: ancora una volta l’università viene meno al suo compito di elaborazione critica del sapere, asservendosi alla logica del profitto.

Inoltre aziende ed enti privati sfruttano la manovalanza di studenti e studentesse tramite la collaborazione con l’università, lanciando progetti apparentemente accattivanti ma con il fine ultimo di aumentare il valore del loro brand e pubblicizzare i loro prodotti. Questo lavoro gratuito viene venduto loro come opportunità formativa di accrescimento del proprio bagaglio conoscitivo, ma in realtà ha la funzione non solo di insegnare ai giovani i meccanismi della produzione, ma anche di far introiettare una certa abitudine al lavoro gratuito e all’autosfruttamento.

Questa è la funzione “educativa” di progetti come alternanza scuola-lavoro o dei vari stage, tirocini, workshop che hanno come scopo quello di diffondere l’immaginario della “gavetta”, della necessità di acquisire competenze al costo di svolgere lavori non pagati.  È un mantra che ci viene ripetuto, diffuso, e normalizzato nel senso comune, ed è la radice della precarietà. La precarietà si fa sentire non solo tra gli studenti e le studentesse, ma anche fra ricercatori e personale tecnico-amministrativo che lavora in università. La figura del ricercatore è una figura precaria e sottopagata, spremuta al massimo dal sistema universitario, che dona alle imprese prodotti di ricerca di alta qualità in cambio di briciole. Un rapporto ineguale, causato dalla progressiva privatizzazione anche della ricerca, resa necessaria dall’esiguità della spesa italiana in Research&Development (la ricerca e lo sviluppo), che resta al di sotto della media Ue: l’1,29% del Pil nel 2016, contro il 2,03% degli standard europei.

Davanti a questo modello fallace di università, che prepara ad accettare una società fallace, è necessario partire dal basso per riuscire a portare un cambiamento efficace, proponendo un modello alternativo, estraneo alle logiche di sfruttamento, profitto e concorrenza, che enfatizzi invece l’importanza dell’autogestione, di un’università accessibile a tutte/i senza distinzione di classe, genere, etnia, e di un’elaborazione critica e libera del sapere.  È in questa direzione che intendiamo muoverci.

Anche perché l’università, a muoversi in una qualsiasi direzione, non ci pensa affatto. Negli ultimi mesi chiunque ha potuto constatare come la gestione del mondo accademico durante la pandemia sia stata superficiale, caotica e, osiamo dire, disastrosa.

Superficiale, perché sebbene lə studentə dovrebbero essere tra le prime preoccupazioni di un paese che spera di avere un futuro, quello di scuole e atenei è stato trattato come un problema secondario, e le esigenze di studentə e personale scolastico messe in secondo piano rispetto a quelle di categorie meno vulnerabili ma percepite come più redditizie, sia dal punto di vista elettorale, sia da quello dei profitti che garantiscono ad un sistema, quello capitalista, del quale l’attuale situazione pandemica sta mettendo ogni giorno sempre più in luce la fallacia e le contraddizioni.

Caotica, perché i provvedimenti presi hanno palesato l’inesistenza di una linea, di un piano, di un progetto: a una chiusura totale è seguita una riapertura di aule studio e biblioteche, poi richiuse mentre le lezioni tornavano a svolgersi in presenza, poi per breve tempo riaperte, mentre venivano chiusi (senza un vero e proprio provvedimento, ma di fatto, tramite l’introduzione di guardie apposite) i chiostri; il tutto per dare l’impressione di stare gestendo la situazione, di stare facendo qualcosa, che cosa di preciso non si sa. Questo gioco dell’apri-chiudi senza un reale scopo è stato fatto sulla pelle degli studenti lavoratori, i cui orari sono ovviamente incompatibili con quelli delle brevi, confuse e irrazionali aperture di biblioteche e aule studio.

Disastrosa, perché quello di fronte al quale ci troviamo è, a tutti gli effetti, un servizio pubblico che non è stato garantito. Moltə studentə non hanno infatti potuto fruire degli spazi universitari, e sono statə costrettə a seguire le lezione tramite DaD, con tutti i disagi che ciò ha comportato: ricordiamo che una famiglia su tre si è rivelata essere priva di pc o connessione internet (dati Istat) e di conseguenza non in grado di supportare il diritto allo studio dei propri figli; senza contare le problematiche relative a studentə che vivono in abitazioni troppo piccole e rumorose, in cui seguire le lezioni diventa impossibile, o a laureandə che hanno la necessità di accedere a testi specifici -e come possono se le biblioteche sono chiuse?). E a fronte di un servizio non garantito, o, dove garantito, solo in parte, le rette non solo non sono state né ridotte né sospese, ma hanno addirittura subìto un aumento: un fatto vergognoso ed  intollerabile, che costituisce l’ennesima violenza nei confronti di quellə studentə che appartengono alle fasce economicamente più deboli, che già si vedono negare borse di studio nel caso in cui non riescono a stare al passo con i ritmi produttivistici imposti dall’università-azienda o, nel caso dei fuorisede, devono già far fronte alle spese relative agli affitti, spese notoriamente non indifferenti in una città come Milano. In questo modo si acuiscono le differenze tra chi non ha problemi a pagare le tasse universitarie e chi invece per farlo deve andare incontro a grandi sacrifici e difficoltà, e proprio per questo dovrebbe essere maggiormente tutelato.

Non si tratta quindi solo di contrapporre il nostro modello di università ad un modello basato su logiche di profitto e sfruttamento, ma si tratta anche di riappropriarsi di spazi e servizi che ci sono stati tolti, ma a cui abbiamo diritto; di cercare soluzioni a problematiche che dall’inizio della pandemia non sono ancora state risolte da chi sarebbe preposto a farlo; di ridare centralità ad un tema, quello dell’università, che negli ultimi mesi è stato troppo spesso ignorato, dimenticato e lasciato in secondo piano.

Proprio per questo, nelle scorse settimane abbiamo deciso di intervenire in università per provare, dal basso e collettivamente, a trovare alternative sicure alla mancata apertura di sufficienti aule. Oggi, con l’occupazione di un’aula vuota e inutilizzata, siamo qui per continuare questo percorso critico. Oggi, con questa occupazione, rivendichiamo un diritto allo studio inclusivo e che permetta a tuttə di partecipare alla vita universitaria in sicurezza, senza compromettere la fruizione condivisa degli spazi.

Quest’aula vuole essere quindi l’occasione per ricostituire uno spazio di socialità e circolazione orizzontale di sapere, due componenti fondamentali della vita universitaria, che vogliamo restituire a coloro che dovrebbero essere protagonistə, lə studentə, e che invece da più di un anno dallo scoppio della pandemia sono ancora abbandonatə a se stessə, in una crisi che abbiamo visto tradursi di volta in volta nelle inefficienze della dad, nell’assenza di spazi sufficienti per studiare, nella securizzazione dei chiostri e persino nel rincaro delle tasse universitarie.

Siamo convintə che la cultura sia fatta di scambi, confronti e relazioni. Perciò nelle prossime settimane organizzeremo un’aula studio permanente all’interno dell’aula occupata e nel chiostro Legnaia, nel rispetto delle norme di sicurezza per prevenire qualsiasi contagio, portando avanti un’idea di distanziamento fisico, ma non sociale.

Ecologia Politica Milano

 

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