
Roma, container per i senza casa: riavvolgiamo il nastro

Riavvolgiamo il nastro. Non si tratta di uno scherzo a meno che qualcuno non abbia pensato davvero che i container potessero essere la destinazione perenne non solo delle persone colpite da calamità naturali ma anche da chi non può permettersi un alloggio. Perchè questo paragone infelice, tra terremotati e senza casa? Perché siamo abituati a vedere sistemate le persone nei container quando di fronte ad eventi naturali improvvisi si trovano sistemazioni di emergenza. Salvo aver appurato ormai che le emergenze, anche quelle naturali, non sono altro che quattrini in più nelle tasche di palazzinari, politici, associazioni e cooperative “umanitarie”. In questi giorni, infatti, i terremotati si sono fatti risentire. Per loro sono scaduti i tempi e nonostante non abbiano migliorato le loro condizioni di vita dal 25 agosto 2016, lo Stato italiano chiede il saldo dei tributi a tutte le persone coinvolte nel terremoto. Ma non è finita! Se casomai non potessero saldare il debito possono contrarre dei prestiti, ovvero altri debiti, con le banche in maniera agevolata. E allora perché non usare il paradigma dei disastri naturali nelle metropoli del 2017?
Di cosa stiamo parlando? La giunta Raggi ha ricevuto, dopo lo sgombero di Piazza indipendenza, un’altra direttiva dal ministro Minniti secondo cui è possibile effettuare gli sgomberi solo se sono presenti soluzioni alternative per gli sgomberati. La giunta ha deciso, quindi, di indire un bando pubblico (tramite determina) che affida alle associazioni e organizzazioni umanitarie iscritte al Registro Unico Cittadino per l’Accreditamento, la gestione di un villaggio per sgomberati di 100 posti alla modica cifra di 800.000 euro per un anno. Ieri mattina siamo venuti a conoscenza che questo villaggio esiste veramente e sta lungo la portuense, verrà destinato esclusivamente alle fragilità e verrà gestito dalla Croce Rossa. In Italia ne abbiamo già diversi, oltre ai terremotati, ricordiamo come vengano usati nelle campagne del Sud per “ospitare” i braccianti.
Ma è possibile chiamare emergenza il bisogno di casa? E’ possibile chiamare emergenza ciò che provoca il taglio sistematico alla spesa pubblica? Noi abitanti di Roma immigrati, emigrati, autoctoni siamo forse colpevoli del dissesto finanziario del comune di Roma e del paese intero?
Non è questa la questione.
Forse dovremmo chiamare i “fenomeni” o le “emergenze” con il loro nome iniziando a non chiamarli fenomeni o emergenze ma eventi strutturali indotti dal capitalismo in crisi che nella Capitale punta ad espellere migliaia di persone dai quartieri in cui abitano utilizzando le stesse persone “fragili” come innesco per acquisire il consenso necessario all’espulsione. Parliamo di gentrificazione quella che tende “semplicemente” ad estendere la periferia e a ricominciare un ciclo di espansione edilizia.
La narrazione triste della stampa, salvo chi prova a fare un minimo di ricerca sui dati, ci parla delle vicende degli ultimi anni che si innescano nei nostri quartieri come delle fotografie fuori contesto. La rivolta contro il centro di accoglienza di Tor Sapienza, le vicende di Tiburtino III, i roghi del campo Rom di via Salviati, le occupazioni spontanee come via Vanina, via Costi e l’ex fabbrica della Penicillina, gli sfratti nelle case popolari, gli sgomberi delle occupazioni dei movimenti di lotta per la casa, le lotte della logistica, l’emersione di supermega centricommerciali e di immense sale giochi a cielo aperto: tutto questo sta nello stesso luogo quello che chiamiamo periferia e che nel caso specifico sta nel quadrante tra la Tiburtina e la Prenestina a ridosso del raccordo anulare. E’ un caso? Gli espulsi sono destinati ad andare fuori il raccordo dove è da parecchio tempo in corso la costruzione edilizia selvaggia che mangia ettari su ettari di terreno. Questo schema sintetizzato e banalizzato può essere d’altronde applicato in altre periferie, non tutte ovviamente, ma basta farsi un giro panoramico e trovare direttrici simili.
Il sindaco Raggi e a grappolo per emanazione i suoi assessori, non sono altro che piccole pedine a cui è stato chiesto di imparare i termini legalità e fragilità per consentirgli di dare una narrazione adeguata alle sue politiche di innesco della ormai, detta e ridetta, guerra tra poveri in funzione di tale meccanismo.
Tutto questo ambaradam viene gestito esclusivamente in funzione elettorale dal Movimento 5 stelle, dal Pd, dal centro destra, da Casapound e da Forza Nuova.
Quello che avviene nelle periferie e le politiche messe in campo, non da ultimo il caso di Ostia, non sono altro che giochi per loro per acquisire consenso. Anche qui, le televisioni hanno dato manforte, questa volta a Casapound, reggendo il gioco delle loro mani lunghe sulle periferie. Si prendono i soggetti più svantaggiati migranti e non, si criminalizzano, si vittimizzano, si costruisce lo spauracchio e l’innesco per cui la gente si sposta fisicamente da un lato all’altro della città e intanto si crea quell’opinione necessaria alla scelte delle urne. Gioco fatto 1.
Il tutto mentre palazzinari, imprenditori e banchieri si grattano la pancia e si godono lo spettacolo. Gioco fatto 2.
Varrebbe la pena di giocarla questa partita per sollevare il riscatto di tutte quelle persone che sono solo pedine utili a confermare un sistema fatto di profonde disuguaglianze reddituali e spaziali.
Partiti e partitini giocano letteralmente con le vite delle persone, con i loro affetti, con le loro relazioni, con le intere loro esistenze cambiandole di segno continuamente.
Non è solo una questione di essere poveri. Poveri siamo e poveri vogliono che rimaniamo. E’ una questione di recuperare quella fierezza di essere da questo lato della barricata e riconoscersi.
Come si fa? Sicuramente è difficile reclamare questo tipo di città, da questo lato, la metropoli è brutta, sporca e cattiva ancora una volta, semmai abbia mai smesso di esserlo. Sicuramente ci perprime rappresentare chicchessia per entrare nel gioco elettorale del consenso.
La sfida è complessa non c’è che dire.
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