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Utopia: dalle pecore che mangiano uomini a uomini che mangiano il mondo?

Questa allucinazione con mosse esasperanti inizia con la caccia alla seconda puntata, ancora inedita, di una graphic novel chiamata Utopia – legame transmediale che pare evocare Sin City, con una scrittura livida che ricorda serie di affreschi. Basata sulle grafiche schizzate da Philip Carvel, un geniale scienziato finito in manicomio, Utopia contiene alcuni segreti criptati tra le sue pagine. Primo tra tutti, l’identità di Mr. Rabbit, l’inquietante capo di The Network, una specie di organizzazione segreta che fa sponda e si insinua tra governi e servizi segreti. La storia, via di mezzo tra teorie del complotto e spericolato thriller, si articola attorno al precipitare degli eventi che conducono alla realizzazione del piano coltivato ossessivamente per molti decenni da questa organizzazione. E spuntano in sequenza svariati personaggi molto ben congegnati e ottimamente interpretati da attori giovani o affermati – tra cui una delle protagoniste di Games of Thrones: la coppia di killer male assortita ma estremamente letale, che cavano occhi con cucchiaini e ripetono la litania “Where is Jessica Hyde?” – che nelle intenzioni del regista pare voler rimanere impressa nello spettatore come il “Who killed Laura Palmer?” di lynchiana memoria. La stessa Jessica, chiamata Hyde perché sin da bambina deve nascondersi in una fuga costante. Un eroe solitario, che si muove selvaggiamente nella giungla metropolitana. Violentissima, spietata e determinata. Eppoi burocrati pavidi e ministri meschini, ingegneri sottratti alla loro routine e bambini costretti a crescere d’un fiato. Hacker anarchici e maniaci del complotto. Tutte queste vite si intrecciano e si scontrano attraverso un certo feticismo per i particolari (le borse, il sangue brillante che ricorda spesso Tarantino assieme a sfondi gialli come Pulp Fiction), mescolando sensazioni, esperienze, visioni con l’impossibilità di fidarsi di nessuno. Il continuo rovesciarsi dei ruoli che definiscono un campo in cui tutte le parti si sgretolano, nel quale ciascuno non può slegarsi dalla rete di relazioni e poteri in cui è immerso ma è sostanzialmente solo.

Un mix ambizioso ed esagerato di pazzia infanzie negate amori e odi famigliari potere complottismo ferocia brutalità tradimenti amori… Un vortice in cui si inseriscono pezzi di storia vera (dal Bruno Vespa che spunta tramite un tg d’epoca annunciando l’omicidio Moro, passando per la caduta del governo laburista che fece ascendere la Thatcher, giungendo a un improbabile omicidio di Pecorelli legato al Network sino ad attentati sugli aerei realmente accaduti), inquietudini, scene improbabili, tenuti assieme da alcuni fili conduttori. Nel mosaico di storie, una costante delle più rilevanti è che qui il potere è donna. L’uomo è spesso cauto, timoroso, titubante, aggrappato ai sentimenti. Chi decide, chi ha la freddezza del comando, sono sempre figure femminili.

Il merito della serie è nel riuscire a elaborare una rappresentazione in cui Bene e Male non sono mai banali. Si lambiscono, si rincorrono, sfumano l’uno nell’altro, si modificano. L’ondata di violenza che scorre per le vicende è infatti motivata secondo un progetto, quello del Network, che viene a scoprirsi inquietante ma in fondo comprensibile. Tanto che alcuni personaggi, nonostante abbiano visto le loro famiglie sterminate dal Network, finiranno per appoggiarlo persuasi dalle sue ragioni. L’elusivo Mr. Rabbit pone infatti un problema chiaro: nel giro di alcuni decenni tutti gli indicatori mostrano che la popolazione mondiale giungerà a dieci miliardi. E in concomitanza con tale progressione si avrà il rapido esaurimento delle principali risorse con le quali si sostenta la specie. L’inevitabilità di una terrificante guerra civile planetaria dagli effetti devastanti è ciò che il Network vuole evitare, con un metodo basato su Giano. Una particella, inventata da Philip Carvel, che sostanzialmente renderebbe sterile l’umanità. Solo alcune centinaia di milioni di persone resterebbero immuni (secondo una selezione che rimane oscura sino al colpo di scena finale), e da ciò dovrebbe scaturire l’utopia, ossia un pianeta che per questo forzoso ma tutto sommato non violento non riprodursi della specie umana consentirebbe una sua riproduzione sostenibile – per sé e per il pianeta. Per raggiungere questo obiettivo il Network intende scatenare un panico di massa per l’espandersi di un virus, distribuendo di conseguenza a tutto il mondo un vaccino contenente Giano che porterebbe in tal modo alla realizzazione del piano. Scendere in ulteriori dettagli sarebbe inevitabilmente incompatibile con chi volesse guardare la serie…

Limitiamoci allora ad alcune considerazioni. La serie è di produzione britannica e ivi ambientata. Era prevista una terza stagione nel 2015 ma la produzione è terminata e verrà rifatta, come spesso succede, da HBO negli USA il prossimo anno. Meglio così comunque. Le serie hanno avuto il grosso merito di poter riprendere e rilanciare il racconto di storie attraverso lo schermo. Ovviamente anche i film cinematografici continuano a farlo, ma spesso ripetendo o aggiustando plot già visti. Soprattutto dopo le rotture introdotte da film come Mulholland Drive di Lynch, dove con un gesto pollockiano si mescolano e ridefiniscono il senso del fare film, o con le sensazioni di Melancholia di Lars von Trier che inducono più alla filosofia e alla rappresentazione iconica che allo story telling. Lo stiramento temporale delle serie tv oltre le due-tre ore canoniche consente invece di riprendere una narrazione che può oscillare tra il realismo di The Wire e la produzione di storie aderenti al reale ma cianotiche e inquietanti come Black Mirror o Utopia. Il problema è che le esigenze commerciali tendono ad allungare troppo le serie, che perdono una caratteristica decisiva in un ‘opera: l’avere una fine definita.

Tuttavia è sulle domande politiche che la serie solleva che chiudiamo. In primo luogo, il termine stesso “utopia” non può che essere riportato a dove è stato per la prima volta forgiato. Thomas Moore editò, esattamente cinquecento anni fa (1516), un libro col titolo medesimo, che univa al suffisso -topos (luogo) un gioco sull’ambivalenza dei prefissi eu- e ou-,laddove il primo indica negazione (potremmo dire non luogo, luogo inesistente) e il secondo felicità (luogo felice). E’ questa un’opera che si scaglia contro la proprietà privata e le enclosures che stavano iniziando a recintare l’Inghilterra. Moro finirà giustiziato e la sua testa venne appesa come monito per un mese sul London Bridge. Questo autore sarà citato sia da Marx che da Engels come fonte storica per la ricostruzione del periodo della “cosiddetta accumulazione originaria”. Celebre la frase con cui Moro, contrapponendo l’immaginaria isola di Utopia all’isola che invece rappresenta il “mondo reale”, sostiene che nel secondo “le pecore mangiano gli uomini”. Una metafora per descrivere come l’instaurarsi dell’industria laniera porti i grandi proprietari a cacciare i contadini dalle loro terre per farne pascoli.

Ma torniamo all’oggi e alla provocazione che ci lancia il nuovo Utopia britannico. Siamo arrivati al punto in cui gli uomini mangeranno altri uomini e tutto il mondo stesso? E’ questo il destino di quello che molte recenti teorie definiscono antropocene, ossia la nostra era geologica nella quale l’uomo post-umano è inestricabilmente legato alle trasformazioni del pianeta? Questa è la domanda di fondo che guida Utopia, e che aleggia come sfondo anche sul nostro presente. La riflessione critica si muove in una polarità definita tra le articolate teorie sulla decrescita e le nuove riflessioni in campo marxiano sull’accelerazionismo, ossia il condurre alle estreme conseguenze lo sviluppo del capitale. Tra una improbabile resistenza e una inquietante catastrofe. Su questo terreno certamente Utopia non ci consegna una risposta plausibile, ma pone una domanda sulla quale val la pena continuare a riflettere. E ci induce su un altro tema importante, l’uso della violenza. Il Network, riprendendo le categorie elaborate da Walter Benjamin nel celebre “Per la critica della violenza” del 1921, pare far ricorso a una violenza legittimata da quell’altalenante ordito costruitosi tra teorie giusnaturaliste e positiviste, che rendono il ricorso alla violenza giustificato in quanto esso instaura o conserva il diritto. Il filosofo tedesco propose, mostrando l’inscindibile legame tra violenza e diritto, il guardare alla produzione della violenza rivoluzionaria come qualcosa situata al di fuori della legge e capace di far saltare la dialettica tra la violenza che pone e quella che conserva il diritto. Non possiamo qui dilungarci su questo però. Concludiamo allora dicendo che non è certamente da una serie tv che ci si può aspettare risposte su questi temi, ma partire da Utopia per ripensare il problema dello sviluppo capitalistico e della violenza può essere un interessante esercizio critico.

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