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1 Maggio a Torino: cacciamoli tutti!

[Editoriale dello ‘Spazi Sociali’ che verrà distribuito in piazza a Torino domnica 1 maggio prima del corteo]

 

Il primo maggio che ci hanno preparato per quest’anno vorrebbe essere una sfilata pre-elettorale in cui precari-sudenti-lavoratori sono previsti solo come spettatori del passaggio di testimone da celebrare in pubblica piazza tra il sindaco delle Olimpiadi e chi si candida a sostituirlo.
Un filo giallo lega questi due personaggi, nella città che è stata teatro dell’ultima offensiva marchionniana: il prostrarsi supini al dettato del padrone, ancora una volta obbedienti ai voleri di Casa-Fiat, l’unico vero potere che conta in città, anche se si tratta di una multinazionale ben piazzata nei mercati finanziari globali, disincarnata dalle pesanti vestigia del passato modello produttivo.
Per un Chiamparino che si vanta di giocare a scopa con l’ad in maglioncino di cashmere, c’è già pronto un Fassino che avrebbe tanto voluto essere un operaio per dir di sì a “Fabbrica Italia”. A far da contorno, una folta schiera di funzionari sindacali in doppio petto, avvolti da un tricolore con cui si è appena legittimata una nuova operazione di guerra neo-coloniale.

Mentre in alcune province la Cgil compie la scelta  di sfilare senza i sindacati gialli Cisl e Uil, a Torino ci fanno sapere che tale opzione a casa nostra è decisamente fuori questione: c’è da festeggiare, “tutti insieme appassionatamente”,  i 150 anni dell’Unità d’Italia. Un’Italia, ci dicono, “unita dal lavoro”.

Quale lavoro?
Quello che non c’è o che quando si riesce a trovare è intermittente, precario, malpagato, soggetto a molti ricatti  e senza alcuna garanzia? Se è questo che dovremmo celebrare ne facciamo volentieri a meno e ci teniamo stretta la sacrosanta rabbia per affrontare un futuro  senza reali prospettive di miglioramento.
Checché ne dica l’attuale classe dirigente – o gli incapaci surrogati d’opposizione che pretenderebbero prenderne il posto -, non sembrano davvero esserci segni di ripresa all’orizzonte. Quale poi, sarebbe tutta da discutere…
Dallo scoppio della crisi dei mutui la situazione generale non sembra infatti per nulla destinata a migliorare.  Il quadro nazionale è palesemente bloccato tra pantano della politica e possibile recessione economica. L’unica promessa cui siamo obbligati a credere è quella di ulteriori e ancora più drastici tagli ad uno stato sociale sotto attacco da decenni. Ridotto al minimo il salario, vanificate altre ipotesi di accesso al reddito, gli avvoltoi del capitalismo nostrano si apprestano a sbranare anche il salario indiretto erogato fino a ieri sotto forma di servizi. Se la precarietà è stata la condizione normale degli ultimi due decenni, la povertà sembra essere il regno promesso per quelli a venire. Ministri del Lavoro e dell’Economia, del resto, già da qualche anno stigmatizzano i “riottosi” laureandi che pretenderebbero un lavoro ed un compenso adeguato al proprio livello di istruzione; che non a caso i nostri governanti si impegnano a smembrare e impoverire, alfine di devalorizzare una forza-lavoro sempre troppo scolarizzata. Per il padronato italiano, modello di riferimento dev’essere la manodopera immigrata sotto ricatto e senza tutela. disciplinata col bastone della clandestinità e la carota del permesso a punti. A chiudere il cerchio ci pensa un Berlusconi scampato ad ogni scandalo, abituandoci ad una comunicazione al giorno: una nuova guerra, l’annullamento di un referendum (anzi due), la non-rinuncia al nucleare mentre gli ordini li detta Sarkozy e il paese tutto viene trascinato in scelte che vanno contro i suoi stessi interessi strategici.

Se il paese è messo male, la nostra città non sta certo meglio.
Due mandati di Chiamparino ci hanno lasciato in eredità qualche colosso architettonico e molti debiti per lo spregiudicato uso dei derivati fatto dalla sua amministrazione. Il vantato sviluppo post-industriale si è limitato a qualche notte bianca, alla riverniciatura del  centro cittadino per le periodiche celebrazioni e alla pura e semplice speculazione immobiliare con lo stravolgimento delle “spine” e la valorizzazione del mattone. Anche nell’operosa capitale subalpina  il profitto si fa rendita, forma parassitaria di redistribuzione copiosa tra chi ha già tutto, mentre ai bordi dell’aristocrazia cittadina (banchieri, immobiliaristi, dirigenza amministrativa, alte sfere della Fiat, amministratori delegati… tutti amici del Chiampa!) prolifera un immenso esercito industriale di riserva in cui la differenza tra “mani callose” e nuovo proletariato intellettuale si fa sempre più sottile.
La cassa integrazione diventa la norma per i lavoratori dell’industria mentre, per la prima volta dal lontano 1993, anche il terziario perde pezzi significativi e metà delle cooperative che suppliscono al sociale smantellato dai governi rischia il fallimento. Rettori e amministratori vantano le politiche di investimento fatte su un università che si proietta sul territorio ma l’unico effetto che si tocca con mano è l’aumento delle tasse d’accesso e l’innalzamento degli affitti dei quartieri attraversati dall’ateneo diffuso.

Proprio quando tante dovrebbero essere le ragioni per scendere in piazza in forme decisamente non-rituali né compatibili, ecco che il sindacato sceglie invece, contro ogni logica (fosse anche quella della sua sopravvivenza – oggi non più scontata), di mantenere un profilo basso, accettare di sfilare insieme a chi ogni giorno firma contratti separati sulla testa dei lavoratori, in combutta con un padronato sempre più aggressivo e sfacciato. Le condizioni ci sarebbero tutte per un inasprimento dei toni e delle pratiche. Basterebbe iniziare a contestare la presenza pubblica di questi personaggi, sottrargli terreno d’agibilità e spazi politici, obbligarli a sentirsi presenza indesiderata per complicargli spazi di manovra e tanta sfacciata arroganza ammantata di “democrazia” e “libertà di scelta”. Si preferisce invece accettare i condizionamenti di chi sceglie la trattativa-resa, demandando a una politica sempre più sganciata dai bisogni quotidiani la regolazione di quanto perterrebbe alla minima lotta sindacale, fosse anche di mera resistenza. Del resto, quando il sindacato fa il sindacato lo si accusa di essere “politico” e poco pragmatico. E non c’è di nulla di cui stupirsi, dal momento che la stessa Cgil si limita ad indire uno sciopericchio “generale” di 4 ore a 6 mesi di distanza dalle richieste di una piazza che nell’autunno faceva presagire qualche potenziale sviluppo conflittuale. La principale organizzazione sindacale del paese sembra invece decisamente orientata a trattare con Confindustria una riforma della contrattazione collettiva in nome di un “contratto leggero” a tutto vantaggio del padronato, relegandosi a struttura di servizio, secondo la strada già battuta dai collaborazionisti di Cisl e Uil.

Noi abbiamo altri programmi! Non scendiamo in piazza questo primo maggio per applaudire il nuovo candidato sindaco del centro-sinistra né per accettare silenti la provocazione di chi porta avanti ogni giorno il proprio operato corrotto di svendita dei diritti, in cambio di una poltrona e qualche clientela.
Partecipiamo a questa giornata per ribadire la nostra opposizione intransigente di precari-studenti-lavoratori, uomini  e donne, a chi ci propone null’altro che un futuro di miseria e rassegnazione, convinti che solo il conflitto – e non la trattativa o gli accordi-  è motore reale di trasformazione.
Solo la lotta paga! Oggi come ieri non c’è altra lezione da trarre. Siamo qua per ribadirlo, riaffermando un programma di antagonismo sociale, autonomia da partiti e istituzioni, contro-potere da organizzare. Davvero, non c’è altra strada possibile. Ce lo insegnano le popolazioni in lotta della primavera araba e i movimenti che si fanno strada imparando a lottare senza cedimenti né rassegnazione. Anche questo primo maggio, ripartiamo da qui per andare oltre.

 

Network antagonista torinese

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