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Lo sviluppo ingestibile delle metropoli attuali

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Proseguiamo con la pubblicazione degli interventi registrati durante la presentazione dell’ebook “Città, spazi abbandonati, autogestione”  tenutasi a Bologna il 15 febbraio scorso. I contributi sono sia recensioni dell’ebook sia contributi importanti di dibattito al fine della costruzione del convegno “Per una critica della città globalizzata”, lanciato dal Laboratorio Crash! per i prossimi 30 e 31 maggio, dove si intende provare collettivamente a tracciare alcune coordinate protese a orientarsi verso l’analisi critica e la produzione di strumenti di inchiesta e azione nella città globalizzata. Il convegno si strutturerà attraverso una call for contributions (Convegno_Bologna.pdf) suddivisa in due ambiti di ricerca e con due dibattiti sui temi dell’urbano e sul campo di contesa che questo sempre più rappresenta. Dopo i contributi di Felice Mometti ed Emanuele Frixa, pubblichiamo questa settimana la trascrizione dell’ intervento di Agostino Petrillo, docente di Sociologia dell ambiente e del territorio del Politecnico di Milano. Petrillo si sofferma in particolare sul rendere una visione generalizzabile riguardo la mancanza di una vera e propria pianificazione urbana gestibile amministrativamente nel divenire globale delle metropoli, con la parallela affermazione preponderante del modello delle Cities del Global South in tutto il pianeta. Analizza poi la difficoltà di incidere delle lotte sul piano urbano e delle loro rivendicazioni spesso avviluppate nelle maglie burocratiche. Il quadro che viene tracciato pone l’accento su una ricaduta economica e sociale positiva solo sventolata della brandizzazione e della turistificazione nei territori, con i casi esemplari di Vienna e delle città tedesche di fronte ai flussi turistici polacchi. Quel che infine risalta dal discorso è la centralità della definizione di “territori abbandonati” per cercare di cogliere le trasformazioni urbane, con particolare riferimento allo sviluppo delle periferie. Buona lettura.

 

Vorrei partire – un po’ per indole mia di uomo di teoria – da una questione un po’ più generale. Scorrendo il book non ci si può sottrarre all’ impressione che ci sia una certa eterogeneità e una differenza di metodi, di visioni e di prospettive, al di là del panorama comune che viene descritto. E questo fa pensare e riflettere; fa riflettere anche sul “chi noi siamo”, sul come pensiamo, sul come facciamo il nostro lavoro teorico e politico. In realtà la gamma delle posizioni è quanto mai differenziata: troviamo varie rappresentazioni ed accezioni del marxismo, troviamo anche posizioni di tipo molto più foucaultiano, letture agambeniane, approcci certo originali ma che con difficoltà possono stare a fianco ad altri. Perché io penso che questo però sia interessante? Non è una critica all’ eclettismo dal punto di vista di una supposta ortodossia che non esiste; è un invito a riflettere sul fatto che anche al nostro interno abbiamo metodi e approcci abbastanza disparati tra loro. Una diversità che è ricchezza, e che secondo me dipende da un problema molto grande, che è un problema di tutta la ricerca, sia della ricerca militante che di quella accademica. In realtà noi riusciamo molto bene a descrivere i processi con cui opera il capitalismo contemporaneo, ma questa descrizione, per quanto si possa appunto praticare da diversi punti di vista, raramente conduce a una comprensione reale del modo in cui il capitalismo nuovo articola e disarticola i territori, crea isole di benessere e crea zone di povertà. Noi tutto questo non lo riusciamo ancora a comprendere completamente, perché non abbiamo a mio avviso un’idea chiara dei meccanismi con cui opera quello che potremmo chiamare il “capitalismo nuovo”, che è stato chiamato in tante maniere diverse.

Già una ventina di anni fa qualcuno in Francia parlava del nuovo spirito del capitalismo; più recentemente David Harvey ha ricominciato a parlare di capitalismo estrattivo, o Etienne Balibar ha parlato di capitalismo assoluto, ecc ecc. in realtà volendo si potrebbero trovare anche degli antecedenti teorici; già alla fine dell’Ottocento c’è chi aveva detto (Max Weber): “guardate che quello che noi chiamiamo capitalismo in realtà può avere tante forme diverse, può assumere forme molto diverse nelle diverse epoche, e non è detto che i capitalismi a venire avranno qualcosa o più di tanto in comune con i capitalismi che li hanno preceduti”. Capire come cambiano i territori vuole dire oggi capire il capitalismo nuovo.

Devo dire che, al di là di questa constatazione su di un gigantesco lavoro teorico ancora da fare, rimane il fatto che ci muoviamo con degli strumenti che sono non omogenei, ma su di un panorama che è invece comune. Ma qual é questo panorama comune che emerge dal book?

E’ un panorama, per così dire, molto triste, molto cupo, un panorama di metropoli sempre più divise e sempre più preda della speculazione, in cui poi si innescano processi di espulsione, di marginalizzazione sempre più chiari sul terreno della città, in cui nascono per esempio periferie di tipo completamente diverso dal passato. Non mi dilungo su questo punto perché è il tema di un libro nuovo – faccio due minuti di pubblicità per me stesso – che sta per uscire, proprio su periferie, disuguaglianza, e spazi. Ebbene, noi vediamo crescere delle periferie estremamente diverse dal passato, in cui si concentrano realtà sociali che non sono ancora chiaramente decifrabili, e ci cui quelli che sono i meccanismi della governance contemporanea, riescono a dare ragioni in maniera molto approssimativa. Le periferie si sottraggono, sfuggono, sono anche dal punto di vista politico ed elettorale inquietanti; c’è una fisionomia nuova assunta dalle periferie che fa riflettere sul modo in cui sono gestite le centralità, con cui questa produzione di periferia viene continuamente alimentata.

Non mi addentro ora nella questione, e torno al tema principale, cioé abbiamo un panorama di città che emerge da tutti i contributi che è un panorama segnato in buona parte dalla sconfitta, della messa nell’angolo dei movimenti, della dimensione del comune, e questo è a mio avviso non solo preoccupante, ma anche estremamente istruttivo, e ci permette di fare i conti una volta per tutte con alcune piccole utopie che pure hanno circolato negli anni precedenti, nei decenni precedenti. Penso per esempio all’idea, che è stata anche molto viva a sinistra nella rete, del superamento del capitalismo sul suo stesso terreno. Cioè l’ idea che a un certo punto, a dirla in parole semplici, il processo di meccanizzazione e automazione ecc ecc, avrebbe condotto a un superamento del capitalismo, dato lo scarto crescente – come si diceva una volta marxianamente – tra quello che era il complesso delle forze produttive, e quello che invece era il sistema dei rapporti di produzione e dei riproduzione nel loro complesso. Tutto questo è stato a lungo presente in varie utopie anche di tipo libertario, democratico, nella rete. Noi (che non ci abbiamo mai creduto) lo vediamo tragicamente tramontare all’orizzonte; chi è che crede più che il mondo dell’ automazione, il mondo delle macchine, possa essere un mondo in cui si affermano libertà nuove, in cui nascono istanze di partecipazione politica, di più ampio cittadinismo, nel senso in cui lo potevano intendere i vecchi pensatori di queste cose, Henri Lefebvre tra tutti?

Ebbene, tutto questo sansimonismo non c’è più, tace e si è dissolto come illusione. Qualcuno un po’ più avveduto lo aveva già chiaro da prima, che erano utopie non solo non troppo nuove, ma destinate a durare lo spazio di un momento. Diciamo che proprio la realtà materiale con cui tutti i giorni facciamo i conti, ha operato dissolvendole. Pensate anche a tutto il gran can-can che si era fatto intorno all’epoca dell’urbanizzazione del mondo. C’era questa idea ancora anni Settanta per cui il diventare urbano del mondo voleva dire che si miglioravano le condizioni di vita di una parte consistente dell’umanità; invece abbiamo visto che l’ affermarsi di questa era urbana che si è aperta il XXI secolo va perfettamente d’accordo con la crescita enorme della miseria e della povertà anche nelle grandi concentrazioni urbane. Per cui, da una parte abbiamo il tramonto di questa idea che in qualche modo il nuovo orizzonte tecnologico contenesse una promessa di liberazione, che era molto viva anche in certi ambienti radicali della Silicon Valley, e anche in certi filoni dell’ anarchismo informatico, rifritture di Murray Bookchin ecc ecc. Dall’altra, c’è un altro discorso utopico, che chi segue le campagne elettorali in questi giorni vede riecheggiare ovunque, che è la retorica sulla redistribuzione, che nessuno sa come si potrebbe attuare, ma che viene agitata come zuccherino, come placebo rispetto a quello che è invece una situazione reale di sempre maggiore divaricazione delle condizioni di vita, e di sempre maggiore affermarsi di condizioni di segregazione a livello urbano, e di confinamento e di esclusione degli spazi urbani, tanto che addirittura qualcuno ha insinuato che – forse – noi vediamo lentamente l’affermarsi nell’Europa dei modelli di città dell’urbano spietatamente diseguali, che sono dei modelli tipici di altre parti del mondo.

Quella che era una tradizione della città europea come città dei diritti, come città del welfare, come città in cui alcune contraddizioni più stridenti venivano in qualche maniera calmierate e addolcite, beh, questo discorso forse ce la possiamo pian piano scordare perché quelli che vincono sono invece i modelli delle città del Global South. Sono i modelli delle città del Sud del mondo, in cui invece c’è tranquillamente convivenza nelle stesse realtà urbane di estrema miseria e grandissima ricchezza, e tutta la cosa viene gestita nei termini della più completa normalità.

L’impressione è che, pian piano, ci lasciamo dietro questo tipo di considerazioni, questo tipo di discorsi consolatori, potremo dire compensativi, (si pensi al modo in cui sono state utilizzate mancette ed elemosine varie dagli ultimi governi) e siamo sempre più messi di fronte all’estrema durezza della realtà e del modo in cui vengono affrontate dalle amministrazioni le questioni della città e il problema del governo della città. Si parlava prima di governance urbana; certo, la partecipazione ha costituito una parte importante di questi sistemi di governance, soprattutto quelle pratiche di partecipazione addomesticata, magnanimamente concessa dall’alto, che poi in realtà non è mai partecipazione vera, ma ha un ruolo prevalentemente consultivo ex-post una volta che le decisioni son state prese; però l’ impressione è che anche queste forme di governance “partecipativa” pian piano stiano lasciando il passo a delle forme di controllo e gestione delle città invece ancor più spregiudicate, in cui non c’è più nemmeno il bisogno di attivare la popolazione, di coinvolgerla, ma in cui le amministrazioni fanno un po’ quello che vogliono. Questo è tipico della maniera di gestire le grandi metropoli terzo-mondiali, in cui le amministrazioni fanno tranquillamente il gioco delle tre carte con i cittadini, per cui un giorno do la corrente elettrica a un quartiere di disgraziati, dove non hanno niente, perché ha un leader politico che può portarmi dei voti nella prossima tornata elettorale, e il giorno dopo darò l’ acqua a un altro quartiere in cui c’è qualcun altro che può farmi lo stesso servizio.

Ma non sotto il profilo dei servizi che una amministrazione razionale dovrebbe fornire, non ci sarà mai tutto per tutti. Chi non è dalla mia parte politica non avrà niente, e aspetta il prossimo giro di carte. Intere metropoli multimilionarie vengono gestite con questo tipo di ottica, in cui addirittura l’idea è di una matrice caotica: mi è capitato recentemente di parlare col responsabile della pianificazione urbana di una megalopoli da 16/18 milioni di abitanti come Buenos Aires, e questo mi diceva “ma noi, in realtà, non è che abbiamo idea di quello che facciamo, che dobbiamo fare … noi ogni tanto sistemiamo una emergenza in una zona, o facciamo un piccolo progetto in un’altra.”.. poi la città va per i fatti suoi, insomma, cresce per i fatti suoi, senza nessuna pretesa di poterne governare in alcun modo lo sviluppo. E c’è anche quest’altro fattore che si intreccia alle modalità nuove della governance, quello di non sapere mai in realtà i motivi per cui una città può rimanere a galla e contare in qualche modo nell’economia contemporanea, mentre altre città invece affondano. Sì, sono state date delle spiegazioni, se uno legge appunto i libri di Enrico Moretti o di altri studi sul capitale umano, però in realtà alcune delle componenti sfuggono completamente all’ analisi economica tradizionale. David Harvey parlava proprio di una capricciosità, di una volubilità del grande capitale, che sceglie alcuni luoghi, come luoghi dove investire, per dei motivi che sono chiari solo a lui, mentre invece altri luoghi, che non appaiono altrettanto interessanti, vengono lasciati abbandonati, un’altra delle parole-chiave di oggi. Ci sono dei luoghi cioè che non sono interessanti, da cui non si ritiene di poter trarre il vantaggio che si penserebbe invece di poter trarre da altri luoghi; allora territori che hanno apparentemente caratteristiche quasi analoghe vedono o crescere e rivalutarsi la loro posizione, oppure declinare improvvisamente le loro condizioni di vita, la crescita della disoccupazione ecc ecc. E questo avviene sulla base di fattori che appunto non sono sempre chiaramente definibili.

Il problema di fondo a mio avviso è dunque capire come si articola questo capitalismo nuovo, quali sono le modalità in cui agisce, con cui sceglie, e quali sono i destini dei luoghi in cui opera: se uno poi legge gli studi recenti degli economisti territoriali, degli economisti urbani su questi temi, anche lì l’unica cosa che si riesce a capire è che mentre un tempo si pensava che creare per esempio una realtà produttiva nuova, una realtà di impresa nuova in una determinata zona, avesse una ricaduta positiva anche sui territori circostanti, oggi questo modello non funziona più.

Non funziona più così perché le caratteristiche dell’economia avanzata, della produzione nuova, sono tali che si creano dei momenti di concentrazione di potere finanziario, economico, che però non hanno ricadute immediate sulle zone limitrofe, anzi accentuano gli squilibri. Questo perché tale economia nuova è fatta di meccanismi di “stop and go”, di accelerazione e di frenata, di assunzione e di licenziamento, che dipendono moltissimo da una serie di variabili difficili da seguire. Dunque, se questa questione di cui si parlava prima della grande competizione generalizzata tra le città in cui il brand, in cui l’ immagine della città giocano un ruolo molto, molto importante, tuttavia non è sufficiente a dare ragione delle scelte. Non è che, per esempio, Bologna agita la sua bandierina “noi siamo qui come capitale alimentare d’ Europa, vi offriamo tante opportunità di investimento, venite”.. ma non è detto che il meccanismo sia questo; non basta che le città si propongano in termini di immagine accattivante, di branding, per ricevere i tanto desiderati investimenti esteri, perché a volte quelli vanno in tutt’altra direzione, per cui anche lo sforzo che le amministrazioni fanno di costruire queste immagini, sono degli sforzi che molto spesso lasciano il tempo che trovano. In realtà, è molto più facile che una grande multinazionale straniera si indirizzi magari su un altro luogo che offre delle condizioni di tipo diverso, pur non avendo tutta questa panoplia di specchietti per allodole con cui la città si organizza, e decidono che è più conveniente andare da qualche altra parte.

Questo è già successo in Europa, anche a livelli molto più grandi che non a livello italiano-bolognese. Vienna ha creato tutto un nuovo centro direzionale, dopo la caduta del Muro, sull’isola sul Danubio, che è ancora per tre quarti vuoto. Era il centro in cui sarebbero dovute andare le grandi compagnie multinazionali che dovevano andare a concentrarsi lì perché si pensava che, aprendosi la città ai mercati dall’Est-Europa, facendo concorrenza anche ad altre città tedesche che giocavano la stessa partita, ci sarebbe stata la necessità di creare spazi attrezzati, intelligent building.. gli hanno creato tutto quanto era più favorevole a un insediamento di corporations, e le multinazionali non sono arrivate.

Un po’ è successa anche a Berlino questa cosa qua; tutta la zona intorno all’ Alexanderplatz, anche lì dovevano esserci le nuove sedi delle grandi multinazionali che però in buona parte si sono guardate bene poi dal metterci piede. Occorre allora fare un enorme sforzo anche di chiarificazione su quali sono le vere poste in gioco quando poi si attivano questi meccanismi di immagine e quali sono le logiche, quale la storia dei diversi territori che stanno dietro al tentativo di proporsi in questi termini. Voi pensate adesso a un altro grande tema di cui si è parlato tantissimo in questi anni, della città come motore di sviluppo urbano, dall’articolo famoso di Harvey Molotoch “La città come macchina di sviluppo”, ecc; in realtà poi tutto questo tipo di dinamiche non sono state mai chiarite fino in fondo; sono rimaste soltanto accennate a grandi linee. Lo stesso Molotoch, in una chiacchierata che mi ritrovai per caso a far con lui qualche anno fa, mi disse che quell’articolo era stato sopravvalutato, perché loro avevano avuto soltanto una intuizione, vedendo come aveva funzionato il meccanismo in alcune città degli Stati Uniti, e avevano buttato lì una idea che poi era stata ripresa e generalizzata dalla letteratura sul tema.

E allora bisogna stare molto attenti alle chiacchiere, anche sulla questione del turismo.. Io vivevo e vivo in una città, Genova, dove di nuovo la bandierina del turismo è stata spesa più volte negli ultimi tempi anche a livello della politica locale. Beh, bisogna chiarire una cosa: settori come quello del turismo e anche in parte quello dell’alimentazione, sono settori che danno lavoro a un numero molto limitato di addetti; non è detto che turisticizzare la città sia il toccasana, perché in realtà l’ apporto dal punto di vista di posti di lavoro e di ricchezza che porta il turismo è molto limitato. Addirittura in Austria han fatto degli studi sulle città più visitate da cui veniva fuori che in alcuni casi era più il danno che facevano i turisti che non il guadagno.. loro hanno ad esempio “il flagello” dei turisti polacchi che arrivavano con i pulman organizzati dalla Polonia che non spendevano un soldo e si portavano via le pietre storiche ecc ecc.

Perciò, tutto il discorso sulla città imprenditoriale, sulla città che si auto-promuove come immagine, sulla logica – com’è stato teorizzato in Germania negli ultimi anni – la logica delle singole città che sono diverse di volta in volta, per cui ci sono città che hanno strutture e tutto un sistema di relazioni per cui riescono a inserirsi meglio nei gangli dell’ economia internazionale rispetto ad altre – molto spesso è tutta retorica; in realtà l’ impressione è che molto spesso siano quelle che gli inglesi chiamano “outside forces”, sono le forze esterne che in realtà plasmano le città, scelgono dove insediarsi, scelgono dove c’è convenienza o meno, aldilà di quelli che sono gli intenti dei politici locali di agitare le loro bandierine. Per cui qui si aprono anche degli spazi per la politica, che aprono anche degli spazi di resistenza in quanto andando a decostruire l’ immagine che giustifica determinati interventi, ci svela come in realtà questi siano di tipo puramente speculativo, e fatti nell’ottica di tempi brevissimi.

L’idea che esista una progettualità articolata, sotto questo profilo, è un’ idea falsa, perché molto spesso in realtà sono campagne unicamente sloganistiche che servono a comunicare che le amministrazioni e la politica hanno un progetto di città, hanno un progetto urbano, hanno un ‘idea di quello che devono fare, mentre moltissime volte così in realtà non è.

Chiudo dicendo che a me sembra che anche tanti discorsi sulla violenza intrecciati negli ultimi tempi, come per la violenza delle periferie, siano come dire una sorta di misure precauzionali, misure preventive, nei confronti di quello che si teme si paventi, perché in realtà le ragioni per cui esistono e ci sono delle tensioni e dei conflitti crescenti sono ragioni sempre più concrete, sempre più materiali. Questa retorica della violenza e dell’insicurezza prelude a una ulteriore compartimentazione e irrigidimento; pensiamo insomma al Decreto Minniti che va nella stessa direzione. In certe parti delle città certi tipi di persone non ci devono mettere piede; per cui abbiamo il profilarsi di un momento di conflitto ancora più duro, a venire. E i movimenti cosa possono fare? Ecco, l’ altra cosa che emerge dal book è che i movimenti sono abbastanza sulla difensiva, nel senso che in alcuni casi reggono, resistono; io sto seguendo a Genova l’ esperienza di un Comitato che si occupa della ristrutturazione di un’ area semi-centrale dove c’è una enorme vecchia caserma dismessa, su cui ci sono interessi complessissimi. Anche queste realtà che cercano di riaffermare il diritto alla città, di dire “noi ci siamo e vogliamo contare”, sono poi irretite in una specie di maglia burocratica, di balletto, di abbraccio mortale con le istituzioni, per cui è impressionante vedere come anche quando si formano delle realtà organizzate, strutturate, di resistenza e di riaffermazione, poi ci sia questa sorta di “valse macabre”, di danza macabra in cui un corpo vivo è abbracciato a uno morto, e pian piano si spegne l’istanza originaria e viene ricondotta dentro dei canali istituzionali che non hanno più nessuna vera valenza conflittuale. L’impressione è che ci siano delle grandi difficoltà nell’articolare oggi dei progetti di contropotere sul terreno della città, e che una epoca nuova può avvenire soltanto a mio avviso da una chiarificazione, da un processo comune di prospettiva in cui anche alcuni obiettivi comuni vengano individuati al di là di quelle che come abbiamo visto possono essere le differenze culturali, ideologiche, di metodo politico ecc ecc.

 

 

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