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Quando si spengono i riflettori dei grandi eventi (1) – Rio de Janeiro tra fantasmagorie globali e guerra ai poveri

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 Il Brasile è attualmente scosso da una grave crisi economica e politica. Una profonda recessione già intuita da molti anni, induritasi con le politiche di Ajuste (“austerità”) degli ultimi governi, aggravata dalla crisi del modello estrattivista per lo sviluppo del paese (dovuta anche al crollo del prezzo mondiale di molte materie prime come il petrolio e il ferro) e da un sistema politico la cui corruzione era stata portata in luce già dal movimento del 2013 (ed è tutt’ora in corso una sorta di Tangentopoli in salsa brasiliana). Questa crisi si muove dunque sotto traccia da tempo, ma è esplosa in modo evidente con la fine delle Olimpiadi dello scorso anno. Come spesso accade tuttavia l’attenzione globale per il Brasile (paese dei BRICS a traino cinese dell’ultimo decennio e ospite di un decennio di grandi eventi globali) si dissolve una volta che si spengono i riflettori di questi ultimi. Un nostro redattore che sta trascorrendo un periodo a Rio de Janeiro, da sempre porta sul mondo del Brasile e vetrina del governo federale durante gli scorsi anni, ci riporta alcuni sguardi e riflessioni sulla realtà attuale in quella metropoli. Pubblichiamo la prima puntata di questo reportage.

 

 

Non è semplice trovare le parole per Rio, a meno che non ci si voglia limitare alla patina delle cartoline turistiche. D’altro canto anche quando nel 1502 i primi europei sbarcarono qui lo spettacolo deve averli disorientati. Nell’imbarcazione portoghese (dove era presente anche Amerigo Vespucci) che avvistò le spiagge oceaniche oggi chiamate Copacabana, Ipanema, Leblon ecc…, i primi colonizzatori diedero a Carioca (da “kara’i oka”, nel linguaggio indigeno dei Tupi “casa dei carijó”, una popolazione nativa) il nome di Rio de Janeiro, “fiume di gennaio”. La dicitura riprende infatti il mese del loro arrivo all’inizio del XVI secolo, ma porta in sé l’unico elemento naturale che manca su grossa scala a questa città. Il grande corso d’acqua che sfocia nell’oceano, scambiato per un fiume, è infatti l’imponente baia di Guanabara, dove attraccarono i portoghesi. Ma ciò non sminuisce certo questo luogo baciato dal mare, che contiene una serie di grandi lagune a pochi metri dalle spiagge con le forme più insolite, l’immensa foresta Tijuca che lambisce tutto il lato ovest dividendo la città tra il sud ricco e il nord povero, piccole isole rocciose che spezzano la linea dell’orizzonte, e spazi piani fittamente punteggiati di ripidissime colline di pietra. Due di esse, le più alte, svettano viste dall’oceano e sono state colonizzate nel primo Novecento con il famoso Cristo Redentor e con una funicolare turistica. Tutto il resto delle cime è invece stato conquistato da os pobres, che ne hanno fatto le loro abitazioni e i loro grattacieli naturali.

Tutte le città sono territori in tensione, le loro pietre sono pregne della memoria di continue contese e posizionamenti. Sin dalle antiche polis Platone parla delle città come del campo di conflitto tra ricchi e poveri. Ma se nella maggior parte delle città del mondo oggi il pendolo di questa lotta millenaria tende dalla parte dei primi, con i secondi spesso relegati nelle periferie o ghettizzati, Rio racconta un’altra storia. Quella di un contrasto non risolto, più che mai attuale. La costante spinta dei poveri all’appropriazione di parti “centrali” di città continua a configurarsi come lotta aperta. Basta uno sguardo per vedere il contrasto tra le colline ricoperte di case auto-costruite e le parti basse della città fatte di grattacieli e palazzi (morros vs asfalto). Nelle favelas vive il 22% popolazione, tanta quanta gli abitanti di Roma, in una città dove il 50% delle abitazioni sono illegali (favelas occupate o case costruite su terreni irregolari). Lo si comprende girando per Morro (collina) da Providência, la favela più antica (fine Ottocento), dove i bambini giocano in mezzo a squadre di polizia militare coi fucili spianati. Si chiamano UPP ossia, con una evidentemente involontaria ironia e con un forte sapore orwelliano, Unidade de Polícia Pacificadora. Forse è anche per questo che è tanto difficile trovare le parole adatte per questa città, perché c’è bisogno di concetti divisi, esagerazioni, di tagli…

Già gli antichi romani dicevano che è possibile “fare il deserto e chiamarlo pace”, ma non è per forza o solo col dispiegamento militare che si può raggiungere questo risultato. Aggirandosi per le strade di Porto Maravilha quando, in queste giornate di inverno tropicale, cala presto il buio, si rimane colpiti dall’assenza pressoché totale di persone. Quest’area di oltre cinque milioni di metri quadri, di cui Providência fa parte, è al centro di uno dei più grandi progetti di “rigenerazione urbana” di tutta l’America Latina. Anche l’attuale presidente USA negli scorsi anni è corso qui per costruire una Trump Tower, e le sue nuove architetture firmate da varie archistar hanno fatto da sfondo alle Olimpiadi dello scorso anno e accompagnato il decennio di eventi globali svoltisi a Rio a partire dai Giochi panamericani del 2007, il lungo decorso del wannabe gobal city col quale, mi dice Humberto, Lula “ha venduto Rio al mondo”.

Luis Gabriel, Coordinador de Planejamento Local che incontro nella sede della Prefeitura di Rio, mi spiega che questo “sogno” è iniziato a costruirsi a partire da quando nel 1994 venne introdotta una nuova moneta di cui lo Stato riesce ad avere il controllo, il real, che riesce a stoppare un’inflazione impazzita. “La stabilità così acquisita ha consentito di pianificare una dimensione futura, che prima era impossibile … dopo questo il paese ha uno sviluppo enorme, un cambiamento di mentalità pazzesca … si incomincia a sognare … vogliamo farci vedere nel mondo”. Poi “il petrolio ci ha portato tantissimi soldi, Rio è molto legata all’esplorazione di petrolio”, e quindi “c’erano i soldi, e si diceva che si poteva fare tutto”. Poco dopo si inizia quindi a progettare il decennio dei grandi eventi, perché inizia a diffondersi l’idea che “ora siamo diventati uno stato moderno, siamo urbani, abbiamo finalmente fatto la società industriale … vogliamo fare il salto al post-industriale”. “Giravano davvero molti soldi, il problema è che oggi non ce ne sono più…”.

È quanto con altre parole mi racconta Nino, un tassista napoletano che mentre mi porta a casa ha voglia di sfogarsi, dicendomi che è pentito di essere venuto a Rio: “qui è finita”. Oggi la crisi economica, sociale e politica che attraversa il Brasile – e il più generale tramonto dei “governi progressisti” e del cosiddetto “socialismo del XXI secolo” latinoamericano – sta, secondo molti abitanti, facendo tornare indietro di vent’anni la situazione, con l’esaurimento dello sviluppo urbano con gli steroidi che ha gonfiato la città. O meglio: la crisi c’è già da anni – ed era stata segnalata dalle piazze che nel 2013, partite con le proteste del Movimento Passe Libre (per la gratuità dei trasporti), si erano quindi rivolte contro la Coppa del mondo del 2014 (Não vai ter copa) e per una serie di altre istanze. Ma finora la vetrina internazionale era servita in qualche modo a nasconderla sotto il tappeto. È anche questo che mi dice Alexandre mentre chiacchieriamo al settimo piano dell’UERJ, l’università statale di Rio. “Oggi stiamo abitando le macerie del sogno che ci hanno venduto per anni”, quando un blocco trasversale di politica, media, imprese, istituti giuridici e finanza ha costruito un mito del progresso verso il Primo mondo paragonando Rio a Barcellona e alle grandi metropoli occidentali. “Ma è stata solo una grande economica del saccheggio… Il Parco olimpico dopo aver chiuso l’anno scorso è rimasto deserto e decadente!”, un po’ come il Maracanã, il grande stadio proprio a pochi metri da qui che ha costi di manutenzione ormai insostenibili ed è dunque all’abbandono. E mentre si finanziavano queste opere, l’università rimaneva spesso senza stipendi, senza luce e pulizie, in questo complesso di grandi edifici in cemento grigio, che visti dall’androne delle scale senza pareti né finestre sembra un immenso parcheggio. Un po’ la sensazione che si respira a Fundao, immenso campus a nord, dove si passeggia tra gli scheletri di grandi edifici per la cui costruzione sono terminati i fondi, palazzi dei quali alcuni piani lo scorso autunno sono stati inceneriti da un incendio e tutt’ora sostituiti da container vicini a pozze di puzzolente acqua infetta e sui quali ramifica la flora tropicale e rumoreggiano svariati animali.

Incontro Roberto, un attivista nero della Central de Movimentos Populares che si occupa di diritti lgbtq e per il diritto all’abitare, poco dopo la sequenza di ex-magazzini del porto ora ristrutturati per attività commerciali e culturali con le facciate ricoperte di murales commissionati dai gestori del progetto Porto Maravilha. Siamo ai piedi di Providência, poco più in là di dove si erge, assolutamente estranea, la stazione di partenza della funicolare che dovrebbe condurre in cima alla collina. Per costruirla hanno sgomberato decine di famiglie e abbattuto molte case, creando per la prima volta degli homeless all’interno di una favela (anche se anche qui l’intelligenza dei poveri non manca di lasciare il suo segno, con piscine per bambini costruite sulle fondamenta delle case abbattute ad esempio). Ma di fatto la funicolare ha funzionato solo per pochi mesi, mi dice Roberto con un sorriso amaro. Prima di arrivare nel luogo della chiacchierata, un capannone col tetto di lamiera mezza accartocciata sotto al quale vivono sei famiglie che hanno eretto con pochi materiali di fortuna una provvisoria abitazione, passo per un altro capannone con un grosso cortile. C’ero già stato sabato per una festa dei movimenti per l’abitare, al suono del Funk, la tipica musica delle favela. Ora invece fuori c’è un piccolo braciere dove arde legna verniciata che sparge un pessimo fumo, mentre all’interno si sentono rumori di seghe e saldatori. Sei persone stanno costruendo dei grandi scheletri fatti di tubi su una base a quattro ruote. Sono le strutture dei carri che serviranno per il futuro carnevale. Mi spiegano che l’organizzazione del carnevale è una delle principali attività delle favelas durante tutto l’anno.

Lo capisco anche quando una notte incontro un bloco, una sorta di pazza orchestra di strada di centinaia di persone che si muove facendo le prove (siamo ad agosto!) per il futuro carnevale. Fiati timpani tamburi acrobati canti percussioni coordinati da un fischietto e da una organizzazione per gruppi con una netta maggioranza di donne, un bloco nero blanco e mestizo dove ci si perde nel vorticare dei volti e il coinvolgimento della danza sprizza un’empatia che le strade faticano a contenere. Gizela dice che queste attività hanno anche un forte senso di rivalsa, perché fino a pochi decenni fa la samba o la capoeira, espressioni della cultura popolare e dei neri (“non dei poveri”, dice lei, “noi siamo impoveriti… Non siamo marginali, ma marginalizzati, non siamo criminali, siamo criminalizzati!”), erano sostanzialmente vietate. Quelle sonorità che hanno tratti in comune col blues del sud statunitense o con la musica caraibica, ma senza quella vena malinconica, accompagna dunque durante tutto l’anno la vita di molte comunità, fino a trasformarsi in tripudio collettivo nel Carnevale (durante il quale il Comune distribuisce gratuitamente cinque milioni di preservativi).

È in luoghi come questo che si costruiscono alcune delle venature invisibili di Rio, dove si formano i gruppi musicali che nel week end vanno a esibirsi nei locali dai soffitti bassi e palpitanti di Lapa che in modo allucinato ricordano i pub popolari di Belfast, o anche nei quartieri bene del “centro”, dove però (cosa rara in altre città) viene gente anche da aree sociali diverse. Come a Urca, dove davanti a ristoranti chic gruppi di persone improvvisano grigliate pescando nella baia con casse di birra portata da casa. Eppure negli ultimi anni tanti spazi analoghi sono stati violentemente sgomberati dalla polizia per far posto alla “rigenerazione” del porto, ed è anche per capire queste dinamiche che dopo aver salutato Roberto salgo sulla nuova linea di tram per andare a intervistare il presidente del CDURP, l’ente pubblico che sta gestendo il nuovo progetto urbano. Sono poche fermate su questo mezzo (che mi verrà più volte detto con orgoglio “È molto da moderna metropoli europea vero?”) a separarmi dalla sede del CDURP, ma lo scarto è radicale. Vengo accolto in una sala riunioni aziendale, e mentre un cameriere serve acqua e caffè provo a fare alcune domande, ma il presidente mi dice che tutte le risposte sono contenute in una serie di slide sul progetto urbanistico che immediatamente mi mostra, elogiandone i pregi. Finita la presentazione gli chiedo se è a conoscenza del fatto che molti progetti analoghi hanno prodotto più che altro debito pubblico e spazi per turisti, al prezzo dell’espulsione dei ceti popolari. Mi risponde in due parole che non conosce gli altri progetti simili a livello globale, e che in effetti quel rischio c’è, per poi salutarmi calorosamente e lasciarmi con due suoi sottoposti, che si dicono sbigottiti di come è stato gestito il piano di allontanamento di molte famiglie ora rimaste senza casa, ma che la colpa non è loro… E queste sono cose delle quali in molti non hanno nemmeno il sentore, come la coppia di italiani che incontro una sera ad Urca, che mentre beviamo mi dicono “prima era così brutto là, pericoloso, ora si può andare a fare un sacco di feste e a vedere delle mostre!”. Loro comunque, arrivati qui alcuni anni fa assieme a molti altri lavoratori europei in cerca di fortuna nel periodo dei grandi eventi, stanno pensando ora di andarsene da Rio.

La maggior parte delle rimozioni, mi dice mentre lo intervisto in un bar di Glória l’ex presidente del CDURP, che ha parecchi sassi da togliersi dalle scarpe, sono state promosse per fare spazio a nuovi circuiti di trasporto. Non solo al porto ma in tutta la metropoli. E non a caso alla BNDES, la banca pubblica per la gestione del finanziamento delle politiche federali, mi dicono che due dei principali dipartimenti al suo interno sono quelli per la Mobilità urbana e per la Logistica. Muoversi per la città è oggi semplice se si hanno abbastanza soldi per potersi comprare e ricaricare di continuo la Rio card, che dà accesso ad autobus, tram, metropolitana e alcuni treni. Ma questo ovviamente non vale per molti, e oltretutto tale sistema si limita a quelle aree che Rolando mi descrive come “la bolla”, le zonas sul della metropoli che vanno dall’oceano a downtown. Proprio qui però, nella stazione Central, arrivano ogni giorno per lavorare circa due milioni di persone principalmente dalla zona norte, in treni sgangherati e affollatissimi dove a volte bisogna abbassarsi per schivare i proiettili… Come tutte le metropoli Rio funziona infatti come una spugna, assorbendo lavoratori durante il giorno e rilasciandoli la sera, con alcuni di loro, i più poveri, che spesso trascorrono le notti all’aperto nelle piazze di Flamengo e Catete per tornare a casa al nord solo nei week end. Sono le due metropoli in cui è divisa Rio. E non è un caso che proprio sui trasporti si sia costruita parte della legittimazione delle milicia, soggetti paramilitari che spesso controllano le favelas in opposizione al narcotraffico (o meglio, in un intricato sistema di rapporti con esso e la polizia, considerando che molti dei loro membri sono poliziotti e pompieri). Sono infatti dei piccoli autobus gestiti da loro a facilitare spesso il trasporto da molte favelas altrimenti sconnesse dal resto del tessuto urbano. Così come molti altri mezzi di trasporto si affiancano a essi con costi ancora più contenuti, come ad esempio le fermate dei moto-taxi che spesso si trovano all’imbocco delle favelas.

Anche qui bisogna scavare un po’ sotto la cortina per comprendere ciò che accade realmente. Me lo spiega X, un poliziotto della Polícia Civil, che ascolto a un dibattito di un partito di sinistra. Qui ha affermato: “Non esiste un momento nella Storia in cui gli apparati di sicurezza pubblica abbiano funzionato per la trasformazione sociale! Chi dice questo rispetto alle UPP está mentindo! Questa è stata una politica non a favore, ma contro i poveri!”. All’uscita lo fermo per chiedergli un’intervista, ma dopo un po’ di chiacchiere mi dice: “Ora spegni il microfono, che queste cose non le puoi registrare”. “Vedi”, mi dice quindi, “il punto è che la militia e l’UPP sono la stessa cosa!”. Queste “unità di pacificazione” sono state introdotte nel 2008 dal governatore dello Stato di Rio Sérgio Cabral Filho, dopo una campagna elettorale che si rifaceva alla “tolleranza zero” di Rudolph Giuliani. Presentata come “polizia di prossimità” in discontinuità con le brutalità del passato, e appoggiata da molti sociologi e dalla sinistra, l’UPP in realtà rappresentava “un progetto governamentale per l’occupazione militare della favelas”. “Vatti a leggere quello che scrivevano sui giornali di São Paulo nel 2008 Agamben o Mike Davis, l’avevan già capito!”. “Ed è stato un progetto transnazionale! Vatti a guardare ad esempio il Plan Colombia pagato dagli Stati Uniti, è la stessa cosa per le favelas di Bogotà! Col discorso della sicurezza e dell’intervento umanitario si va nelle zone dei poveri e le si occupa per garantire o negócio!”. “La UPP e la militia è la stessa cosa”, ripete, “nelle zone più povere delle favelas c’è lo spaccio, ma per il resto la militia rappresenta il governo, sono gli imprenditori delle favelas. Gestiscono i trasporti, il real estate delle favelas, le forniture di gas…”. Detto da un poliziotto, tutto ciò fa una certa impressione…

[continua…]

 

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