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Tutti ne parlano, nessuno li vede: “Quelli che se ne vanno”

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Per il giorno della Festa del Non Lavoro ci sembrava utile dare spazio a “Quelli che se ne vanno” non solo per analizzare la portata del fenomeno, inedito in alcune sue sfaccettature, ma per dare uno sguardo più imparziale a quello che rimane. Dopo dieci anni di crisi economica e politica abbiamo dato tanto spazio alle conseguenze, i populismi, la crisi della sinistra, qui ci interessa anche analizzarne le cause. Se qualcuno può avere dei dubbi se dopo le elezioni del 4 marzo si sia prodotta o meno, ancora una volta, la frattura storica tra Nord e Sud Italia; è vero che il Nord ha paura di aver perso ormai quegli elementi che lo distinguevano, che lo facevano area industriale, “sviluppata”[1], all’avanguardia dando, a nostro avviso adito, a fenomeni di sclerosi collettiva. Il Nord che ha paura di farsi Mezzogiorno.

Il libro di Enrico Pugliese[2], “Quelli che se ne vanno” analizza l’emigrazione italiana. Quella di cui tutti parlano e nessuno presta attenzione veramente, forse sperando che sia un fenomeno transitario. In questi ultimi anni, i politici di ogni provenienza l’hanno salutata come un fenomeno positivo di integrazione europea apponendo firme su firme ai vari trattati europei dal processo di Lisbona a quello di Bologna. In effetti, per loro, meglio milioni di giovani sparsi tra Francia, Inghilterra e Germania che milioni di disoccupati concentrati nel paese di origine. Se qualcuno ne ha parlato si rimproverava la cosiddetta fuga dei cervelli. Le menti più geniali e brillanti d’Italia hanno preferito spendersi altrove perchè troppo poco valorizzate e salariate. Verissimo, ma dai dati statistici sembra che questi siano solo il 30% dei giovani che lasciano il paese. Il 70% hanno un livello di istruzione inferiore alla laurea. Il testo ci spiega perchè l’emigrazione italiana verso il Nord o all’estero è, invece, per la maggioranza proletaria.

Ma prima di andare a fondo sulla composizione, a proposito di statistiche, il testo ci suggerisce come nella migliore tradizione italiana che i dati forniti dall’Istat appaiono sottostimati perchè si basano sulle cancellazioni alle anagrafe degli emigrati. Ci sono delle differenze sostanziali, infatti, se si mettono a confronto i dati Istat e quelli dei paesi di arrivo. Come sootolinea Pugliese, dal confronto risultano valori superiori al 400%. Secondo i dati Istat tra il 2008 e il 2016 hanno lasciato l’Italia circa 700.000 persone che probabilmente superano il milione se il dato Istat non fosse sottostimato. Ogni anno partano sempre più persone e ne tornano sempre di meno. L’Italia è all’8°posto della classifica mondiale per numero di emigrati preceduto da paesi enormi come la Cina e l’India e da paesi colpiti dalla guerra come la Siria.

Ma chi sono questi emigranti? La maggior parte sono giovani che a differenza della grande emigrazione intereuropea del secolo scorso sono alla loro prima esperienza lavorativa. La regione capofila da dove provengono gli emigranti è settentrionale, la Lombardia, da poco raggiunta dal Lazio. Un fatto inedito che da un lato vuol dire che l’emigrazione proviene anche dalla forte crisi dei distretti industriali del Nord, dall’altra che si è prodotta, secondo il sociologo, una sorta di emigrazione di rimbalzo. I Meridionali vanno nelle regioni del Nord come tappa intermedia per poi r-emigrare in Europa. Il Mezzogiorno come in passato continua ad avere “il ruolo di area fornitrice di manodopera necessaria per lo sviluppo delle altre regioni e per paesi stranieri allo stesso modo di mezzo secolo addietro all’epoca delle grandi migrazioni intereuropee quando a trainare l’economia e ad attirare immigrati era lo sviluppo industriale nella sua fase fordista”.

Ci sono delle differenze importanti da sottolineare. La prima che se, all’epoca, il lavoro degli emigrati ha trascinato il Sud permettendo l’uscita di queste regioni dalla miseria contadina, oggi, questo non è assolutamente dato. Nei paesi europei i giovani lasciano precariato per trovare altro precariato. Gli emigrati italiani sono quella componente della classe sulla quale si scaricano le difficoltà del mercato del lavoro delle economie avanzate. Sono i primi ad essere espulsi nei momenti di crisi. Infatti, l’Europa domanda lavoro a basso livello di produttività, a basso costo di lavoro e con una maggiore flessibilità. La maggior parte degli emigrati raggiungono l’Inghilterra, la Germania e la Francia. Tutti e tre i paesi fanno largo uso di contratti flessibili. In Inghilterra gli stranieri vengono assunti con il cosiddetto contratto a zero ore, in Germania con i mini jobs mentre in Francia sono recenti le riforme che deregolarizzano il mercato del lavoro, oggetto di grossi conflitti negli ultimi anni. Inoltre, è appurato da alcuni recenti studi che nei paesi europei, compreso il nostro, si è consolidata una discriminazione dal punto di vista lavorativo dell’origine nazionale. I settori dove per lo più sono occupati gli Italiani sono quelli della ristorazione e della sanità.

Il testo argomenta senza chiarire fino in fondo le motivazioni dell’emigrazione. Da spunti di ricerca da questo punto di vista. I motivi che rintraccia il libro sono diversi tra gli emigrati altamente scolarizzati e quelli che non lo sono ma un fattore sicuramente li accomuna: l’elevato livello di disoccupazione che ha spinto alla partenza più di ogni altro driver.

Lo Svimez aveva già avvertito dello tsunami demografico che stava portando questa emigrazione di massa dal Meridione d’Italia composta da proletari tanto quanto da cervelli in fuga. A differenza delle emigrazioni del ‘900, nei prossimi anni il meridione supererà il Nord per il basso tasso di natalità. Da questa emigrazione non ci sarà un ritorno di ricchezza né dal punto di vista delle risorse monetarie, né dei cervelli, né dal punto di vista dello “sviluppo”.

Dal libro che consigliamo di leggere, ci sorgono alcune riflessioni che sicuramente hanno necessità di essere approfondite. Il Nord Italia ha subito negli ultimi dieci anni quello che da sempre è stato il destino del Meridione. In pratica i meridionali hanno contribuito non solo allo sviluppo delle regioni settentrionali lavorando nelle fabbriche del Nord e partecipando al movimento operaio con tutto quello che ha comportato in termini di emancipazione sociale ed economica ma hanno contribuito anche attraverso le rimesse al miglioramento delle condizioni delle aree di partenza. Siamo stati il motore dello “sviluppo” dell’Italia intera. Il fattore su cui è necessario fare una riflessione è il seguente. Noi abbiamo contribuito in maniera forzata ad una modernità che non abbiamo scelto.

Ma nel ’92, dopo lo smantellamento progressivo della classe operaia avvenuto già in precedenza, lo Stato, la classe padronale e i sindacati hanno deciso di fare un patto e di trasferire progressivamente le risorse dal lavoro al capitale. Questo vuol dire che in Italia, al Sud come al Nord, non si fanno investimenti pubblici e/o privati in innovazione e tecnologia da allora. Alcune tesi economiche sostengono che se il costo del lavoro è basso non c’è nessun motivo per cui si debba investire in tecnologia. Quindi al di là delle paventate tesi sulla digitalizzazione, industria 4.0 ecc ecc, l’Italia è il paese della terza Europa di recente sorpassato anche dalla Spagna. Questo mancato investimento ha portato da un lato alla deindustrializzazione, all’esternalizzazione, ad una struttura produttiva obsoleta e agli scalini più bassi della gerarchia produttiva europea, dall’altro a subire la crisi come non mai che ha prodotto alti livelli di disoccupazione e l’emigrazione forzata. Come i paesi “sottosviluppati” per il mondo noi siamo i “sottosviluppati” d’Europa.

E allora una provocazione sorge necessaria: nordici come ci si sente ad essere i meridionali d’Europa? Il bisogno di sovranità leghista, la paura degli immigrati che arrivano in Italia, il bisogno di rimarcare ancora una volta la differenza con il sud[3] da dove arriva? Dalla sensazione di essere gli ultimi data dall’impoverimento generale e da questo punto di vista l’emigrazione ne è una conseguenza. Oggi come allora il problema è rifiutarsi di essere subalterni nel sistema capitalistico e nei nuovi assetti che questo si è dato. La meridionalizzazione diffusa del paese ci dovrebbe costringere a guardare a Sud e alle sue pratiche di resistenza passate e si spera future con più interesse. Se c’è però una aspetto che non convince di alcune tesi che vogliono fare del meridione un caso isolato è la seguente. Gli Operai di fronte al Capitale chi erano se non i meridionali di fronte al Capitale? Se una lezione l’operaismo ci ha dato è quella del soggetto che muove e si scontra, mette a nudo il capitale e i rapporti di produzione che questo sia operaio o meno. Allora lo era. Pensare di non aver fatto parte di questa storia non è possibile. Il Sud nel suo “sottosviluppo” voluto e indotto ne faceva parte interamente. Siamo stati e continuiamo ad essere parte di quella classe disgregata che viene strappata ai propri territori di origine a seconda delle esigenze del capitale. Resistere nei territori a questa usurpazione, a questo colonialismo che crea queste premesse è sacrosanto capirne le modalità sta nel soggetto che pratica resistenze e sfida il capitale.

Il testo “Quelli che se ne vanno” che ha suscitato queste riflessioni aiuta a chiarire ancora di più la gerarchia che ha creato il capitale dopo la crisi del 2008. Quella stessa che temevamo quando nello stesso anno abbiamo occupato le università di tutta Italia. La crisi si è dispiegata, ha approfondito i processi che erano già in atto e ci ha collocato in un certa posizione subalterna. Il punto sta proprio qui cogliere questa subalternità oggi, la dove il capitale non investe ma depreda. La dove non “sviluppa” ma indebita, la dove inquina e devasta i territori, la dove crea le condizioni per l’emigrazione di massa. Il tutto nella gerarchia globale della divisione del lavoro all’interno della quale, non ci siamo dimenticati ma meritano diversa trattazione, vanno inclusi gli immigrati che arrivano nel nostro paese e il ruolo delle donne nella riproduzione sociale. Tutti spunti aperti su cui dissentire, approfondire, dibattere. Buona lettura e buona festa del non lavoro. Qualsiasi cosa essa significhi oggi.

 

1 I termini “sviluppato” e “sottosviluppato” li metteremo tra virgolette per sottolineare il punto di vista capitalista del loro significato non certo il nostro

2 Puglese E. Quelli che se ne vanno, il Mulino, Bologna, 2018. Enrico Pugliese è professore emerito di Sociologia del lavoro della Sapienza ed è stato direttore dell’Istituto di Ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del CNR 

 

3 Ad esempio con tutta la retorica prodotta all’indomani del voto sul reddito che vederebbe ancora una volta i meridionali tacciati come scrocconi. Oppure la diffusione delle fake news sulle file per il reddito agli sportelli all’Inps ecc ecc

 

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