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#14N: i precari di seconda generazione allo sciopero europeo

Se questo è un elemento centrale, l’altro decisivo è quello che sta alla base del 14N: la dimensione europea dello sciopero. É vero che per ora parliamo di qualcosa che fatica ad andare al di là di una vocazione o di un’allusione: mobilitazioni in 23 paesi, ma in vari di questi (dalla Germania all’Inghilterra) di scioperi vi sono state poche tracce, e perlopiù si è trattato di azioni simboliche in solidarietà alle lotte dei piigs. E tuttavia, proprio il carattere “meridionale” della giornata deve oggi essere visto come una possibile ricchezza. É proprio da qui, da quella che abbiamo definito una possibile leva del sud, che un discorso e uno spazio europeo possono essere riaffermati e conquistati. A questo compito corrisponde già un processo organizzativo su scala transnazionale? Non ancora, per quanto gli importanti tentativi culminati nel recente Agora99 a Madrid provino a muoversi in questa direzione evidenziando la necessità di portarli avanti. Il punto che ci pare emergere, però, è che la generazione che abbiamo sopra schematicamente tratteggiato è tendenzialmente una generazione europea, perché la forza-lavoro precaria incorpora nelle proprie caratteristiche la mobilità strutturale (fin dal percorso di studio o nella ricerca di frammenti di vita migliore) e l’irriducibilità all’identificazione nazionale. La proliferazione dei nazionalismi, micro e macro, costituisce esattamente il backlash reazionario all’ambivalenza di questa condizione. Allora, il 14N ha certamente contribuito a sancire l’impraticabilità della vittoria dentro i perimetri statali, pure contro una sinistra che rimane ancorata all’orizzonte della sovranità nazionale o addirittura anti-europea.

Ma il 14N non è stato un evento destinato a consumarsi nelle 4 o 8 ore degli scioperi convocati dai sindacati. Vive dentro i percorsi di sedimentazione e accelerazione dei conflitti che lo precedono, guadagna senso dentro le prospettive che apre. A Barcellona e a Madrid il 14 novembre è cominciato a mezzanotte con i picchetti sociali, per affermare che laddove l’intera vita viene messa al lavoro, la lotta di classe non conosce più gli orari della fabbrica fordista: si estende all’intera giornata e a tutta la metropoli. Ad Atene ha avuto i picchi di conflitto nelle 48 ore di sciopero della scorsa settimana, o sarebbe meglio dire in una sorta di sciopero generale che va avanti da ormai quattro anni. E In Italia è iniziato il 12 novembre a Napoli nella manifestazione di studenti e precari orgogliosamente “choosy” contro la Fornero, il giorno dopo nei blocchi delle strade contro le trivelle in Val Susa e nell’“Apocalypse Sulcis”, con gli operai che costringono uno spaventato Passera a una precipitosa fuga in elicottero. D’altro canto, proprio il 14N può definire un nuovo rapporto, che è anche rapporto di forza, tra movimenti e sindacati. La convocazione ufficiale, imposta dall’agenda autonoma delle lotte, è stata ecceduta e per certi versi rovesciata. Lo slogan “toma la huelga” ha rischiato in Italia, come spesso accade, di diventare logo improduttivo per le rappresentanze dei movimenti: nel 14N si è invece incarnato in una riappropriazione non solo dello sciopero, ma dell’autonomia dei movimenti proprio contro le rappresentanze.

Sia chiaro, i problemi non cessano dopo il 14N, tutt’altro: enfasi retorica e volontarismo simbolico non ci farebbero compiere grandi passi in avanti. Cos’è ad esempio oggi lo sciopero in quanto arma per fare male al padrone, quindi passando dall’estensività dell’allargamento metropolitano all’intensità dell’incidere sui rapporti di sfruttamento, resta un nodo gordiano. La difficoltà di creare luoghi e dispositivi di ricomposizione in Italia non è stata superata. In Spagna gli studenti marciano e agiscono al fianco dei “pensionati ribelli” di @iaioflautas, di lavoratrici domestiche e sfrattati; qui gli operai riconoscono i precari cognitivi e di seconda generazione come figure dell’assenza (di diritti, di welfare, di futuro) ma non ancora come una linea di forza attorno a cui si può aggregare una nuova composizione politica – quello che è invece avvenuto, pur in modo non uniforme, nell’insorgenza tunisina, nelle acampadas o in occupy. E attenzione, a scanso di equivoci: parlare di precari di seconda generazione significa sottolineare anche un’ambivalenza, tra possibilità di radicalizzazione collettiva e spinte al nichilismo individuale. Ma questa ambivalenza va sciolta, non contemplata. Infatti, o ci si consegna all’ineluttabilità e irreversibilità di questi problemi, come fa una sinistra che se arriva a parlare di composizione di classe lo fa in termini completamente deterministici, oppure ci poniamo il problema di ipotizzare delle direzioni praticabili che permettano, se non di risolverli, quantomeno di affrontarli vis-à-vis. O facciamo appello all’inutilità dell’azione soggettiva, come sempre il determinismo fa, oppure proviamo collettivamente a impostare quell’azione sui binari corretti. Perché al di fuori di una prospettiva di ricomposizione delle lotte lungo linee di forza costituenti vi è solo la disperazione individuale, il ritorno a una casa più o meno immaginaria, oppure la sommatoria delle disgrazie e degli errori, cioè la strategia frontista delle alleanze.

Il compito è liberare il campo, abbiamo più volte detto. Questa nuova composizione che sta emergendo ha, in tendenza, la potenza per far saltare i tappi, e un pochino forse lo ha fatto già il 14N. Però alla tendenza non ci si può meramente affidare speranzosi negli eventi. Ancora una volta, perciò, non si tratta di aspettare il futuro ma di organizzarlo.

 

Durante il 14N, da Brescia a Madrid passando per Roma, alla violenza della polizia della crisi si sono aggiunti numerosi arresti. Di questi compagni e compagne, espressione della composizione delle lotte qui evidenziata, vogliamo l’immediata libertà.

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