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Giovanardi come il Coisp: ancora infamie sul caso Aldrovandi

Giovanardi come il Coisp e viceversa. L’anniversario di ogni tragedia di malapolizia diventa una tribuna per attaccare la memoria delle vittime e dei familiari e ritagliarsi un quarto d’ora di celebrità. Diventa il tentativo arrogante di avallare comportamenti violenti come quelli denunciati da decine e decine di famiglie ogni anno nel Paese. Facendo un pessimo servizio all’onorabilità dei cittadini che indossano la divisa senza commettere abusi. 
Tutto si svolge, stavolta, nell’Aula di Palazzo Madama dove un’impacciata senatrice grillina fa del suo meglio per commemorare Federico (usa lo stesso condizionale di Cancellieri – «avrebbe subìto un violento pestaggio» – nonostante tre gradi di giudizio incoraggerebbero l’uso dell’indicativo) e chiedersi se sia il caso che i quattro tornino a indossare una divisa e scorazzare sulle volanti di Ferrara o di altre città «nonostante abbiamo bastonato un innocente fino a portarlo allo schiacciamento del cuore e nonostante le frasi gravissime pronunciate durante da Enzo Pontani (“lo abbiamo bastonato di brutto per mezz’ora”) e di Monica Segatto (“moderate che ci sono le luci accese”)”».

Giovanardi paragona il pestaggio dell’Ippodromo di Ferrara al fermo dell’uomo che sparò a due carabinieri di fronte a Palazzo Chigi. I due sarebbero stati trattati allo stesso modo ma Federico è stato più disgraziato. «La discussione vera è che un comandante di polizia o dei carabinieri o il ministro degli interni devono spiegare come fanno le forze dell’ordine a fermare una persona in caso di colluttazione se non lo possono bloccare per terra come le disposizione attuali prevedono»? ha tuonato dal suo scranno Giovanardi fingendo di non sapere che i regolamenti prevedono invece di chiamare medico e ambulanza e non utilizzare la forza. 
Ora il senatore Pdl torna alla carica con la sua personale ricostruzione per dire che «gli agenti sono stati condannati per omicidio colposo per aver trattenuto l’Aldrovandi supino con le manette dietro e, contrariamente alla perizia del pm che aveva attribuito la morte alle sostanze ingerite, e questo è dimostrato dal processo, il perito di parte della signora Aldrovandi ha detto che tenendo una persona per terra bocconi in quella posizione si può verificare un infarto. Tenete presente che è la stessa posizione in cui i carabinieri hanno utilizzato per fermare Prieti davanti a Palazzo Chigi».
Anche stavolta Giovanardi, nella sua personalissima ricostruzione, è stato un bugiardo patentato (ci aspettiamo una querela così da spiegare in un aula di tribunale la violenza di quelle parole): insiste a dire che la sentenza che condanna per omicidio colposo i quattro agenti che uccisero Federico Aldrovandi esclude il dolo e che in fondo era solo un drogato morto per caso perché, pancia sotto e manette sulla schiena, gli sarebbe venuto un infarto. 
In realtà l’esponente Pdl dovrebbe dedicare alcuni minuti del suo superpagato tempo a leggersi davvero le sentenze. Ad esempio quella del tribunale di sorveglianza di Bologna che negò i domiciliari ai quattro perché: «Non riesce il tribunale a individuare qualsivoglia elemento di meritevolezza atto a sostenere la concessione e poi la corretta fruizione, ai fini rieducativi, dei benefici penitenziari». L’ordinanza di quel tribunale, presieduto da Francesco Maisto, richiamava le motivazioni delle sentenze tutte concordi nel sottolineare la violenza esercitata dai quattro agenti delle volanti accorsi in via Ippodromo all’alba del 25 settembre del 2005: lo hanno percosso «anche quando il ragazzo ormai era a terra e nonostante le sue invocazioni di aiuto, fino a sovrastarlo letteralmente di botte (e anche a calci) e con il peso del corpo… fino a provocarne in definitiva la morte». L’autopsia rilevò 54 lesioni (“ognuna delle quali – scrisse il giudice di primo grado Francesco Caruso – meriterebbe un processo”). I quattro sono venuti meno al dovere di «interrogarsi sull’azione dei colleghi, se del caso agendo per regolarla, moderandola». Hanno agito come un branco «anche se erano al corrente dei rischi per la salute derivanti dall’esercizio di una notevole, continuata e intensa forza». Non è un comportamento doloso? I loro difensori hanno ricordato che erano incensurati ma per il giudice è «una condizione doverosa» per chi fa un mestiere del genere. Non solo: «Pubblici ufficiali, privi di proedecenti disciplinari, sono infatti portatori di un ben diverso onere di lealtà e correttezza processuale, rispetto a un imputato comune, e avrebbero dovuto portare un contributo di verità, ad onta delle manipolazioni ordite dai superiori. Il non avere voluto squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta fin dalle prime ore … getta una luce negativa sulla personalità degli appellanti». Con buona pace dell’«onorevole stato di servizio» vantato dalle difese. Ma i quattro anche al processo «hanno omesso di fornire un contributo di verità, da reputarsi doveroso da parte di pubblici ufficiali». Invece no, loro hanno coperto i superiori che li coprivano! «Alla gravità della colpa – scrive ancora il Tribunale – si associano gli aspetti negativi più propriamente processuali con l’assenza di concreti segni di pentimento e di consapevolezza degli errori commessi, tradottisi in palesi menzogne e ostacoli all’accertamento della verità».
Su facebook Patrizia Moretti, la mamma di Aldrovandi, rilascia un laconico commento: «Tutto materiale utile per rimpinguare la querela». Perché già nel luglio 2007, l’allora ministro per i Rapporti con il Parlamento in quota Udc, in una trasmissione su Rai Tre, definì Federico “eroinomane”, parola mai uscita dalle carte delle consulenze e mai pronunciata nel corso dell’inchiesta. Poi, nel marzo scorso, in diretta radiofonica su “La zanzara”, dichiarò che la macchia rossa sotto la testa di Federico era un cuscino, mica sangue. Quella falsità gli è costata la querela da parte della madre di Aldrovandi.

da Popoff

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