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Can the Subaltern Speak?

La notizia dell’assoluzione dell’ispettore di polizia, Vittorio Addesso accusato di violenza sessuale aggravata perpetrata nei confronti di Joy, ragazza nigeriana detenuta nel CIE di via Corelli, di cui tutti e tutte abbiamo seguito la vicenda, è arrivata come un pugno nello stomaco; ancora più forte nel clima mediatico di questi giorni. Un potere che si afferma ancora una volta sul corpo di una donna.

Proviamo a fare una riflessione partendo dal presupposto che, come scrive Anna Simone,

‹‹lo stupro e la violenza di genere non sono mai argomenti “neutri” […] Sono infatti fenomeni da sempre incuneati all’interno di una cultura sociale condivisa che crea aspettative nei confronti del decisore politico e giuridico. Aspettative spesso deluse››.

Si tratta dell’ennesimo caso di una donna vittima di una doppia violenza: fisica, e allo stesso tempo, vittima di un sistema giudiziario certamente non neutro, che la rimuove a priori in quanto giovane donna straniera rinchiusa in un CIE. Joy si trova a dover testimoniare contro un ispettore di polizia, ruolo situato decisamente più in alto nella gerarchia sociale. Da qui la scelta del titolo che riprende il noto saggio di Spivak: la volontà è quella di criticare la rimozione di determinati tipi di soggettività in quanto la caratteristica strutturale di un soggetto subalterno è quella di non avere accesso al linguaggio e questa vicenda ne è un esempio.

Come altro potremmo definire questo processo, se non come una violenta farsa in cui Joy se pur chiamata a prendere la parola in un luogo pubblico, di fatto viene schiacciata in schemi del potere già precostituiti? Di fatto le viene negata ogni altra possibilità che non sia giocare il ruolo che le è stato cucito addosso e per di più viene messa nella condizione di dover difendere la sua credibilità. Accanto al suo nome viene associata una parola come “calunnia”. Ecco la costruzione della donna “permale”, aggravata dalla componente etnica.

Assistiamo ad un processo di etnicizzazione del diritto: infatti se da un lato è vero che il corpo delle donne viene sempre più spesso utilizzato per legittimare qualsivoglia legge in materia di presunta sicurezza, sdoganando lo stereotipo dell’uomo immigrato violentatore; allo stesso tempo possiamo affermare che l’elemento etnico gioca un ruolo di primo piano anche nei confronti di chi la violenza la subisce e diventa, in questo caso, elemento di discriminazione. La sua è una vita di scarto.

Tutto questo senza alcun risvolto mediatico, processo e vicenda passata sotto silenzio nei canali di informazione ufficiale. Impossibile, dunque, in questi giorni segnati dal dibattito intorno al caso Berlusconi, non accostare le due vicende. E’ evidente quanto sia miope, in alcuni casi, mentre, fortemente ricercato in altri casi, da soggetti che stanno portando avanti in maniera maliziosa campagne esclusivamente anti-premier, rimuovere completamente la dimensione del potere. Dimensione che è invece centrale. Non si può rimuovere né la disparità di classe né le condizioni materiali oggettive che sono alla base di entrambe le vicende che di fatto fanno parte di un quadro unico, generale che non vogliamo più vedere. E la nostra non è indignazione à la Repubblica, la nostra è collera dilagante! E’ voglia di scendere in piazza il 13 febbraio perché se ne vadano tutti!

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pubblicato il in Intersezionalitàdi redazioneTag correlati:

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