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I campi di battaglia dei contadini cinesi

di Angela Pascucci, da Wuhan (Hubei)

Un paese in cui la frontiera in perenne movimento fra la città e la campagna è un teatro di guerra L’ostinata resistenza degli anziani di Heping a mezz’ora di macchina da Wuhan, 9 milioni di abitanti.

Heping, il Villaggio della Pace, è sul piede di guerra sotto il sole pallido di una mattina autunnale. Una ventina di anziani seduti sui loro banchetti di legno hanno bloccato lo stradone sterrato in costruzione fermando, insieme al traffico normale, una teoria di camion che portano cemento e materiali al vicino cantiere. E’ un caos in cui solo i vecchietti stanno quieti e irremovibili, stretti nella loro catena umana mentre intorno si agita un formicaio impazzito in cui si mescolano gli abitanti del villaggio, gli autisti esasperati dall’enorme ingorgo, i passanti curiosi e la polizia, quella che si mostra, in divisa, e quella in abiti civili. che osserva e prende nota.

Eccolo qua il corpo a corpo contadino con lo sviluppo urbano in una delle sue molte forme. Tra le meno violente, se si pensa a quello che sta accadendo nel Guangdong, ma certo non la meno determinata. I figli e i nipoti guardano i propri vecchi senza esporsi. Sanno che agli anziani si porta rispetto e che nessuno li sgombrerà o li arresterà, mentre a loro potrebbe andare diversamente. Sono cinque giorni ormai che la circolazione va in tilt nella zona a causa di questa manifestazione caparbia che però all’ora di pranzo svanisce, per ricominciare la mattina dopo. Il via vai dei camion dunque riprenderà e i lavori andranno avanti per tutta la notte.

Non c’è violenza a Heping; esasperazione sì. La zona è a poco più di mezz’ora dall’area più intensamente abitata di Wuhan, 9 milioni di abitanti, cuore geografico (e nel ‘900 anche storico) della Cina. La città, attraversata dal Fiume Azzurro, è anch’essa in preda alla febbre del rinnovamento e dello «sviluppo» che si traduce in montagne di cemento senza grazia né anima, a perenne distruzione di un paesaggio tra i più belli del paese, nel suo intersecarsi di laghi e corsi d’acqua. Heping, vicino alle rive del Donghu, il Lago dell’Est, uno dei più grandi della città, è stato colpito in pieno e vi resistono solo, ultime trincee risparmiate dall’assalto, alcune vecchie case abitate da contadini che nell’area avevano i poderi. Qualche fazzoletto di terra ancora rimane ma il destino è segnato e allora non resta che vendere cara la pelle e alzare il prezzo dello sfratto.

Chi protesta si lamenta dei compensi inadeguati dietro ai quali si sospettano i corrotti maneggi delle autorità locali. Si dice che i costruttori hanno pagato la terra più di 2000 yuan al metro quadro (circa 275 euro)* ma le autorità asseriscono di aver ricevuto solo l’equivalente di 80 euro. I manifestanti non hanno dubbi: la differenza è stata intascata alle loro spalle. Non bastasse, l’ammontare che i contadini hanno di fatto ricevuto finora per i terreni equivale ad appena 1,5 yuan per metro quadro, oltre a un risarcimento più alto per le case, diverso da famiglia a famiglia. Il resto lo avranno in stock option, sorta di azioni emesse dalla società immobiliare delle quali però si ignorano ancora sia il valore sia la data di consegna, anche perché tutto è legato all’evoluzione futura dell’area. Ma a Heping fiutano aria di imbroglio e protestano.

A esasperare il conflitto è anche la mancanza di canali prestabiliti di reclamo e contrattazione coi vari livelli del governo locale. Raccontano che chi ha provato a portare lo scontento fino a Pechino, attraverso le petizioni, è stato tirato giù dal treno prima ancora di partire, quanto alla petizione scritta, affermano, non serve a niente perché al governo centrale ne arrivano centinaia di migliaia che vengono rispedite proprio a quei funzionari locali dai quali i postulanti intendevano fuggire.

Il fronte di resistenza è frammentato. Prima ancora che gli sfratti iniziassero, gli abitanti avevano cercato di eleggere propri rappresentanti nel comitato di villaggio. Ma al momento delle elezioni, nel 2009, i loro candidati sono stati malmenati e minacciati dai qiang ren, i boss locali con forti agganci, che qui definiscono «mafiosi» per i loro legami con il sottobosco illegale dell’economia. Questi hanno imposto l’elezione di propri esponenti che hanno distrutto il fronte della resistenza collettiva e condotto le trattative a proprio modo. Si sussurra che uno dei qiang ren, gestore di una bisca clandestina nel villaggio, ha organizzato una squadra di picchiatori per «convincere» chi si opponeva agli sfratti, e ha ottenuto dei sub appalti per le costruzioni nell’area. Così ogni famiglia contadina è stata costretta a contrattare individualmente, ottenendo per la casa quel che poteva: chi 200 yuan al metro quadro, chi 500, chi 1.500, a seconda dei rapporti di forza, delle relazioni, della capacità di resistenza.

Nella Cina dello sviluppo metropolitano accelerato e selvaggio la frontiera in perenne movimento tra la città e la campagna è oggi un teatro di guerra dove a scontrarsi più che ideali o ideologie sono quantità di concretissimi danari, e dove la forza delle parti, contadini da una parte, costruttori e governi dall’altra, è del tutto asimmetrica a sfavore dei primi, poco sostenuta com’ è da un quadro legale di riferimento certo. Il frutto sociale di questo sommovimento, talvolta brutale, è una modernità cinese dai tratti ancora indistinti.

Il signor Xiao accetta di accoglierci nella sua nuova casa, al settimo piano di un palazzone a poca distanza dal luogo del sit in, in un grande condominio di edifici tutti uguali, in parte ancora disabitati. La famiglia, cinque persone, vi si è insediata dopo aver ceduto la terra e la casa sulla riva del lago. Il nuovo appartamento non si affaccia certo sul paesaggio antico e senza tempo del Donghu, ma è moderno, luminoso. Tuttavia i suoi 130 metri quadrati non sono che l’ombra dei 1000 metri su cui si estendeva la vecchia abitazione contadina. Nel salotto immacolato e intonso troneggia un mega schermo piatto da 60 pollici che il signor Xiao, per superare l’imbarazzo, accende immediatamente. Così sarà una fiction storica ambientata in un passato remoto ricostruito in modo improbabile a fare da sfondo al suo racconto di storia contemporanea. Quando avrà finito non meno di quattro personaggi saranno morti a tradimento in modo crudele, pianti dalle lacrime disperate di altrettante fanciulle.

Il nostro ospite, mezza età, sguardo timido, originario dell’Hunan (come il presidente Mao, ci tiene a dire) all’inizio ha un po’ paura ed esita a parlare. Forse il timore influenza il racconto di Xiao ma quel che dice rivela aspetti controversi di uno dei conflitti sociali cinesi oggi più virulenti, e destinato ad inasprirsi.

Tutto è cominciato, racconta, nel 2008 con la costruzione di una super strada. I bulldozer sono arrivati e senza preavviso formale hanno cominciato a distruggere le prime case. La fase finale del piano di «riqualificazione» del territorio, evidentemente deciso e negoziato da tempo tra governanti e costruttori, è piombata di colpo sugli abitanti del villaggio che poco o nulla ne sapevano.

Per i suoi terreni e la casa, Xiao ha avuto finora un risarcimento pari a 120mila euro. Una bella somma per la Cina, ma gli resta da incassare ancora il valore equivalente a 150 metri quadri della vecchia abitazione, che dovrebbe essergli erogato in fantomatiche azioni. Però non sa se, quanto e quando gli daranno quel che gli spetta. È con i soldi ricevuti finora che ha comprato il nuovo appartamento e lo ha arredato. Il suo cruccio è di non avere neanche un documento che attesti i suoi diritti. È stato tutto così rapido che anche le procedure sono state approssimative. Nel momento dello sfratto ha sottoscritto solo una liberatoria che consentiva la demolizione ma non ha firmato nulla di ufficiale che dimostri il legame tra la vecchia abitazione e quella nuova in termini di differente ampiezza.

Racconta di suoi conoscenti che si sono opposti alle demolizioni. Li hanno picchiati, buttato i loro mobili in strada e poi abbattuto la casa sotto i loro occhi. Heping ha 3000 abitanti, divisi in sei quartieri. Tutti contadini, che oggi si dividono tra chi è senza lavoro e chi svolge lavori precari. In questo momento Xiao è disoccupato ma gli hanno promesso un lavoro di custode nell’Happy Valley, il futuro parco divertimenti.

Sì, la casa dove vive ora è bella ma, lamenta, non c’è proporzione con la grandezza di quella precedente. Non è struggimento nostalgico il suo, piuttosto un rovello per quei metri quadri che devono essere ancora pagati. Mentre dalla sua terra, pensa, ricaveranno un profitto enorme. Ma non intende ricorrere alla legge per giungere a capo della situazione, ha paura delle complicazioni e anche della polizia. Ha due figli, uno di 10 anni e una di 19 anni, iscritta alle scuole superiori professionali che costano 7000 yuan l’anno (quasi 900). Avesse fatto ancora il contadino, ne è consapevole, non avrebbe potuto permettersi di pagare una simile retta.

A poche centinaia di metri dalla casa della famiglia Xiao un inferno di ruspe e caterpillar costruisce il nuovo ordine. Una parte della splendida riva del lago è stata interrata per diverse centinaia di metri e proprio su quel terreno rubato alle acque è in costruzione il parco divertimenti, che dagli scheletri delle montagne russe in costruzione all’orizzonte si preannuncia smisurato. Intorno, ha ancora forma scomposta tutto il corteggio urbano di un territorio «riqualificato»: villini di lusso, un albergo a cinque stelle, la superstrada.

Il giovane anarchico Mai Dian ricorda il movimento di resistenza che il suo Laboratorio politico ha cercato di organizzare alla fine di marzo del 2010, quando un articolo di giornale ha diffuso la notizia che la speculazione edilizia stava divorando un pezzo di lago. Lui, che insieme alla sua compagna Xiao Tie e ad altri attivisti è a Wuhan l’anima di una rete di relazioni sociali e culturali che per vivacità ha pochi eguali in Cina, riflette su quella che considera una sconfitta. Certo la repressione brutale del loro tentativo di lotta ha contato. Ma ciò che più brucia è il non essere riuscito a coinvolgere i contadini nella difesa del territorio. Il mito dello sviluppo che porta ricchezza ha avuto la meglio e se il primo deturpa, la seconda aiuterà a sopportare meglio lo scempio delle vite e dell’ambiente.

 

Incontro con il ricercatore He Xuefeng.

‘La privatizzazione della terra farà esplodere tutto il paese’

 

Negli ultimi 20 anni oltre 250 milioni di cinesi hanno lasciato le campagne per andare a lavorare in città, scomponendo i connotati sociali del paese. La vecchia classe operaia è stata sostituita da un esercito di nongmingong, contadini lavoratori, nuova classe dai contorni ancora indefiniti, mentre l’abbandono dei campi da parte dei più giovani ha stravolto il mondo contadino, Infine l’intensa urbanizzazione, avvenuta a spron battuto, ha fatto delle campagne vicine alle città un terreno di battaglia tra interessi contrastanti, in cui la terra è diventata fonte di accumulazione originaria del capitale, anche per i contadini.

È tenendo presente questa complessità che il professor He Xuefeng, direttore del Centro di ricerca sull’amministrazione della Cina rurale all’Università Huazhong di Wuhan, dove lo incontriamo, invita a osservare gli attuali conflitti. Oggi in Cina la terra è di proprietà pubblica e solo i diritti d’uso appartengono alle famiglie. L’opinione corrente è che se fosse introdotta la proprietà privata della terra, gli usufruttuari si difenderebbero meglio dai soprusi dei governi locali. In realtà sulla questione, afferma il professor He, il fronte contadino è diviso. Le più forti pressioni a privatizzare vengono dalle periferie delle città e nelle aree di sviluppo industriale dove si trova il 5% dei 700 milioni di agricoltori. Sono le aree degli scontri più accesi, dove i contadini chiedono più forza legale per aggiudicarsi una quota più grande dei profitti provenienti dalla crescita.

Poi c’è la frattura, provocata dalle grandi migrazioni, fra chi è rimasto in campagna e chi se n’è andato. Molti di coloro che lavorano in città non lavorando più la terra vorrebbero essere liberi di disporne senza dover rispondere alla comunità. Da qui la pressione sui governi locali perché concedano una sorta di «privatizzazione» dell’uso. Il che avviene, spiega He Xuefeng, ma a spese della coesione dei villaggi e della loro capacità collettiva di migliorare la produzione con infrastrutture e strumenti (strade, irrigazione, macchine etc.) dai costi insostenibili per i singoli. Inoltre, poiché il valore della terra cresce con lo sviluppo dell’industria e del terziario, si comprende l’aumento delle pressioni a disfarsi dell’uso agricolo della terra per ricavare più soldi dalla sua cessione. Un nodo cruciale perché, secondo He, ne va della stabilità del paese. I migranti che disponessero della proprietà la venderebbero. Improvvidamente, secondo l’esperto, perché il ricavato non garantirebbe una vita decente nelle costose città e il ritorno sarebbe precluso. Ancora oggi, fa notare, molti non rinunciano all’hukou contadino che, se priva dei diritti assicurati ai cittadini, dà loro altri vantaggi, come avere più di un figlio o accedere alle università con un voto più basso all’esame di ammissione

Però, facciamo notare, i piani di urbanizzazione prevedono lo spostamento in un decennio di centinaia di milioni di persone nelle città, inoltre le giovani generazioni di migranti non hanno più voglia di tornare indietro. E non s’è mai visto un paese moderno con il 50% della popolazione nell’agricoltura. Per il professore procedere in tempi così rapidi sarebbe socialmente destabilizzante. I governi delle città non riuscirebbero a garantire gli standard minimi di welfare e dilagherebbero gli slums.

Con le campagne cinesi lacerate dai cambiamenti il business della grande agro industria si fa largo e fagocitando i piccoli appezzamenti ben si concilia con la migrazione di massa prossima ventura disegnata dai piani. Una vera iattura, per He Xuefeng, che auspica, e lavora, affinché si riorganizzi la struttura autonoma del villaggio, ultimo anello della catena amministrativa. E’ da qui che si deve ripartire, argomenta, per istituire meccanismi di governo democratici e restituire forza ai contadini.

Intanto però la questione della terra esplode, con rivolte contro gli abusi di potere e la corruzione. La risposta è sorprendente: non si possono dividere i buoni dai cattivi. Ognuno cerca di accaparrarsi i profitti più alti dai processi in corso. Le proteste riportate dai media avvengono nei luoghi dove la lotta è più accesa e i dimostranti sanno che quanto più forte è l’attenzione suscitata tanto più alta sarà la loro possibilità di vittoria.

 

Speciale da Il Manifesto

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