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Muore Mahmoud Darwish poeta palestinese

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Mahmud Darwish, il poeta della resistenza palestinese, è morto a Houston, negli Stati Uniti il 9 agosto 2008. Aveva 67 anni e il suo cuore non ha retto all’ultimo delicato intervento subìto.

La sua vita è il manifesto della sua terra, storia marcata dalla Nakba , il dramma che colpì la Palestina nel 1948, anno della fuga e dell’esilio mai terminati.

Nasce nel 1941 ad al-Barweh, un villaggio della Galilea poche miglia a est di Acri, in quel momento sotto mandato britannico. E’ lui stesso a raccontare la notte in cui la sua vita smise di essere quella di un bambino, quando fu costretto a fuggire sotto braccio alla sua famiglia verso il confine libanese.

«A 7 anni smisi di giocare e ricordo bene come e perché: in una notte d’estate, quando si usava dormire sui tetti a terrazza delle case, fui improvvisamente svegliato da mia madre e mi trovai a correre con centinaia di contadini in mezzo ai boschi, inseguito dalle pallottole. Quella notte ho messo fine alla mia infanzia. Non chiedevo più nulla, ero diventato improvvisamente adulto[…]. In Libano ho imparato – mai lo dimenticherò – che cosa significa la parola “patria”. Là ho imparato parole nuove che hanno aperto davanti a me una finestra su un mondo nuovo: guerra, notizie dalla patria, profughi, esercito, confini, TERRA».

Non ha mai tralasciato un dettaglio nel racconto di quei giorni e di quell’anno passato nei campi profughi gestiti dall’Unrwa; con la sua penna ha permesso al mondo di capire la rabbia di un bambino di 7 anni in fila per la sua razione di cibo, l’odiata fetta di formaggio giallo. Dopo solo un anno la sua famiglia tenta il ritorno; della notte prima della partenza lui ricorderà:

«Tornare a casa significava per me la fine del formaggio giallo, la fine della provocazione continua dei ragazzi libanesi che mi insultavano con l’epiteto “profugo”». Pensava di tornare a casa mentre superava il confine con il petto che strisciava a terra, ma il villaggio dov’era nato non c’era più: come altri 600 era stato fatto saltare in aria e tutto era stato confiscato dalle autorità del nuovo Stato. La loro identità volatilizzata, così come la terra e il diritto di cittadinanza. «Non capivo nulla. Non capivo come avesse potuto essere distrutto un villaggio intero. Non capivo come fosse accaduto che l’intero mio mondo fosse sparito, né chi fossero quelli che lo avevano annientato».

Si stabilirono poco lontano, nel villaggio di Der al-Asad e lui iniziò a crescere come un “profugo nella sua patria”, destino comune a tutti coloro che non erano scappati o che erano riusciti a rientrare in Israele. Così, al suo vocabolario esistenziale imparato da piccolo profugo, si aggiunsero altre parole: iniziò a frequentare la seconda elementare da “infiltrato”. Il direttore infatti, lo chiudeva in uno sgabuzzino ogni volta che passavano i controlli dell’ispettore.

«Anche a casa ogni tanto mi dovevano nascondere. Mi era proibito vivere nel mio proprio paese e per ottenere la carta d’identità israeliana imparai a dire che ero vissuto con le tribù beduine a nord del paese, e non in Libano».

Iniziò a scrivere liriche che era appena un ragazzo, a cantare la sua identità legata in modo viscerale alla terra, ad un luogo unico e costante che nei suoi testi rimane sempre astratto ed espresso solamente attraverso alcuni, ripetuti, simboli come l’ulivo, le arance, il gelsomino, il timo, il pozzo. Dalle sue prime poesie il filo conduttore è sempre quel legame indissolubile, quella nostalgia eterna, quell’orgoglio di resistente che coltiva quotidianamente la memoria e l’amore per le radici estirpate.

Dal 1961 la sua voce inizia ad infastidire, per questo viene continuamente controllato, imprigionato cinque volte con la sola accusa di scrivere poesie e muoversi senza permesso all’interno dello stato d’Israele. Motivo per il quale non riuscirà nemmeno a conseguire la laurea. Dopo l’ennesimo periodo di detenzione decide per l’esilio volontario, partendo alla volta del Cairo dove inizia a collaborare con il prestigioso quotidiano al-Ahram . Partirà poi per raggiungere l’Olp a Beirut e lavorare al Centro di ricerca palestinese fino al 1982 quando, con migliaia di altri militanti approda a Tunisi. La sua firma appare tra i redattori del testo della Dichiarazione d’Indipendenza dello Stato Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da diversi stati. Il suo esilio durerà 26 anni quando, nel 1996, riceverà un permesso per poter visitare i suoi famigliari in Israele.

La sua casa ormai era a Ramallah, finchè la malattia che da sempre tormentava il suo cuore non l’ha costretto a partire per gli Stati Uniti, dove è deceduto.

La sua patria non era altro che la sua poesia, la sua terra era fatta di parole e profumo di gelsomino, la sua vita era un’arancia spaccata a metà che non è mai riuscita a ritrovare il sapore dell’altra parte. Edward Said, altro grande intellettuale palestinese da poco scomparso e anche lui figlio della Nakba , diceva che la poesia di Darwish «non era un rifugio lontano dall’esistenza consueta, ma una battaglia tra la poesia stessa e la memoria collettiva, dove una preme sull’altra». Fin dal suo esordio nel panorama della poesia araba, amava assimilare il testo ad una “partitura musicale” che lui molto spesso recitava pubblicamente. La sua voce carismatica e le sue parole sono state un ripetuto appuntamento che ha richiamato migliaia di persone in tutto il Medioriente e non solo.

«Quando l’uomo perde tutto, proprio tutto, persino l’esilio in cui annientarsi, resta il canto che si ripeterà e s’innalzerà fino agli abissi dei mari. E’ un altro miracolo nel racconto a episodi della storia del popolo palestinese. Niente esilio, niente patria. Ma c’è una cosa di cui nessuno mi può privare: la poesia e il canto».

La sua bibliografia è composta da quindici spessi volumi di poesie e cinque di opere in prosa scritti quasi completamente in lingua araba e tradotti ormai in 20 lingue. Purtroppo i lettori italiani non sono così fortunati. Sono solamente tre i libri disponibili nelle nostre librerie: Oltre l’ultimo cielo (Edizioni Epoché, 2007, 14€), Una memoria per l’oblio (Edizioni Jouvance, Roma 2002, 15€) e Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine? (Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2001, 18€). Fortunatamente molte sue poesie e prose sono state tradotte e inserite nelle più importanti antologie di letteratura araba palestinese.

Mahmoud Darwish scriveva per dimostrare la sua esistenza, per urlarla in faccia ad un nemico che voleva privarlo proprio di quella. Era il cantore della libertà e delle catene spezzate, del pane preparato dalle mani materne, dell’ulivo e dei frutti della sua infanzia. La Palestina piange il suo più dolce poeta. Che il suolo della sua terra gli sia lieve come una carezza.

 

Fonte: Baruda

 

di Mahmoud Darwish:

 

Potete legarmi mani e piedi

togliermi il quaderno e le sigarette

riempirmi la bocca di terra:

la poesia è sangue del mio cuore vivo

sale del mio pane, luce nei miei occhi.

Sarà scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro,

la canterò nella cella della mia prigione,

al bagno,

nella stalla,

sotto la sferza,

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me un milione d’usignoli

Per cantare la mia canzone di lotta.

 

Mahmoud Darwish

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