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Punto economico: Le crisi spia di una tempesta globale

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A tre mesi dallo scoppio del conflitto in Ucraina, con la pandemia Covid-19 che persiste a livello planetario, l’economia italiana, europea e globale stenta a riprendersi.

Si tratta di una congiuntura legata a guerra e pandemia o vi è qualcosa di più profondo in questa crisi? Mentre sul proscenio sono in corso le manovre distruttive del conflitto sullo sfondo si vede avanzare una crisi della riproduzione sociale complessiva, come crisi dell’organizzazione dei fattori produzione e riproduzione dell’ecologia mondo a guida statunitense. Le manifestazioni di questa crisi sono molteplici, ma si approssimano anche alcune confuse reazioni dei settori popolari a livello globale, tutte da indagare.

In questo articolo proviamo a fare un po’ di ordine analizzando come l’attuale stagnazione economica non sia una contingenza legata a degli shock ma il risultato di tensioni strutturali acuite e potenziate da guerra e pandemia.

Stagnazione globale:

Il 23 maggio Kristalina Georgieva al World Economic Forum di Davos, annunciava pubblicamente che il Fondo Monetario Internazionale (FMI), istituzione da lei presieduta, aveva tagliato le stime di crescita globale del 2022 e si diceva allarmato dall’andamento inflazionistico.

A gennaio 2022, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, le stime di crescita del PIL globale erano del 4.4%, ma tre mesi dopo, a causa delle revisioni al ribasso per 163 paesi su 190 membri (l’86%) hanno portato l’FMI a ipotizzare una crescita del 3.6% (0.8 in meno).

Mentre per il 2023 la crescita stimata era del 3.8% e anch’essa è stata abbassata al 3.6%(1).

I motivi di tali previsioni al ribasso sono noti, ma spesso si tende a confondere shock contingenti con quelli che in realtà sono problemi strutturali dell’economia globale ma acuiti dagli eventi correnti.

Petrolio, Gas e materie prime.

Un primo elemento è sicuramente dato dall’aumento dei costi delle materie prime siano esse legate alla produzione energetica o alla spasmodica ricerca di minerali per la transizione “green”.

A tal proposito vale la pena ricordare che, come confermato da Putin, Cingolani e Scaroni (AD di ENI), l’approvvigionamento di gas e petrolio russo verso l’Europa non si è mai fermato (ne avevamo già parlato qui). Una situazione che in parte sta per cambiare alla luce del sesto pacchetto di sanzioni comminato alla Russia dalla Commissione Europea nella giornata di ieri (30 maggio) che prevede il blocco delle importazioni di petrolio russo dal 2023, Ungheria esclusa.

Tuttavia per ora, almeno per quanto riguarda l’occidente, il crescente costo di petrolio e gas sono attribuibili a due macro fattori.

Un primo elemento è la finanziarizzazione del prezzo dell’energia. Questo comporta che la formazione dei prezzi delle materie prime non si formi unicamente nella dimensione materiale di domanda e offerta di energia, ma sia influenzato dalle previsioni di medio periodo di come evolveranno domanda e offerta.

Se i mercati reputano che dei beni, in questo caso gas e petrolio, si apprezzeranno, questi aumentano il loro valore previsionale nella sfera finanzaria imponendo un lineare aumento dei prezzi nel mercato “reale”. Si tratta di una profezia auto-avverante, tipica dei mercati finanziari.

Nel dettaglio si sta parlando dei futures sull’energia, ossia la scommessa al rialzo o al ribasso su quanto costerà l’energia nel futuro.

Già prima della pandemia e della guerra i prezzi degli idrocarburi stavano sperimentato un rialzo che è intrinseco dell’annunciata transizione green. Infatti, l’ipotesi che gas e petrolio vengano ulteriormente tassati per esse de-utilizzati porta il prezzo dell’energia a crescere, tanto più se all’orizzonte non ci sono reali alternative.

Se inquinare costa di più così come era previsto dai piani green, il prezzo degli agenti inquinanti aumenta.

Se a ciò sommiamo lo shock di una paventata, e per ora non realizzata (o realizzabile?(2)), esclusione della Russia dalla catena di approvvigionamento energetico per la produzione manifatturiera europea nessun si sorprenderà che i prezzi in poche settimane sia andati alle stelle con il governo italiano costretto a rapidi interventi.

Gli interventi per sterilizzare questo aumento dei costi ci portano ad un secondo fattore speculativo, ossia l’oligopolio che gestisce l’importazione, il trasporto e la raffinazione delle materie prime.

Nel caso italiano parliamo di ENI e ENEL, che, nonostante stiano vendendo e distribuendo il petrolio e gas acquistati almeno un anno fa, hanno immediatamente adattato i prezzi verso l’alto seguendo fedelmente l’andamento finanziario descritto sopra, accumulando extra-profitti da brividi, che solo parzialmente sono stati tassati per ridurre il costo per i consumatori e per la produzione industriale.

Ovviamente i paesi produttori, Russia in testa, non hanno alcuna intenzione di aumentare l’estrazione per contenere i costi e scaricano il problema su chi non ha giacimenti, UE in primis.

Inflazione:

Un secondo elemento che preoccupa le istituzioni finanziarie internazionali e i famigerati “mercati” è la più alta ondata inflazionistica dagli anni ’70.

Sempre secondo il World Economic Outlook redatto da FMI ad aprile, l’inflazione prevista per il 2022 tocca il 5.7% per le cosiddette “economie avanzate”, mentre raggiunge addirittura l’8.7% per quelle “emergenti”.

Se guardiamo i dati europei forniti da Bloomberg(3), la previsione della crescita UE del 2022 si è ridotta dal 4% al 2.7% mentre l’inflazione media è al 6.1%.

La più grande economia del vecchio continente, la Germania registra addirittura un più 7.9% di inflazione, il dato più alto da 50 anni, mentre in Italia ci si attesta al 6%.

Se compariamo i dati sulla crescita del PIL con le previsioni inflazionistiche, è facile affermare che l’economia globale così come quella europea stia si riscontrando una crescita economica che viene notevolmente drogata dalla dinamica inflattiva. Infatti,  la maggior parte delle persone vedrà restringere le proprie possibilità di consumo andando a frenare, una già depressa,  domanda interna.

Anche per quanto riguarda l’inflazione vale l’affermazione fatta in precedenza, per la quale si tendono a sovrapporre shock bellici e pandemici a tensioni strutturali dell’economia.

Per motivare questa affermazione usiamo tre nodi: un primo già trattato è quello dell’aumento del costo energetico, in secondo luogo c’è il rapporto tra tassi di interesse ed emissione di moneta e in ultimo “il costo del cibo”.

Per quanto riguarda i “costi energetici” c’è poco da aggiungere a quanto detto sopra, ossia la combinazione di guerra e tentato isolamento della Russia, sommata ad un aumento della domanda di idrocarburi come conseguenza del “post-covid lockdown”, nel quadro della finanziarizzazione e dell’intensificazione della concorrenza per la svolta green hanno creato un ambito di mercato dove i prezzi di tutti i beni prosperano verso l’alto,  poiché tutto è prodotto con l’energia.

Discorso più complesso riguarda quello delle politiche monetarie delle maggiori potenze capitaliste.

Come avevano approfondito qui, una ricetta condivisa dalle élite delle banche centrali per superare le secche della crisi 2007-08 è stata la costante e ampia immissione di moneta nel sistema, politiche monetarie espansive giornalisticamente note come Quantitative Easing.  

I tassi di interesse, ossia il costo per prendere denaro o il guadagno nel prestarlo, sono stati bassissimi per tutta la decade trascorsa. Il denaro è costato molto poco, fatto giustificato dalla volontà di attuare politiche anti-cicliche che non facessero ulteriormente sprofondare gli investimenti.

Tuttavia, come notato da una crescente pletora di economisti convertiti, la maggior parte della moneta stampata da Fed (banca centrale USA), BCE, e da altri potentati bancari come Cina(4), Giappone e UK, non ha trovato collocamento nell’economia materiale a causa del perdurare di rendimenti stagnanti ma si è auto-alimentata nella sfera finanziaria.

Infatti, i listini azionari di tutti i paesi citati, Usa in testa, ogni hanno registrano il proprio record di capitalizzazione, ossia denaro raccolto sul mercato di investitori/risparmiatori.

Questa moneta in eccesso prima o poi deve avere una ricaduta sulla dinamica dei prezzi.

Il costo del cibo.

Un terzo elemento, diventato recentemente più popolare a causa della guerra, è quello che riguarda l’andamento del costo del cibo.

Vale la pena al tal proposito partire dal fatto che non serve essere esperti di economia pubblica per verificare che i prezzi degli alimenti stiano impazzendo e che ciò non possa essere unicamente connesso al grano ucraino (ne abbiamo già parlato qui).

Intanto vale la pena fare un po’ di ordine su quanto vale il grano ucraino. L’Ucraina è l’ottavo produttore di grano al mondo con circa 25 milioni di tonnellate che rappresenta appena il 3% della produzione globale(5).

I maggiori importatori di grano dall’Ucraina sono Cina e Turchia e come paesi a basso reddito Egitto, Libia, Tunisia e Indonesia.

Questi paesi a basso reddito saranno i più colpiti dalla riduzione delle esportazioni ucraine ma è facile desumere che quanto sta succedendo nella dinamica dei prezzi del cibo vada ben oltre la sanguinosa invasione promossa da Putin e dal conseguente blocco del grano ucraino.

Anche in questo caso, l’aumento dei prezzi del cibo può essere in parte attribuito all’aumento degli idrocarburi e dell’energia, infatti la globalizzazione del mercato agricolo si fonda sugli stessi mezzi di spostamento delle altre merci. Se aumenta il costo di un container per trasportare gli iphone quello stesso aumento è rintracciabile per la movimentazione di banane.

Anzi, minore è il valore aggiunto e il valore complessivo di una merce e maggiore saranno i rincari marginali rispetto al prezzo di ciò che deve essere trasportato.

Stesso discorso vale per il carburante necessario al trasporto e per l’energia di cui necessità il modello agro-industriale ad alta intensità di capitale.

Ed è proprio il modello agro-industriale contemporaneo a sperimentare in una crisi complessiva e per sostanziare questa affermazione facciamo riferimento agli studi di “ecologia politica” portati avanti da J.Moore.

L’autore americano sostiene che tre decenni di finanziarizzazione della natura abbiano innescato una “crisi spia”(6) del regime ecologico fondato dagli USA. Infatti, l’autore identifica come caratteristica distintiva del neoliberismo “la penetrazione della finanza nella vita quotidiana e, soprattutto, nella riproduzione della natura extra-umana” (Moore 2015, p. 29)

Con questo concetto di  “finanziarizzazione della natura”, si intende un campo gravitazionale che influenza e forma le regole della riproduzione umana ed extra-umana, ossia il disciplinamento del consumo della natura attraverso l’applicazione di tassi di profitto stabiliti nella sfera finanziaria e sottoposti ad un paradigma di circolazione del capitale puramente finanziario (D-D’) e non intermediato dalla trasformazione della merce e dalle leggi di mercato, domanda e offerta, che si riscontrano nel ciclo di investimento (D-M-D’) (Moore 2015, p.29).

Tale dialettica congiunta lo porta a definire il sistema complessivo non come “economia-mondo” bensì come “ecologia-mondo”.  

«In questa prospettiva, il capitalismo non ha un regime ecologico. Esso è un regime ecologico.» (Moore 2015, pp. 30-31).

Secondo Moore una caratteristica dell’egemonia statunitense è data dalla capacità di organizzare la natura umana ed extra-umana in modo da superare la crisi ecologica terminale(7) sperimentata dall’egemone precedente. Questa capacità evolutiva si manifesta nell’attuazione di “rivoluzioni agricole” in grado di generare un “surplus ecologico” (Moore 2015, p.31).   

Infatti,

«Tutte le grandi ondate di accumulazione di capitale si sono dispiegate attraverso un’espansione del surplus ecologico, che si è manifestato in cibo, energia e fattori produttivi a buon mercato. La creazione di questi surplus è centrale per l’accumulazione nella longue durée. C’è una dialettica tra la capacità del capitale di appropriarsi delle nature biofisica e sociale a costi bassi e la sua immanente tendenza a capitalizzare la riproduzione della forza lavoro e delle nature extra-umane.» (Moore 2015, pp.31-32).

Moore identifica due movimenti paralleli in grado di generare un surplus ecologico: da un lato c’è la produzione capitalizzata della natura che si esplica nella progressiva meccanizzazione agricola. Dall’altro lato c’è la volontà capitalista di appropriarsi della natura come fosse un “bene gratuito”.

Quest’ultimo concetto è centrale poiché fornisce una relazione non immediatamente limpida tra la produzione energetica da fossili e la produzione agricola di tipo industriale. Infatti, la sostituzione della forza lavoro con tecnologie agricole ad alta intensità energetica ha sicuramente aumentato la produttività generando maggiori quantità di cibo, ma questo è reso possibile dall’utilizzo di risorse biofisiche non rinnovabili che si sono formate nel corso di ere geologiche.

Il risultato principale dell’ottenimento del surplus ecologico è quello di diminuire drasticamente il costo del cibo. Quest’ultimo è infatti centrale nella dinamica di estrazione di plus-valore dalla forza-lavoro, poiché rappresenta l’elemento fondamentale nel determinare il salario minimo necessario alla riproduzione della forza lavoro stessa.

«Il prezzo del cibo è infatti cruciale perché esso condiziona il prezzo del lavoro. Le grandi epoche dello sviluppo capitalistico sono sempre state condizionate da un’imponente espansione demografica e da un’imponente proletarizzazione. Il notevole contributo delle rivoluzioni agricole al percorso dello sviluppo capitalistico può essere ritrovato qui, nel fatto di far abbassare il costo relativo degli alimenti mentre avanza la proletarizzazione» (Moore 2015, p.36).

Questa ricostruzione ci permette di capire perché per Moore l’egemonia debba essere considerata addirittura come un progetto ecologico, ma qual è la rivoluzione agricola statunitense e perché starebbe vivendo una “crisi spia”?

Gli Stati Uniti hanno fondato la loro egemonia, non solo sulle armi, sull’ordine imperiale e sul funzionamento di un’economia aperta su scala globale, ma hanno anche avuto la capacità di attuare quella che Moore definisce una “rivoluzione verde” (Moore 2015, p. 40).

Questa è essenzialmente rappresentata dall’agro-industria ad alta intensità di capitale, ossia dall’adozione di tecnologie chimiche ed energetiche all’avanguardia che nei primi decenni del XX secolo portano gli Stati Uniti ad essere il primo produttore agricolo al mondo.

L’egemonia americana si fonda quindi sulla capacità, a partire dagli anni ’60 e ’70, di estendere l’utilizzo di tecniche agro-industriali a vastissime aree del pianeta coltivate ancora con metodi tradizionali meno produttivi.

Il risultato è che tra gli anni ’80 e i primi 2000 il cibo sia stato progressivamente sempre più a “buon mercato” permettendo, come si evidenziava sopra, di abbassare le pretese salariali del proletariato globale e di spingere in avanti i profitti.  Tuttavia, il surplus dell’innovazione non può durare per sempre.

«Nel 2001, i beni alimentari non erano mai stati così economici (…), nel dicembre del 2007, i prezzi del cibo erano al loro massimo in termini reali dal 1846» (Moore 2015 p.39)

Cosa è successo in appena sette anni?

Moore ci fornisce tre risposte, le prime due possono essere considerate contingenti alla gerarchia piramidale del sistema capitalista, mentre la terza risposta ci impone di ragionare sui limiti raggiunti dallo sviluppo tecnologico della “rivoluzione verde” statunitense.  

In primo luogo, quanto successo ai prezzi del cibo a partire dai primi anni ‘2000 può essere considerato un riallineamento verso congrui prezzi di mercato. Infatti, l’origine principale del crollo del prezzo del cibo negli anni ’80, quasi del 40%, non è da attribuire unicamente all’adozione di tecnologie che aumentano la resa (output) tenendo costanti gli altri fattori produttivi, ma va ricercato nella condizione di subalternità della periferia del sistema. Infatti, la crisi del debito sperimentata negli anni ’80 da molti paesi produttori di beni agricoli (Brasile e Messico sono due ottimi esempi) impone a questi stati di massimizzare le proprie esportazioni per equilibrare le proprie bilance dei pagamenti. Questa massimizzazione avviene approfondendo le condizioni di sfruttamento della forza lavoro locale e intensificando ulteriormente la produzione agricola agro-industriale incentrata su mono-colture redditizie.

Questo processo crea le condizioni per il disaccoppiamento tra costi di produzione e prezzi di mercato, il riallineamento di questi due elementi a partire dal 2001 innesca l’inflazione sui beni primari che si è descritta.

Una seconda risposta, strettamente legata alla prima, è data dal crollo della profittabilità del settore agricolo che innesca il tipico processo di concentrazione di capitale, il quale, ricercando una condizione oligopolistica o monopolistica, tenta di ricreare margini di profitto adeguati.

Il raggiungimento di condizioni di oligopolio e monopolio sul cibo globale da parte delle multinazionali permette di spingere i prezzi verso l’alto.  

Infine, è necessario soffermarci sui limiti raggiunti dal progresso bio-tecnologico affermatosi con la “rivoluzione verde” statunitense. Moore argomenta dettagliatamente come la “globalizzazione delle biotecnologie agrarie non è riuscita a rallentare il progressivo declino nella crescita mondiale delle rese per buona parte dell’ultimo quarto di secolo” (2015, p 42).

Cosa vuol dire? Vuol dire che il progresso bio-tecnologico, incarnato da super-fertilizzanti e OGM, sembrerebbe aver raggiunto i propri limiti, poiché la reddittività della terra è ferma. Ciò assume tratti drammatici se ci focalizziamo sul fatto che, a differenza del passato, lo spazio geografico terrestre coltivabile è pressoché esaurito mentre parallelamente la popolazione e quindi la domanda globale di cibo cresce.

Questa digressione sul pensiero di Moore,  per quanto abbozzata, ci permette di inquadrare il tema del costo cibo, andando oltre la parzialità e la contingenza del conflitto russo-ucraino, avvalorando l’ipotesi iniziale che aumento del costo dell’energia, inflazione di merci e cibo siano delle tendenze con il quale dovremo confrontarci per diverso tempo perché esse rappresentano la manifestazione più plastica e visibile della crisi di accumulazione capitalista scoppiata nel 2007-08 e mai risolta dall’ordine gerarchico attuale.

1 https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2022/04/19/world-economic-outlook-april-2022 

2 A tal proposito gli economisti di Confindustria quantificano un blocco del gas russo in Italia in 2 punti percentuali di PIL https://tg24.sky.it/economia/2022/05/29/gas-russo-italia-confindustria

3 https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-05-14/eu-cuts-euro-area-gdp-forecast-sees-6-1-inflation-draft-shows 

4 La Cina meriterebbe un approfondimento a parte in quanto si è concentrata maggiormente su politiche fiscali espansive e non monetarie.

5 https://worldpopulationreview.com/country-rankings/wheat-production-by-country

6 “Adattando l’efficace linguaggio di Arrighi, possiamo dire che una crisi spia di un regime ecologico si verifica quando le condizioni iniziali per una rapida espansione del surplus ecologico iniziano a erodersi e cibo, energia e fattori produttivi diventano più, e non meno, costosi.”

7 Una crisi terminale, invece, segna il passaggio definitivo da un modo di organizzare la natura globale a un altro, come nella transizione dall’egemonia mondiale olandese a quella inglese e la simultanea transizione dal carbone di legna e dalla torba al carbone come fonte di energia principale.”

 

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