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Un giornalista in una prigione turca

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Perché Erdogan lo teme?

Pubblichiamo la nostra traduzione di questo editoriale indipendente comparso sul Washington Post del 29/11/2018 a firma di Max Zirngast; giornalista e compagno arbitrariamente detenuto da mesi, assieme a tante e tanti altri, in Turchia sulla base di vaghe accuse di terrorismo – semplicemente perché critico nei confronti della dittatura dell’AKP.

Mentre la totalità del mainstream occidentale celebra la figura di Jamal Khashoggi –  giornalista assassinato dalla tirannia saudita proprio nello stato anatolico, a cui è stata dedicata la copertina annuale del Time – come martire della libertà di espressione, la vicenda non può e non deve oscurare la realtà di oppressione e tirannia che fanno della Turchia il principale nemico e carceriere al mondo della stampa indipendente. Oltre alla strumentalizzazione operata in proposito da Erdogan nel disperato tentativo di ribaltare in suo favore gli equilibri di potere regionali.

***

E’ iniziata come una normale perquisizione.

Poco prima delle 6 di mattina dell’11 settembre, la polizia antiterrorismo turca si è presentata alla porta del mio appartamento ad Ankara con un mandato d’arresto. Hanno scompaginato i miei libri, reperito alcuni titoli presuntamente incriminanti (in gran parte saggi politici sulla sinistra turca) e mi hanno preso in custodia. Ho provato a rimanere calmo – distaccato ma cortese – mentre mi portavano in commissariato.

Circa una decina d’anni fa mi sono calato per la prima volta nella politica della diaspora turco-curda in Austria, il mio paese natale. Mi sono trasferito in Turchia nel 2015 per continuare i miei studi universitari di scienze politiche e continuare a scrivere a riguardo – e a mettermi contro – il crescente autoritarismo nel paese. Negli ultimi anni sono stato co-autore di molti pezzi su pubblicazioni come la rivista socialista statunitense Jacobin, ho partecipato a manifestazioni in favore della pace e in genere ho cercato di premere per un paese più giusto e democratico.

Ma questa è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, e la mano pesante dello stato cala duramente su giornalisti, attivisti e studiosi dissidenti. In una nazione in cui persino le testate sono bersagli (negli ultimi due anni la Turchia ha ricevuto il losco primato di peggior carceriere di giornalisti al mondo), le mie azioni sono state sufficienti a mettermi nel mirino.

Da più di due mesi dal mio arresto sono ancora in una prigione turca. E non ho capi d’accusa. Questo articolo è il prodotto di lettere manoscritte che ho inviato alla campagna viennese che spinge per il mio rilascio. I miei due abituali co-autori, Guney Isikara ed Alp Kayserilioglu, hanno tradotto le lettere dal turco e, con l’aiuto del mio editor di Jacobin, Shawn Gude, le hanno assemblate in un op-ed [editoriale di opinione esterno alla redazione del giornale, in questo caso del Washington Post – N.d.T].

Nel mio primo giorno di custodia poliziesca non è avvenuto nulla di straordinario. Sono stato messo in una cella dove ho dormito su un pezzo di legno, con una coperta sottile e senza cuscino. Si congelava e avevo la luce in faccia tutto il giorno. Le razioni di cibo erano magre e gelide. In pochi giorni avevo lo stomaco sottosopra, crampi e diarrea.

Negli interrogatori di polizia e nella mia audizione dal procuratore ad Ankara, le autorità mi hanno chiesto conto dei libri che erano stati prelevati dal mio appartamento (incluso uno riguardante la politica kurda che, a torto, ritenevano avessi scritto io) dei miei presunti legami con la Friedrich Ebert Foundation (un gruppo socialdemocratico di patrocinio legale che ha una sede ad Istanbul ma con cui non ho alcuna affiliazione) ed un articolo che ho scritto per Jacobin (che sostenevano avesse insultato Erdogan). Hanno rifiutato di incriminarmi formalmente, mantenendomi invece in stato di arresto sulla base di vaghe accuse di terrorismo.

Il mio caso, ed altri come esso, contraddicono l’idea che Erdogan sia a qualsiasi titolo un sostenitore della libertà di stampa o dei diritti umani – un’immagine che ha cercato di coltivare sulla scia dell’assassinio da parte dell’Arabia Saudita del giornalista Jamal Khashoggi ad Istanbul. Il mio arresto è stato una perversa conferma dell’autoritarismo che ho passato gli ultimi svariati anni a raccontare e ad ostacolare.

Coloro che si battono per i diritti dei kurdi sono stati oggetto di una repressione particolarmente dura. L’ex copresidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP) Selahattin Demirtas è stato incarcerato da Novembre 2016 con accuse strombazzate di terrorismo; a Giugno ha corso per la presidenza dalla sua cella. Altri leader di partito sono stati imprigionati: il legislatore dell’HDP Idris Baluken, per fare un esempio, sta scontando una sentenza di nove anni per “propaganda terrorista”.

Anche i giornalisti sono rimasti invischiati nella tela dei pretesti antiterrorismo. Lo scorso Dicembre, il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) ha riferito che “ogni giornalista che il CPJ ha individuato essere in carcere per il proprio lavoro in Turchia è sotto investigazione, o incriminato, per reati contro lo stato, come verificato dal censimento dell’ultimo anno”.

A margine di questo giro di vite, le purghe dei presunti “gulenisti” (seguaci del predicatore in esilio Fethullah Gulen, che Erdogan accusa di aver architettato un fallito golpe nel 2016) sono continuate indisturbate. Nel carcere di massima sicurezza in cui sono prigioniero molti detenuti sono accusati di essere membri dell’ “organizzazione terrorista Fethullah Gulen”, come la chiama il governo. Ciò rispecchia la mia esperienza di quando sono stato incarcerato per la prima volta: c’erano due dozzine di soldati ed alcuni insegnanti, tutti gulenisti. In questi giorni chiunque non è gradito al governo può essere accusato di essere un gulenista (e/o un sostenitore del terrorismo). L’intero processo – dal fermo alla detenzione preventiva, fino al procedimento giudiziario – schiaccia i diritti umani basilari.

Questo tipo di smodata repressione non genera altro che rabbia e disperazione. L’attuale definizione di “terrorismo” da parte della Turchia e ciò che verrà distrutto in base a tale pretesto creeranno solamente maggiore animosità nei confronti del regime negli anni a venire.

Per quanto mi riguarda, quando gli ufficiali della polizia antiterrorismo hanno suonato alla mia porta in quel giorno di Settembre, sembravano in procinto di provare a zittire l’intera opposizione democratica ad Ankara.

Dovrebbe arrivare, un giorno, un’incriminazione formale – ma nessuno sa quando.

La cella in cui mi trovo ora è piuttosto sporca. Il gesso sul muro si sta sgretolando, ed il ferro è arrugginito. L’acqua del rubinetto è putrida. Il riscaldamento non funziona e gli ufficiali rendono proibitivo ricevere visitatori. Ci è tuttavia concesso del tempo per imparare lingue straniere, esercitarci e leggere. Trascorro i miei giorni a parlare con il mio compagno di cella e nelle letture sulla sinistra turca ed il fascismo.

Negli interrogatori la polizia si spende nel cercare di “capire” chi sia — di rimuovere gli strati superficiali e di trovare un qualche nucleo malvagio e nascosto. Ma non c’è nulla da capire. Sono un socialista ed uno scrittore. Ho sollevato la mia voce per una repubblica democratica ed ho sostenuto le lotte democratiche. Rivendico tutto ciò che ho fatto.

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