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Il nemico è in casa nostra

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di Emilio Quadrelli

La guerra è qualcosa che ci riguarda.

La guerra è la cifra del presente.

L’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico – umanitario, un veicolo specifico dell’imperialismo economico (Carl Schmitt Le categorie del politico )

La mobilitazione che l’Assemblea cittadina genovese contro la guerra ha promosso per il 7 dicembre contro Leonardo rappresenta un significativo passo in avanti nella costituzione di un fronte di massa contro la forma guerra del presente. Una forma guerra che ha assunto forme, modi e tempi assai diversi dal passato. Provare a comprenderla diventa un’esigenza e per questo, alcune non secondarie precisazioni, sono necessarie.

Leonardo, insieme a tutto ciò che lo contorna, non è altro che la punta dell’iceberg poiché, oggi, la guerra ha ramificazioni e intersezioni che vanno ben al di là delle, per quanto ampie e potenti, schiere dei “mercanti di cannoni”. La guerra oggi è la cifra del presente perché è il modello politico intorno al quale sembra aver preso forma la fase imperialista del presente. Ciò comporta alcune radicali differenze con quanto abbiamo conosciuto in precedenza. Certo gli interessi economici, insieme a quelli geopolitici, mantengono inalterata la loro importanza ma sarebbe pura miopia ridurre tutto a ciò. Possiamo infatti affermare che la guerra è diventata il modello di governance del comando capitalista del presente. Oggi la forma guerra definisce per intero la cornice degli stati imperialisti i quali, ed è qua che si colloca la cesura con il passato, conducono in contemporanea sia la guerra esterna sia quella interna. Ma non solo. Oggi la guerra è essenzialmente guerra contro la popolazione. Per comprendere ciò di cui stiamo parlando dobbiamo partire dalla semantica stessa della guerra. Nonostante le situazioni di guerra aperta siano ormai innumerevoli, la parola guerra è stata, di fatto, bandita dal lessico comune. Al termine guerra si è repentinamente sostituita la dicitura operazione di polizia o, in alternativa, l’ossimoro “guerra umanitaria” dove guerra vuole significare non un intervento bellico ma opera di pacificazione. Tutto ciò cosa ha comportato? In prima istanza la svalutazione del nemico come nemico politico. Non si combatte contro una entità politica bensì contro banditi, pirati, stati canaglia, etnie e/o tribù bellicose, criminali e via dicendo. Questo lessico fa sì che, a conti fatti, tra una operazione in Iraq e una a Scampia le differenze diventino pressoché inessenziali. Se differenza c’è questa è puramente di scala, non di senso. A differenza che nel passato, e qua con ogni probabilità sta il vero nocciolo della questione, le operazioni di guerra vedono direttamente coinvolte oltre agli apparati militari tutta quella vasta gamma di istituzioni civili declinate in chiave “umanitaria” che sono parte integrante dell’azione militare. In una sorta di tragica reiterazione del classico gioco del poliziotto buono e di quello cattivo gli istituti umanitari si fanno protagonisti, non meno dei militari, delle pratiche di occupazione e dominio. Ma se nella messa in forma della guerra attuale polizia, militare e organismi civili umanitari, le tanto decantate ONG, si compenetrano sino a diventare un tutt’uno, qualcosa di non secondario è accaduto. In ciò vi è uno spostamento decisivo della nota asserzione: la guerra è la continuazione della politica sotto altra forma.

Al di là delle interpretazioni volutamente volgari, le quali assumevano detta asserzione per separare guerra e politica e considerare la guerra, invece che elemento permanente costitutivo e costituente della politica medesima, come momento anomalo ed eccezionale della politica, sappiamo da sempre che, molto più realisticamente, la guerra è sempre stata compresa nella politica. Compresa perché sua complementarietà quindi, il suo manifestarsi, non rappresentava nessuna anomalia anche se, classicamente, il ricorso alle armi ha sempre indicato un elemento di rottura rispetto alla consueta relazione politica e diplomatica tra gli stati. La guerra, quindi, come trama permanente della politica ma pur sempre esercitata in condizioni di eccezionalità. Sullo sfondo della deflagrazione, almeno avendo a mente i due conflitti mondiali del ‘900, vi sono sempre due elementi centrali: una crisi economica e finanziaria internazionale, la lotta mortale delle potenze imperialista per trarre a proprio vantaggio gli effetti della crisi. La crisi trasforma quella che abitualmente è una condizione di concorrenza, anche dura e spietata, in conflitto armato aperto. La guerra è il solo strumento che l’imperialismo ha per uscire dalla crisi e dare il la a un nuovo ciclo di accumulazione. Solo in un secondo momento, allora, la guerra diventa fattore centrale e decisivo delle politiche statuali ed elemento cardine delle proprie società.

La guerra si fa, allora, l’asse intorno alla quale tutta la “nazione”, in maniera unitaria, deve assoggettarsi. Per farlo occorre che questa rimanga tanto esterna quanto estranea ai perimetri statuali. La pace sociale interna, e conseguente adesione delle masse alla guerra del “proprio” imperialismo, sono la conditio sine qua non per condurre il conflitto. Le masse devono essere rese partecipi del progetto imperialista. In ciò consiste quella “nazionalizzazione delle masse” che ha fatto da sfondo al ‘900 il cui apice è stato raggiunto nel corso del Secondo conflitto mondiale. Il ruolo centrale che la propria popolazione subalterna assumeva per la conduzione del conflitto faceva sì che le politiche statuali adottassero nei suoi confronti politiche inclusive e di non ostilità. Solo masse tendenzialmente cooptate potevano garantire produzione e disponibilità al combattimento e quindi l’esercizio della volontà di potenza di ogni imperialismo. Senza una qualche forma di consenso da parte della propria popolazione lo stato imperialista non poteva minimamente pensare di condurre una guerra vittoriosa. Il ruolo delle masse si mostrava centrale il che, a conti fatti, per gli stati imperialisti rappresentava una vera e propria spada di Damocle.

Il peso che le masse potevano vantare faceva sì che, in qualunque momento, la guerra imperialista si trasformasse in guerra civile rivoluzionaria. Ma non solo. Quella guerra condotta tra entità statuali tra eserciti nemici ma di pari grado e dignità, rendeva, come in non pochi casi è avvenuto, possibile la fraternizzazione tra gli eserciti. Con ciò l’asserzione: Il nemico è in casa nostra si faceva forza tanto materiale quanto sovversiva. Quanto la relazione guerra – rivoluzione sia stata la trama della prima metà del ‘900 è talmente ovvia e risaputa che non ha certo bisogno di essere argomentata. Dentro la guerra la borghesia imperialista poteva essere posta in ogni momento sotto scacco dalle masse operaie e subalterne. Per quanto forti e avvolgenti potessero presentarsi le retoriche che avevano consentito la “nazionalizzazione delle masse” queste, di fronte agli orrori e alle tragedie che la guerra comportava per i subalterni, potevano in qualunque momento prima incrinarsi per cadere subito dopo in frantumi. Per questo la guerra doveva essere, per i blocchi imperialisti, una parentesi rapida e risolutiva finalizzata a ridefinire un nuovo ordine politico, economico e militare internazionale. Come ampiamente noto il prolungarsi dei due conflitti mondiali non è stato frutto della volontà degli stati belligeranti bensì l’effetto di una impasse bellica che ha obbligato tutti gli attori politici a gestire lunghi anni di conflitto armato.

Non sembra essere questo il modello con il quale abbiamo a che fare. Per prima cosa, infatti, la guerra ha cessato di essere un “fatto nazionale” poiché la tecnologizzazione della medesima ha emancipato le borghesie imperialiste dalla necessità di far ricorso a masse sterminate di soldati. Gli eserciti hanno cessato di essere eserciti di massa per diventare apparati professionali altamente specializzati e senza alcun legame con quell’idea di “esercito di cittadini” tenuto a battesimo dalla Grande Rivoluzione e con ciò si è reso l’esercito sostanzialmente impermeabile a qualunque ipotesi di sovversione sociale. In un esercito di professionisti è assai improbabile che si ventili l’ipotesi dell’ammutinamento o che, come invece è sovente accaduto, la truppa spari alle spalle di condottieri eccessivamente intrepidi e ammaliati dalla guerra. Un passaggio non proprio da poco. In seconda battuta, e qua la distanza rispetto al passato si fa abissale, la guerra non pare finalizzata a una nuova pace imperialista a breve ma l’imperialismo tende a fare della guerra l’elemento permanente del suo assetto politico. In questo senso la guerra in permanenza si mostra come la vera cifra del presente tanto che, allora, la nota asserzione sulla guerra andrebbe così modificata: la politica è la continuazione della guerra sotto altra forma.

Una guerra che, per di più, non ha un fronte o un confine rigido ma si articola a tutto tondo dentro e fuori i perimetri statuali. Se ciò è vero molte cose ne conseguono e la battaglia contro Leonardo assume contorni del tutto inediti rispetto a ciò che possiamo considerare l’antimperialismo e l’antimilitarismo classici. Non l’opposizione “ideale” e “idealistica” a una guerra che sta là ma un’opposizione che affonda le sue origini e ragioni dentro una condizione materiale che sta esattamente qua. La compenetrazione di civile e militare, di ciò, ne rappresenta l’esatta sintesi. Qua la cesura con il passato.

Contrariamente al passato gli stati in guerra affondano i propri colpi sia all’esterno che all’interno anzi, in non pochi casi, ciò che viene sperimentato oltre i confini nazionali viene reimportato e modellato nella guerra interna. Non sembra esistere un dentro e un fuori bensì un continuum dove, volta per volta, pezzi di Iraq o Afghanistan si materializzano a Napoli piuttosto che a Roma o Milano, solo per rimanere all’interno del nostro Paese, ma la cosa è del tutto valida per Los Angeles come Parigi, Londra come Berlino e via dicendo. Se, in passato, la popolazione e il suo consenso erano la posta in palio delle politiche statuali, oggi la guerra alla popolazione diventa la linea di condotta a tutto tondo delle politiche governative. Guerra interna e guerra esterna marciano di pari passo. L’una rafforza l’altra e viceversa. Basti pensare, come pura esemplificazione, all’utilizzo dei droni sia nei contesti di guerra aperta, sia nel controllo e in funzione anti sommossa delle metropoli interne.

Con ogni probabilità, però, è sul piano giuridico e legislativo che diventa facile cogliere il continuum tra guerra esterna e guerra interna. Che cos’è, se non una vera e propria legislazione di guerra, l’emanazione del Decreto sicurezza uno e due? Qua sta il nocciolo della questione. Su questo provvedimento si sono consumate, quasi sempre a sproposito, fiumi di parole. L’attenzione è stata per lo più posta sulla politica dei “porti chiusi” mentre, su tutto il resto, un complice silenzio è calato come se tutto il “pacchetto sicurezza” si risolvesse in ciò. Ma è veramente così? Veramente su questo si gioca l’asse strategico del Decreto sicurezza uno e due? Una lettura persino distratta racconta ben altro. Se il rifiuto di salvare le persone in mare, impedendo l’approdo in un porto con conseguente rischio di morte per i passeggeri, rappresenta l’aspetto più barbaro e fascista del Decreto, gli intenti del provvedimento vanno molto oltre. Intenti che, come dimostrano le politiche governative attuali post Salvini, sono ampiamente condivise da tutte le forze politiche. Se, da un lato, la questione dei “porti chiusi” è stata leggermente smussata permettendo l’attracco ma, in contemporanea, segregando in campi di concentramento prontamente allestiti dentro i porti le persone sbarcate, su tutto il resto non una voce si è levata per denunciare il tratto apertamente bellico che il Decreto uno e due comporta nei confronti delle masse subalterne.

Nel mirino del Decreto, senza neppure troppo fronzoli o giri di parole, c’è la ratifica giuridica, netta e radicale, di un atto di guerra contro la lotta di classe. Obiettivo del Decreto sicurezza uno e due è attrezzare una “legislazione di guerra” al fine di combattere ogni forma di opposizione politica e sindacale. Il Decreto sancisce, sotto norma giuridica, l’illegalità di ogni forma di conflitto sociale.

Questo scenario, a dire il vero, è nuovo solo in parte. Per molti versi, infatti, la forma guerra del presente e le modalità in cui si consuma presenta non poche assonanze con l’epopea coloniale tanto che, per molti versi, stiamo assistendo al dispiegarsi di una guerra neocoloniale in permanenza. Ciò ha delle ricadute tali da rendere necessario, per comprendere lo scenario politico e sociale contemporaneo, di uno sforzo teorico e analitico. Palesemente non si può leggere il presente attingendo unicamente alla cassetta degli attrezzi del passato. Non si tratta di un salto nel vuoto poiché, come sempre accade, elementi di ieri continuano a vivere, anche se in forma mutata, nel presente mentre altri si presentano come novità tout court. Andando al sodo, e per semplificare di molto, possiamo dire che il primo elemento di continuità con il passato coloniale è rappresentato dalla svalutazione del nemico al quale non viene riconosciuta alcuna legittimità politica. La guerra interna è combattuta contro quella parte di popolazione che, per condizione sociale ed economica, rimane estranea alla dimensione dell’individuo – cittadino. Nella nostra società, a fronte della figura dell’individuo – cittadino, si stagliano quote sempre più ampie di popolazione non distanti da quella condizione di “massa senza volta” propria della stragrande maggioranza delle popolazioni colonizzate. Masse senza diritti e rappresentanza deputate unicamente a fornire lavoro vivo ai processi di valorizzazione del capitale o, come spesso accade, a fornire servizi “illeciti” agli “individui – cittadini”. Una parte di queste “masse senza volto” trova infatti occupazione in quei settori extralegali quali spaccio di sostanze illecite o prostituzione dei quali, gli “individui – cittadini”, sono particolarmente ghiotti Una condizione che le politiche statuali operano al fine di renderla eterna. Esattamente questo il senso del Decreto sicurezza uno e due precedentemente ricordato.

Questa condizione, propria della colonia, oggi la ritroviamo dentro i territori della metropoli imperialista. Nello stesso spazio urbano, questa la novità del presente, convivono i territori della pace dell’individuo – cittadino e i territori della guerra delle “masse senza volto”. Questa guerra vede coinvolto l’intero corpo sociale. A condurla non sono solo e semplicemente i militari e neppure le sole forze dell’ordine ma un insieme di settori e blocchi sociali i quali, pur con gradi e intensità diversi, si fanno forze attive della guerra neocoloniale in loco. Queste forze, che assolvono a molteplici funzioni, trovano nelle retoriche prone alla lotta contro il degrado e l’insicurezza urbana il loro collante identitario. Spicca in questa coalizione di guerra la Polizia municipale la quale, da tempo, è diventata un corpo militarizzato attivo nella caccia al nero, al “deviante” e allo “anormale”. Il suo compito è quello di “ripulire” i luoghi deputati agli individui – cittadini da tutte quelle presenze percepite come non idonee a quel determinato paesaggio urbano. Il suo mandato è sostanzialmente quello di operare degli autentici ratissage all’insegna del decoro urbano o, nei fine settimana, garantire il normale svolgimento della movida impedendo l’accesso alle zone della “trasgressione normata” a tutte quelle figure “povere” che la potrebbero disturbare. A questa prima scala di “combattenti” si aggiungono quelle figure, investite velocemente dello status di pubblici ufficiali, quali controllori dei mezzi pubblici, autobus, metro e treni le quali per comportamenti e modalità finiscono con l’incarnare una sorta di “polizia cittadina” in fieri atta a contenere, denunciare e reprimere tutta quella serie di comportamenti conflittuali di bassa intensità. A questi si aggiunge una quota non secondaria della folta schiera degli “operatori del sociale” i quali, in piena sintonia con il lavoro svolto dalle ONG a livello internazionale sono sempre più deputati a rivestire il ruolo di “cani da guardia” e “polizia sociale” nei confronti degli immigrati o di figure sociali a questi similari. Si assiste, cioè, a una militarizzazione della società in funzione di una guerra la cui finalità e finalizzazione è il mantenimento e il costante allargamento di quote considerevoli di masse subalterne nella condizione di servaggio.

Tutto questo è particolarmente evidente osservando la risposta che stato e padroni stanno dando alle lotte operaie e proletarie. Accanto alle misure draconiane previste dal Decreto sicurezza uno e due e la coeva criminalizzazione dell’antagonismo operaio si aggiunge negli ultimi tempi la reiterata pratica padronale dell’organizzazione di squadre, militarmente intruppate, di crumiri e mazzieri i quali, con la totale copertura delle forze di polizia (quindi degli apparati statuali) attaccano militarmente i picchetti operai, provano a forzare i blocchi investendo gli operai in sciopero oppure, quando la resistenza operaia li respinge, sfogando la loro rabbia e frustrazione danneggiando le auto dei lavoratori in sciopero sino ad arrivare a formulare minacce esplicite di ritorsione nei confronti dei familiari degli operai in lotta. Proprio di fronte ai cancelli delle fabbriche e dei magazzini si salda l’iniziativa di stato e padroni al fine di impedire il prodursi di pratiche e organizzazioni autonome operaie e proletarie in grado di inceppare i meccanismi di valorizzazione delle merci. In ciò un ruolo centrale lo rivestono i sindacati confederali i quali, del tutto allineati sulle politiche imperialiste e neocoloniali, spalleggiano stato e padroni mobilitando a loro volta le proprie burocrazie e le quote di “destra operaia” che organizzano per annichilire le lotte autonome degli operai. Per quanto sicuramente incompleto ed eccessivamente stringato, questo lo scenario di guerra in cui ci troviamo a agire.

In tutto ciò la mobilitazione contro Leonardo diventa una prima risposta alla guerra che stato e padroni stanno da tempo conducendo sia fuori che dentro i confini nazionali. Fin inutile ricordare la complicità dei nostri Governi, di tutti i Governi, negli scenari di guerra e delle industrie belliche che tutti i partiti politici coprono e vezzeggiano. Una complicità a volte diretta, con la presenza in loco di truppe, complicità indiretta con la vendita di armi a Paesi, come l’Arabia Saudita, che della conquista, della sottomissione e il saccheggio hanno fatto la loro ragione di vita o la Turchia di Erdogan autore di una politica di sterminio verso la popolazione curda. Come abbiamo cercato minimamente di argomentare la guerra non è solo qualcosa che sta là bensì una pratica che operai e masse subalterne subiscono anche dentro le nostre metropoli imperialiste. Mai come adesso, quindi, asserire: Il nemico è in casa nostra, si mostra in tutta la sua concretezza.

Sappiamo che questa battaglia sarà una lotta di lunga durata. Né facile, né indolore. Sappiamo anche che, in questa lotta, gli operai e i subalterni non hanno e non avranno amici. Ma sappiamo anche che l’imperialismo è una tigre di carta che può essere attaccata, sabotata, inceppata e disarticolata in ogni momento. Il boicottaggio dei porti, solo per fare un esempio ampiamente noto, mostra come la forza operaia è in grado di inceppare la macchina militare dell’imperialismo e costruire intorno a questa cooperazione e organizzazione autonoma. Con ogni probabilità, senza l’iniziativa dei portuali genovesi che hanno lanciato il riuscito boicottaggio della nave saudita Bahri, non si sarebbero create le condizioni per la costituzione dell’Assemblea cittadina contro la guerra prima e del corteo contro Leonardo dopo. Questo dimostra come la volontà e determinazione operaia può aver ragione di qualunque ostacolo e di ogni nemico. Il corteo del 7 dicembre contro Leonardo, pertanto, ha un duplice obiettivo: lanciare una campagna militante contro la guerra interna ed esterna, rafforzare e sviluppare embrioni di cooperazione e organizzazione operaia e proletaria autonoma.

Contro le guerre imperialiste!

Guerra alla guerra

Per il potere operaio

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