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Questione abitativa e politiche della casa

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Segnaliamo questo interessante intervento di Giustino Scotto d’Aniello su Volere la luna che fa il punto sulla condizione abitativa dopo la pandemia. Buona lettura…

1.

La questione abitativa, unitamente ad altri fattori determinanti, quali il lavoro, la salute e l’istruzione, si colloca sempre più tra gli elementi fondamentali per l’affermazione del diritto a una vita dignitosa per tutti. Il diritto all’abitare è stato affermato dalla Corte Costituzionale in molteplici sentenze e viene enunciato tra i requisiti caratterizzanti la socialità, in cui si realizza lo Stato democratico voluto dalla Costituzione. La Corte dei Conti, nella relazione che accompagna la deliberazione 3 agosto 2020, n. 9/2020/G, afferma: «A livello nazionale i bisogni abitativi, oggetto delle politiche abitative, non risultano dotati di un’espressa tutela costituzionale al pari di altri diritti come quello alla salute (art. 32) o il diritto al lavoro (art. 35), sebbene la giurisprudenza costituzionale ne abbia riconosciuto la valenza di diritto sociale attinente alla dignità e alla vita di ogni persona. Analogamente agli altri diritti sociali anche il diritto all’abitazione risulta, tuttavia, “condizionato” finanziariamente e non ha ottenuto, come accaduto invece per il diritto alla salute, una parametrazione in termini di livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale».

Di più. La questione abitativa è fortemente correlata con altre: per esempio con quella della violenza sulle donne. Quante sono le donne costrette a una convivenza forzata per l’impossibilità di un’autonomia abitativa e quante donne sole con minori a carico sono sottoposte a procedure di sfratto per morosità incolpevole, derivante da una precarietà economica che colpisce in modo drammatico la popolazione femminile? L’assenza di autonomia abitativa per le donne è una forma di violenza psicosociale molto grave che si sovrappone spesso a quella fisica e verbale. Segnalo, a tal proposito, che c’è, nell’analisi e nel metodo, il rischio di parcellizzare il bisogno abitativo. Il diritto all’autonomia abitativa attraversa tutte le categorie sociali. Pertanto bisogna affrontare la questione abitativa e le conseguenti politiche partendo dal principio, affermato da organismi internazionali e da molteplici sentenza, che il diritto alla casa è un diritto inalienabile della persona.

2.

Da tempo, in Italia, la crisi abitativa è vissuta in termini emergenziali, mentre è un dato strutturale del sistema economico, sociale e territoriale: con l’ampliarsi dei fenomeni di povertà sia relativa che assoluta, essa è fortemente intrecciata con la questione sociale, in modo più stringente in periodo di pandemia.

La crisi epidemica in atto avrà gravi conseguenze sulla condizione abitativa delle classi sociali più esposte alla crisi, non solo socio sanitaria, ma soprattutto economico sociale. Torna utile l’analisi di Marco Peverini (https://welforum.it/il-punto/emergenza-coronavirus-tempi-di-precarieta/emergenza-affitti-1-quali-misure-in-italia/) secondo cui: «In Italia il fenomeno della povertà è già significativo ben prima dell’emergenza: le famiglie in povertà assoluta in Italia erano nel 2018 il 7,0% del totale (1,8 milioni di famiglie), quelle in povertà relativa poco più di 3 milioni (11,8%), entrambi i dati in crescita rispetto agli anni precedenti. In questa condizione, mentre le misure di contrasto al contagio imponevano di rimanere in casa, a fronte di vecchie e nuove vulnerabilità economiche proprio il mantenimento dell’abitazione pone gravi problemi alle possibilità economiche di molte famiglie, specialmente per quelle che abitano in affitto, che è un settore già critico. Infatti, secondo Istat, se le famiglie in affitto sul totale italiano sono circa il 18,7% (quasi 5 milioni), quasi la metà delle famiglie povere vive in affitto (46,6%), un settore abitativo dove la povertà è dunque sovra rappresentata. Inoltre, la distribuzione dei redditi rispetto al titolo di godimento in Italia non è uniforme e le fasce basse di reddito tendono a essere molto più inquilini che proprietari: nel quinto di reddito più basso, quasi la metà delle famiglie sono in affitto; nel quinto di reddito più alto, meno del 3%». La società di ricerca Nomisma segnala, a sua volta, che «nel pre-Covid il ritardo sul pagamento dell’affitto era del 9%, mentre invece nel post salirà quasi al 40 e influenzerà la domanda delle famiglie».

Le organizzazioni sindacali degli inquilini e i movimenti base per il diritto alla casa, sono, con caratteristiche e modalità diverse, mobilitati per tentare di arginare la frana che si sta abbattendo e che aggrava la già complicata situazione sociale. Osserva ancora Nomisma: «Ci sono evidenze che nel settore dell’affitto la difficoltà a sostenere le spese abitative è andata progressivamente aumentando. Sul totale delle famiglie in affitto in Italia (dato che include anche gli inquilini delle case popolari, circa 700.000 famiglie, e dunque sottostima la difficoltà degli inquilini nel mercato privato) la quota di famiglie in disagio economico – il cui canone cioè supera il 30% del reddito – è più che raddoppiata dal 1993 al 2016, arrivando a circa il 35% del totale delle famiglie in affitto». Le spese abitative rappresentano ordinariamente un peso elevato sui redditi delle famiglie in locazione, dato confermato dal numero elevato di sfratti: nel 2017 – secondo i dati del Ministero dell’interno – sono stati emessi oltre 130.000 provvedimenti di sfratto, circa il 90% dei quali per morosità incolpevole e dunque per difficoltà economiche (con conseguenti oltre 50.000 richieste di esecuzione e 32.000 sfratti eseguiti). Il fenomeno ha vissuto un aumento tendenziale nel tempo e si caratterizza sempre più come elemento strutturale del sistema nazionale.

3.

Rispetto a vent’anni fa l’abitazione rappresenta di gran lunga la voce di spesa che è cresciuta di più in termini di incidenza sui budget delle famiglie. A Torino, tra le città con più alto numero di sfratti per morosità incolpevole e definita nel 2019 “capitale degli sfratti”, la difficoltà di accesso o ricollocazione delle famiglie sfrattate è determinata anzitutto dall’alto costo dell’abitare che, nel suo complesso, incide per il 31,5% delle spese delle famiglie, mentre gli acquisti alimentari pesano per il 15,4% e le spese per trasporti e comunicazioni per il 12,4%.

Il disagio abitativo è, poi, aggravato dalla carenza di offerta pubblica di edilizia popolare. Al riguardo è utile sapere che la prima realizzazione di case popolare nell’area torinese è del 1875 e riguarda i dipendenti dell’azienda Leumann; nel 1889 si registra, poi, il primo esempio torinese di “case operaie” pianificate, costruite dalla società di mutuo soccorso La Cooperante in lungo Po Machiavelli; ma è soprattutto negli anni ‘60 e ‘70 del Novecento (l’età della grande immigrazione nella Torino città-fabbrica) che, grazie alla mobilitazione sindacale popolare per il diritto alla casa, vengono edificate le maggiori cubature di edilizia popolare (Le Vallette, 1961; Mirafiori Sud 1965) e i quartieri popolari di corso Taranto (1965: a seguito del Piano per l’edilizia economica) e di Falchera Nuova (nei primi anni Settanta). Negli ultimi decenni, invece, l’edificazione di case popolari si è drasticamente ridotta e si assiste a una maggiore articolazione degli interventi (alloggi convenzionati, agevolati, housing sociale ecc).

Oggi, in Italia, la quota di abitazioni di edilizia popolare è pari ad appena il 3,3% degli alloggi; a Torino, secondo i dati ATC, ci sono 17.761 alloggi di edilizia sociale ed economico popolare. Sul totale delle abitazioni presenti in città, dunque, solo il 2,82% è di edilizia sociale ed economico popolare. Gli alloggi assegnati sono 16.844 a fronte di una richiesta di 30.519, che lascia senza risposta 13.675 domande di residenza a basso costo. Centinaia di alloggi vuoti, assegnati e non, restano vuoti per carenza di manutenzione, spesso ordinaria (fonte: Comune di Torino, documento revisione PRG). Aggiungo che le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato della nuova amministrazione torinese a guida Lo Russo (2021-2026) non contengono interventi al riguardo, per esempio con un nuovo PRG, diversamente da quanto previsto in grandi città europee come Parigi.

4.

C’è, in Italia, la totale assenza di una seria politica di edilizia sociale. La percentuale di edilizia pubblica, nei diversi modi in cui è realizzata, è tra le più basse in Europa. Giusto per fare un confronto, in Inghilterra la percentuale è del 17,6%, del totale degli alloggi, mentre in Francia si aggira intorno al 16,8%. Solo la Germania, con il 3,9%, si avvicina numericamente a noi, ma solo all’apparenza perché la Germania è caratterizzata da un mercato in cui chi vive in affitto supera il numero di chi vive in casa di proprietà e in cui non si professa la “religione” della casa di proprietà: esattamente il contrario di quello che avviene qui. L’inadeguatezza delle politiche abitative attivate in Italia, in confronto a quelle europee, è sottolineata anche dalla Corte dei Conti nella relazione riguardante i fondi di sostegno alla locazione riferiti al periodo 2014-2020. Siamo, dunque, in una situazione di deficit strutturale dell’edilizia pubblica (in particolare, dell’edilizia popolare), che non garantisce il passaggio da “casa a casa” richiesto da tutte le direttive anche europee. Ciò – secondo un’indagine del Forum Disuguaglianze e Diversità ‒ a fronte di una domanda inevasa di 650mila case popolari e di 50.000 sentenze di sfratto all’anno (fonte: Ministero degli Interni), il che mostra un patrimonio abitativo pubblico sufficiente a soddisfare appena un terzo del fabbisogno. Del resto, l’ultimo piano casa di edilizia popolare è stato il cosiddetto “Piano Fanfani”, approvato il 6 luglio 1948 (e poi seguito dal Piano INA-Casa approvato con legge 28 febbraio 1949, n.43). Il Piano si strutturava in due fasi, la prima dl 1949 al 1963 e la seconda dal 1957 al 1963. Una volta concluso, i vani realizzati furono circa 2 milioni per 350.000 alloggi. Il 70% delle abitazioni, poi, andò a riscatto.

Oggi, pur in questa situazione, il ritornello «ce lo chiede l’Europa» non viene recepito, paradossalmente, neanche dal PNRR e dall’ultima finanziaria. Nel Recovery Plan approvato dal Parlamento i fondi per l’edilizia pubblica sono stati ancora ridotti, rispetto a quanto previsto dalla bozza del Governo Conte. Alla rigenerazione urbana e al potenziamento del cosiddetto housing sociale sono dedicati 7,3 miliardi sugli oltre 220 totali: di questi solo 500 milioni (0,5, pari allo 0,5%) sono riservati all’aumento della disponibilità di alloggi sociali in senso stretto. Anche a Torino dobbiamo registrare l’affermarsi della tendenza nazionale che da molti anni vede gli interventi di edilizia popolare marginalizzati a favore dell’housing sociale (si veda il Piano Casa promosso dal Governo Berlusconi), che ha aperto le porte a nuove speculazioni, senza scalfire le cause del profondo disagio abitativo presente in città e più in generale in Italia.

A proposito di interventi speculativi tesi a sfruttare la crisi abitativa, basta citare Stefano Portelli (https://napolimonitor.it/draghi-mostri-e-cavalieri-i-fondi-speculativi-allassalto-delle-citta/): «Si chiama Rev Gestione Crediti, ed è il primo vero esempio di bad bank italiana, una strana creatura che può permettersi sia l’opacità del diritto privato che la libertà di movimento del pubblico: ha l’obiettivo di comprare tutti i crediti deteriorati delle banche, quindi gestire gli immobili che garantivano questi crediti. Tutti questi immobili vengono poi svenduti, e la differenza viene coperta con fondi pubblici. Proprio come la Sareb, la bad bank spagnola finanziata dall’Ue, la cui bancarotta ha fatto perdere milioni allo Stato spagnolo (tutti scaricati sui contribuenti), l’italiana Rev è garantita dal Ministero delle finanze attraverso Cassa depositi e prestiti. Insomma, lo Stato garantisce sia i profitti delle banche fallite che gli affari dei grandi fondi, usando i soldi pubblici per il bene di entrambi».

Le ultime difese sono cadute con le nuove grandi recinzioni degli anni Ottanta e Novanta. In Italia è stato proprio Draghi a completare la privatizzazione del sistema bancario pubblico, regalando i risparmi della popolazione a “fondazioni” poi magicamente diventate private. Poi Tremonti ha dato il via alle cartolarizzazioni dei beni degli enti previdenziali. E, infine, il Governo D’Alema ha smantellato le ultime protezioni pubbliche sulla casa: oltre ad abolire l’equo canone, cioè il controllo pubblico sugli affitti, la legge 431 del 1998 ha decretato la fine dei finanziamenti per costruire case popolari e per gli enti che gestivano quelle esistenti. In proposito è opportuno sottolineare che ancora oggi è aperto il grande capitolo dei fondi ex Gescal, pari a 2,5 miliardi (dico miliardi) di euro, vincolati per legge all’edilizia economico-popolare e depositati sul cc. n. 28128 della Cassa Depositi e Prestiti, e dei quali sono stati finora rintracciati appena 900 milioni. Ovviamente lo sblocco di tali fondi risolverebbe i problemi della casa popolare in tutta Italia e azzererebbe la storiella della carenza di fondi. Sull’argomento ci sono state, nel Consiglio comunale di Torino, richieste formali da parte delle allora consigliere Artesio e Montalbano, rimaste, peraltro, inevase. Sarebbe, dunque, quanto mai opportuna un’iniziativa dell’ANCI, la cui Commissione Politiche abitative è presieduta proprio dall’attuale sindaco di Torino, Stefano Lo Russo.

5.

Una ricerca della Rete Diritti in Casa di Parma è illuminante. Gli affitti crescono del 70%, nelle città anche del doppio. Perché, dunque, buttare soldi se con poco più mi posso comprare casa? Così milioni di famiglie si legano al sistema dei crediti bancari, il mercato dei mutui si gonfia a dismisura, le costruzioni aumentano, ma i prezzi delle case salgono. A quel punto, le banche smettono definitivamente di finanziare l’industria produttiva: il capitale ha bisogno di cittadini indebitati che paghino il mutuo, o l’affitto a chi paga il mutuo. Il capitale si butta sul mercato dei crediti, e diventa capitale finanziario. Quello che fino ad allora in Italia si chiamava “blocco edilizio” (la definizione è di Valentino Parlato del 1970) diventa il nuovo Real Estate Financial Complex, “complesso finanziario immobiliare”. Ne fanno parte anche le compagnie assicurative e i fondi pensione, a loro volta privatizzati; ogni capitale accumulato viene trascinato sull’investimento immobiliare. Una volta creato il nuovo mercato, il processo è quello classico: prima c’è la competizione tra i piccoli investitori, che credono sia aumentata la libertà; poi arriva il capitale finanziario, nelle mani di pochi, infine l’acquisizione massiccia da parte di un pugno di grandi monopoli global. Un lavoro recente coordinato da Simone Tulumello descrive le forme con cui la finanza globale è entrata nel sud Europa: i mutui, naturalmente, ma anche le assicurazioni sui mutui, la finanziarizzazione del social housing e del mercato degli affitti privati, la cartolarizzazione delle case popolari, gli investimenti sugli affitti brevi turistici e altre forme spurie di intreccio tra queste modalità.

Per l’Italia, però, sono cruciali anche i profitti sui fallimenti, sulla bancarotta delle imprese, sulle svendite del patrimonio pubblico per tappare buchi di bilancio. I fondi puntano sul mercato dei crediti deteriorati che già prima del Covid era il più grande d’Europa: figuriamoci ora. Con una pubblica amministrazione che non paga debiti né stipendi, le possibilità di fallimento si moltiplicano. Insomma, i “fondi avvoltoio” ‒ come li chiamano in Spagna ‒ sono riusciti a mettere in piedi sistemi diversificati per conquistare le città, nascosti dietro il loro muro, e sempre con l’aiuto dei loro partner istituzionali. Solo connettendo le informazioni si intravede il disegno generale. Grazie a una disponibilità finanziaria quasi illimitata, ed estremamente concentrata, i fondi non hanno bisogno di profitti immediati: puntano ad accumulare pezzi di città, senza curarsi troppo di cosa ne faranno. Si realizza così la previsione di Engels formulata in La questione delle abitazioni, dove, in polemica con Proudhon, metteva in discussione la tendenza alla proprietà della casa da parte dei lavoratori (correva l’anno 1817).

6.

 Ma torniamo all’attualità.

Il 27 marzo scorso, nonostante le restrizioni, in oltre 60 città d’Europa ci sono state mobilitazioni per la casa e per gli affitti. Di questa grande e trasversale mobilitazione, però, è al corrente solo chi vi ha partecipato. Giornali e televisioni non hanno coperto questi eventi in nessun paese, neanche in Germania, dove pure si sono mobilitate decine città. C’è bisogno ancora di tanto lavoro per connettere le lotte di paesi e gruppi sociali differenti: chi occupa, chi ha un mutuo, chi vive in affitto, chi è assegnatario, chi è senza casa. Eppure, proprio il contesto pandemico ci aiuta a costruire un quadro comune di analisi, e quindi di azione. La frammentazione tra i movimenti per la casa non è mai stata così grande: sindacati, reti e collettivi si sono specializzati, chi sulle occupazioni, chi sulle case popolari, chi sugli affitti, chi sui senzatetto; e di questa divisione approfitta la finanza internazionale, che un po’ alla volta si prende tutto. Ma proprio perché la minaccia è ovunque, diventa più chiaro che le varie battaglie sono tutte fronti della stessa lotta. La concentrazione di capitali non è mai stata così forte. I grandi fondi speculativi, con risorse incomparabilmente più grandi delle banche o dei piccoli speculatori locali, hanno piazzato i loro uomini al centro delle istituzioni di tutti i continenti. La crisi sanitaria e i nuovi finanziamenti europei sono l’occasione per decretare l’ennesimo stato di emergenza (prima erano l’inflazione, il debito pubblico etc.) che autorizzi nuove speculazioni. Questo stormo di avvoltoi sorvola le città, in cerca di prede…..

A Torino la Giunta Appendino ha continuato con la politica di alienazione del patrimonio immobiliare comunale. La stessa Giunta ha prodotto le linee di indirizzo per la revisione del Piano regolatore, dalle quali risulta che, nel 2018, il numero degli alloggi disponibili in sovrannumero rispetto alle famiglie residenti era di 53.390. Il dato ci mette davanti alla grande contraddizione del mercato immobiliare: case senza famiglie e famiglie senza case. Molti di questi alloggi sono di proprietà di grandi imprese che hanno costruito in regime convenzionato utilizzando risorse pubbliche, tanto che su queste il Comune di Torino potrebbe far scattare la clausola di prelazione nell’acquisto a prezzo agevolato.

E se a Torino facessimo come a Berlino dove la mobilitazione referendaria finalizzata all’esproprio degli alloggi vuoti di proprietà di grandi gruppi speculativi si è affermata per porre un freno al caro-affitti (con canoni quasi raddoppiati [+85%] tra il 2007 e il 2019) incompatibile con lo status socio economico di gran parte della popolazione, prodotto dalla cancellazione dei provvedimenti comunali tesi a regolamentare gli affitti? D’altronde lo stesso La Pira, sindaco democristiano di Firenze nel dopoguerra, teorizzò l’uso di strumenti straordinari per far fronte a situazioni straordinarie. Domanda: cosa c’è di più straordinario di una ondata di sfratti che coinvolge migliaia di nuclei familiari incolpevoli?

Negli ultimi tempi, scorrendo i titoli sulle maggiori testate italiane, scorgiamo una nuova attenzione per la “questione abitativa”. Alcuni esempi: “Arrivano 3000 sfratti in provincia di Torino: una bomba sociale pronta a esplodere” (La Stampa, 27 settembre 2021); “Dal primo ottobre potranno essere eseguiti gli sfratti congelati per l’epidemia. Torino, tremila famiglie sfrattate dal primo ottobre: finita la tregua Covid è emergenza casa” (la Repubblica, 25 settembre 2021); “Caro affitti a Berlino vince il sì al referendum per l’esproprio ai colossi immobiliari: il 56% a favore” (Il Fatto quotidiano, 27 settembre 2021). A ciò si affiancano inchieste radiotelevisive sul tema dell’emergenza abitativa in Italia. Tutto questo avviene in una situazione di drammatica assenza di una politica abitativa volta a prevedere il passaggio da casa a casa, dato trasversale che riguarda l’intero Paese. I titoli riportati, riprendono due casi tipo: Torino e Berlino. A prima vista essi sembrerebbero collocarsi su due poli opposti, per le diverse caratteristiche del mercato immobiliare. A Torino, infatti, come nel resto d’Italia, le tendenze del mercato abitativo sono piuttosto chiare e consolidate: negli ultimi decenni si è assistito, quasi ovunque, a un progressivo passaggio dall’affitto all’acquisto della casa. Ad esempio, se nel 1951 la gran parte dei torinesi (83,8%) viveva in un alloggio affittato (a Milano addirittura l’87,1%), tale quota si era ridotta al 64% nel 1971, al 42,1% nel 1991, al 32% nel 2001 e al 28,4% nel 2011, attestandosi a circa il 20% nell’ultimo decennio. Al contrario, a Berlino l’80% dei nuclei familiari risiede in alloggi in locazione. Cosa accomuna, dunque, due situazioni apparentemente così diverse? La risposta sta nella contraddizione storica dello sviluppo urbano nelle società a capitalismo avanzato: migliaia di alloggi vuoti con migliaia di famiglie senza casa o con gravi difficoltà a permanere. A Berlino si chiede l’esproprio di 220.000 alloggi vuoti di proprietà dei grandi gruppi finanziari e a Torino – come già detto – si contabilizzano 54.000 alloggi formalmente vuoti (in parte utilizzati per studenti, turismo ecc).

A Berlino il tentativo di risposta all’emergenza abitativa è lo strumento dell’esproprio che si fonda sull’articolo 14 della Costituzione tedesca («La proprietà impone degli obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene comune. L’espropriazione è ammissibile soltanto per il bene della collettività. Essa può avvenire solo per legge o in base a una legge che regoli il modo e la misura dell’indennizzo») analogo a diverse disposizioni della Costituzione Italiana. In sintesi: la soluzione della contraddizione espressa nello slogan “famiglie senza casa / case senza famiglie”, risolutiva della carenza di alloggi pubblici utili al passaggio da casa a casa dei nuclei in emergenza abitativa (che è la punta di crisi di un deficit strutturale delle politiche abitative pubbliche), sta nella risposta di Berlino.

7.

Sarebbe a questo punto utile mettere in atto una linea di apertura ad ampio raggio, con l’obiettivo di costruire una vasta e articolata coalizione per il diritto all’abitare che coinvolga sindacati, associazioni, movimenti, comitati locali e istituzioni di base (comitati di quartiere etc…). Gli effetti della pandemia su lavoratrici e lavoratori e sulle loro famiglie faranno crescere il bisogno di sostegni per il pagamento degli affitti o di soluzioni abitative maggiormente sostenibili per coloro che si trovano più in difficoltà. Per questo servono nuovi e maggiori investimenti pubblici sull’edilizia sociale e occorre agire per sbloccare il patrimonio edilizio inutilizzato in modo da aumentare il numero di case a disposizione, a favore di tutti coloro che ne hanno necessità. E occorre accelerare le procedure di assegnazione degli alloggi Atc, ad oggi troppo lente, ampliare il patrimonio di edilizia residenziale pubblica, anche recuperando gli alloggi vuoti, e ridurre il numero degli alloggi sfitti attraverso convenzioni pubblico-private: sia per mettere a disposizione abitazioni a prezzi accessibili (accordi territoriali) per coloro che si trovano più in difficoltà, sia per contrastare fenomeni di occupazione abusiva.

L’emergenza abitativa che coinvolge le migliaia di famiglie sfrattate ha bisogno di interventi immediati tesi ad assicurare il passaggio da casa a casa. Non si possono aspettare né la realizzazione di piani futuri, pur apprezzabili, di “rigenerazione urbana” né i recuperi di stabili che hanno tempi non compatibili con l’esigenza drammatica delle famiglie sottoposte a procedure di rilascio definitive. Gli strumenti oggi attivi hanno dimostrato la loro inadeguatezza. E vanno riformulato le norme regionali e comunali che tendono, di fatto, a escludere più che a includere. È esemplare, seppur relativo a un caso particolare e limitato, il caso che ha visto la Regione Piemonte soccombere in Tribunale di fronte al ricorso, sostenuto dall’ASGI, di un cittadino straniero escluso dalla possibilità di accedere a una casa popolare per carenza di documentazione originale comprovante la mancanza di proprietà nel paese di origine (analogo a quello dell’anzianità di residenza utilizzata, nella Regione Valle d’Aosta, per ostacolare il diritto a partecipare ai bandi sia per l’assegnazione che per il fondo di sostegno alla locazione).

Parafrasando lo slogan fascio leghista «Prima di tutto gli italiani», direi «Prima di tutto il diritto».

È la relazione introduttiva dell’incontro “Questione abitativa e politiche della casa a Torino”
organizzato il 27 novembre da Volere la Luna e Comunet-Officine Corsare.

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