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[Lezioni di Storia] Risorgimento

Il termine risorgimento indica l’insieme delle azioni politiche diplomatiche e militari che portarono all’unificazione del regno d’Italia e alla graduale esclusione dal territorio della penisola degli Stati e dei regimi a dominazione straniera. In realtà il termine risorgimento fu coniato per indicare qualcosa di più, ovvero un vasto moto popolare di risveglio, accompagnato da una nuova stagione culturale, una spontanea serie di azioni politiche concatenate, che avrebbero coinvolto plebiscitariamente non solo uomini di tutte le regioni, ma di ceti e classi sociali diverse. Paradossalmente, risorgimento è quel termine convenzionale che si continua ad un fenomeno storico che ebbe in realtà – cioè secondo la storiografia di varie correnti – caratteristiche completamente diverse da quelle descritte sopra, cioè caratteristiche di vertice, di élite e così via. La polemica tra un risorgimento “di popolo” e un risorgimento “di vertice” andò avanti oziosamente per un certo tempo e va dato senz’altro atto a Gramsci di avere dato il quadro di riferimento scientifico a questa alternativa, corretta, così come veniva presentata, astratta. L’assenza di una chiara linea politica di parte borghese, l’inconsistenza di un radicalismo borghese, avrebbero determinato la mancanza di un rapporto di massa (in termini di scontro o incontro, poco importa) non tanto tra proletariato e borghesia, ma tra ceto politico e borghesia nel suo insieme, cioè progetto di unificazione territoriale e interessi di classe sociale. La successiva aspra polemica di R. Romeo verso la tesi gramsciana mise in luce però – in termini specifici forse scorretti, come hanno sottolineato sia Gerchenkron che Macchioro – è quella scienza di “rivoluzione borghese” non impedì tuttavia al gruppo dirigente piemontese che ne assunse l’iniziativa di condurre in porto l’unificazione in termini schiettamente capitalistici. In altri termini, anche se non ricalcò i moduli francesi, “una via cavourriana al profitto sociale” è individuabile abbastanza chiaramente come filo conduttore del processo di unificazione.

Probabilmente (è un’ipotesi) ciò che manca in tutta questa serie di tentativi di schematizzazione è il punto di riferimento costituito dall’insubordinazione proletaria; manca cioè non in termini di categoria del discorso ma in termini di ricerca storica, di dissepoltura archivistica. Manca cioè per il Risorgimento italiano qualcosa di analogo agli studi di Groethuysen sulle rivolte contadine in Francia prima della rivoluzione. Soltanto quando fu svelata dallo storico olandese l’esistenza di quell’insubordinazione endemica nelle campagne francesi la rivoluzione dell’ottantanove acquistò la sua reale fisionomia di “risposta di classe”, cioè di controrivoluzione borghese.

E’ troppo chiedere alla giovane storiografia italiana una tenace acribia nel ricostruire la situazione al Sud prima dell’iniziativa piemontese, cioè uno studio sistematico del terreno sociale che poi ha prodotto il decennio di brigantaggio postunitario?

Anche se provocatoria, la domanda vuole mettere in luce come, parlando di Risorgimento, il termine dialetticamente connesso alla politica cavourriana è la situazione nel meridione; allora l’alternativa non sarebbe più Cavour-Mazzini (iniziativa di vertice – moto di popolo) quanto Garibaldi-Bakunin (guerriglia patriottarda – guerriglia rivoluzionaria). Ammesso pure che anche quest’ultima ipotesi sia puramente provocatoria, resterebbe comunque da spiegare la stretta unità politica, il saldo legame di classe che unirono un “land-lord” come Cavour ai proprietari assenteisti del Sud. In maniera rovesciata, anche Gramsci comprese come il vero nodo del Risorgimento italiano sia quello di chiarire i meccanismi che consentono a una borghesia riformatrice una perfetta intesa col feudatario meridionale – una volta appurato che sia gli uni che gli altri lasciavano volentieri a Mazzini l’amore per l’Italia.

La riprova di questa salda unità anticontadina dei padroni del Nord e di quelli del Sud la si ha quando si va a verificare l’inesistenza di specifici progetti di trasformazione o di sistemazione economica del Mezzogiorno presso la corte sabauda o il suo entourage, prima della spedizione di Garibaldi in Sicilia e dopo la conquista dell’unità. Si ha invece l’impressione che il progetto fosse quello di un congelamento della situazione strutturale, a costo di non avere un’agricoltura redditiva, di avere un gettito fiscale debole o appena sufficiente a mantenere le truppe antibrigantaggio. Ma può darsi che quella che Gramsci chiama l’assenza di un progetto di rivoluzione borghese fosse in realtà il consapevole rifiuto di modificare, sia pure in parte, il reddito proletario, introducendo trasformazioni fondiarie e colturali, per conservare un dispotismo di classe, per poter continuare a dominare un proletariato sotto i livelli minimi di sussistenza.

Una serie di ragioni da ciò è a concludere che la spiegazione razionale di alcune tradizioni interne al modo in cui fu condotto il processo di unificazione nazionale vadano ricercate nel meridione stesso piuttosto che nelle sedi tradizionali della politica risorgimentale.

Per quanto riguarda quest’ultime, basterà citare alcuni tratti caratteristici su cui l’esame storiografico ha potuto dare risultati di giudizio abbastanza definitivi.

Si parte sempre dalla visione cavourrina, determinata dal progetto di fare del Piemonte un’area economico politica omogenea ai livelli europei, sia come redditività della singola impresa agricola, sia come gestione della società. L’iniziativa diplomatica vera è propria, che consentirà le operazioni militari necessarie all’unificazione, e dunque preceduta da un piano di rammodernamento della società piemontese, basato livelli competitivi prodotto agricolo e industriale, su un’adeguata politica dei trasporti e su un sistema amministrativo e fiscale modellato secondo i più avanzati sistemi europei. Da questo punto di vista, l’unificazione con il Lombardo Veneto dalla gestione asburgica diventa in pratica la creazione di una prima area economico-politica omogenea. E’ nota la lunga preparazione diplomatica nei confronti della Francia napoleonica ed è nota la conclusione della prima tappa (seconda guerra di indipendenza) con il doppio imprevisto, della marcia indietro dei francesi e dei plebisciti nelle regioni papaline e granducali. E’ a questo punto che l’unificazione territoriale della borghesia avanzata italiana, della borghesia che fonda il suo potere sullo sviluppo e non sull’arretratezza, sul processo di valorizzazione e non sulla rendita parassitaria, è compiuta. La morte di Cavour suggella questa prima fase, all’interno della quale è individuabile chiaramente un disegno di classe a carattere strategico e quindi anche un rapporto di massa.

I problemi che si accennavano all’inizio, le contraddizioni, iniziano con la seconda fase, quella che in tre tappe successive giungerà all’unificazione della Sicilia e dell’Italia meridionale, alla terza guerra d’indipendenza e alla conquista di Roma. Le contraddizioni che si mettevano in luce all’inizio per ciò potrebbero essere ridotte alla diversità tra questi due momenti del processo storico di unificazione; si potrebbe veramente parlare di due tempi, nettamente distinti, del Risorgimento stesso, il primo caratterizzato da questo disegno omogeneo della borghesia avanzata di lingua italiana (la volontà cioè di togliere gli orpelli daziari tra le aree economicamente omogenee, in ultima analisi), il secondo caratterizzato da una serie di contraddizioni interne alle stesse forze motrici del processo di unificazione, durante il quale forse, la mistificazione ideologica e l’esaltazione patriottarda rendono la mano alla razionalità di un progetto politico (questo riguarda sia Garibaldi in Sicilia e la questione romana). Il processo unitario sfugge al controllo del ceto politico piemontese-lombardo, che si vede condizionato dall’esterno rispetto ai suoi progetti di attuazione. Le caratteristiche di “occupazione” della presenza piemontese in meridione, (si pensi soltanto all’applicazione pari pari dello stesso sistema fiscale), vanno visti allora non in termini di “ trascuratezza” o di tracotanza quasi razzista, ma in termini di recupero della logica degli interessi di classe, in termini di recupero di un disegno di dominazione borghese, gestito non attraverso lo sviluppo ma attraverso l’arretratezza e la repressione. Non è dunque un’altra borghesia quella che stabilisce quel tipo di rapporti tra Nord e Sud, come forse può apparire da una certa interpretazione dei suggerimenti metodologici gramsciani, ma sono due tempi diversi e due forme diverse di un unico disegno di classe. Solo di recente, quando con i saggi della Lutz e poi di altri – saggi peraltro non di carattere storiografico e tanto meno di storia risorgimentale – è stato colto il nesso funzionale che esiste tra sviluppo e arretratezza nel modello capitalistico italiano, anche questa problematica è stata vista con un’ottica nuova ed è stato possibile sfuggire ad alcune aporie della storiografia sul Risorgimento stesso.

* Da “Scienze Politiche 1 (Stato e Politica)”, Enciclopedia Feltrinelli-Fischer (a cura di Antonio Negri )

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