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I consigli di fabbrica

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I consigli di fabbrica

Prima di tutto un numero: su un milione e mezzo di lavoratori delle aziende manifatturiere più importanti d’Italia ci sono sessantamila delegati. Sessantamila operai che si interessano della lotta aziendale, del rinnovo dei contratti nazionali e, ogni tanto, della situazione politica. Già basterebbe questo per rendersi conto che i CdF sono la realtà più importante nata dentro il movimento operaio in questi anni di lotta.

Proprio per questo tutti hanno delle idee in proposito:

il sindacato: prima (nel ’68) considerava i delegati come coloro che dovevano controllare nelle linee e nei reparti l’andamento della produzione (cadenze, carichi di lavoro etc.).

Nel ’69 e nel ’70, durante e dopo le grandi lotte d’autunno, i riformisti erano preoccupati di perdere il contatto con il movimento, è stato così che hanno intensificato la loro azione perché tutti i delegati e i Consigli si considerassero e fossero considerati le nuove strutture di base del sindacato.

Oggi, la CGIL specialmente è preoccupata di guastarsi gli accordi faticosamente costruiti con le componenti politico-sindacali del futuro centro-sinistra, ed è tutta occupata a garantire le rappresentanze sindacali dentro i Consigli di fabbrica, facendole nominare di fatto dall’apparato esterno. Addio democrazia operaia e democrazia sindacale: quando sono di ostacolo alla politica, quando possono mettere in dubbio la sempre più aperta collaborazione tra riformisti e borghesia, l’avvicinamento tra i vertici delle confederazioni. Allora, della democrazia operaia, non importa più niente a nessuno;

il padrone: prima non ne voleva neppure sentir parlare, poi, visto che c’erano, ha pensato bene di riconoscerne qualcuno, ma come «esperto». In questo ultimo periodo voleva prendersi la rivincita regolamentando, cioè inscatolando i Consigli. Ha cambiato idea di nuovo: gli operai e i Consigli sono troppo più forti di lui;

la sinistra extraparlamentare: è quella che ne ha dette più di tutti: all’inizio ha detto che erano un bidone sindacale per far accettare sotto sotto la cogestione dello sfruttamento; poi ha corretto il tiro attaccandoli perché «cercavano dl sostituirsi» e di reprimere la spinta dell’intera massa operaia. Dopo molto tempo, nel momento meno propizio di tutti questi anni perché il controllo riformista si è di nuovo consolidato, i gruppi di sinistra hanno scoperto i Consigli e il «lavoro politico» al loro interno, anche se inteso in modo molto ambiguo.

In realtà le cose non sono poi così difficili.

Quella del Consiglio è stata, tutto sommato, un’invenzione organizzativa del movimento dl massa.

Dopo l’autunno in fabbrica si passava dall’assemblea di reparto o di linea, dalla quale partiva il casino, al delegato controllato da queste assemblee, al Consiglio dl Fabbrica.

Perché un delegato per reparto?

Perché gli operai non contestano più solo i bassi salari e gli orari troppo lunghi; gli operai contestano anche l’uso che il padrone vuol fare di loro sottoponendoli a una organizzazione del lavoro rispetto alla quale si sentono del tutto estranei. Partire dal reparto poi vuol dire poter essere a contatto con l’assemblea, con la volontà spontanea degli operai, con le contraddizioni quotidiane che la vita dl fabbrica fa continuamente saltar fuori.

Il Consiglio potrebbe diventare allora lo strumento organizzativo a partire dal quale si rilancia continuamente e unitariamente la lotta all’organizzazione del lavoro.

I riformisti tendono, e ci sono in parte riusciti, a trasformare invece il Consiglio da strumento organizzativo della lotta operaia in organo tecnico competente a contrattare e a determinare in continuazione insieme al padrone tutti gli aspetti della produzione (tempi, carichi dl lavoro, orari, utilizzo degli impianti, ecc.).

Questa battaglia è ancora largamente aperta ed è fondamentale per tutti: dominare o egemonizzare o influenzare l’organizzazione operaia di base modellata sui ciclo produttivo, vuol dire per i riformisti estendere capillarmente il proprio controllo, impedire agli operai, a partire dalle radici, di ritrovarsi come massa organizzata autonomamente dal controllo della borghesia (che è il pericolo più temuto dal padroni perché rappresenta una contrapposizione di fatto all’attuale organizzazione dello Stato, del potere).

Da chi vincerà questa battaglia nei Consigli di Fabbrica e tra i delegati dipenderà se le masse potranno o no conservare, sviluppare ed esprimere in strutture organizzate di movimento i contenuti autonomi delle lotte. Si tratta insomma di un fatto: la capacità di integrazione della borghesia e dei riformisti dovrà rinunciare o no a estendere il suo controllo paralizzante fino alle «cellule elementari» della vita politica del movimento operaio?

Impedire questo disegno è un compito sul quale le avanguardie rivoluzionarie dovranno misurare la loro capacità dl muoversi realmente dentro le esigenze del movimento.

Riportiamo alcuni passi di un documento del Collettivo Politico Operaio dell’Alfa Romeo che chiariscono le funzioni dei CdF e il ruolo delle avanguardie comuniste che in essi operano.

Ma di fronte alla spinta che nasceva dalla classe operaia e che si esprimeva anche in obiettivi seri contro l’organizzazione capitalistica del lavoro (egualitarismo, lotta contro i ritmi, i tempi, nocività) la linea revisionista del P.C.I. egemone nel sindacato spostava questi obiettivi portando la spinta della classe operaia a livello di contrattazione col padrone e non di lotta contro il padrone, da obiettivi «contro» il sistema a obiettivi «nel» sistema e rendeva CdF puri organi che dovevano ratificare le direttive dei vertici svuotandoli del loro contenuto politico di organismi di massa per la lotta contro i padroni.

Noi siamo d’accordo con chi dice che i riformisti hanno dato luogo ai CdF sotto la spinta operaia per ingabbiare le lotte autonome e per tenere meglio sotto controllo la base.

Ma è anche vero però che la sinistra rivoluzionaria non ha saputo cogliere l’esigenza che scaturiva dalla classe operaia di partecipare in prima persona alle decisioni sugli obiettivi, forme di lotta ecc.

Il non aver capito fino in fondo che i CdF nascono anche da queste esigenze e che rispondono, in maniera sia pure illusoria, (con i limiti dati loro dal ruolo stesso di ingabbiamento della spontaneità per cui sono stati creati dai riformisti) a questa domanda della classe operaia di contare nelle scelte, crea all’interno di vari organismi della sinistra atteggiamenti scorretti.

Noi lavoriamo nel CdF per sviluppare la capacità delle masse stesse a dirigere la lotta, ad attaccare i progetti riformisti d’integrazione: bisogna cioè saper condurre dentro gli organismi di massa un’azione comunista di egemonia. È per questo che diciamo e sottolineiamo che non siamo organismo alternativo al sindacato e tanto meno al consiglio.

Il consiglio organizza i delegati in quanto operai riconosciuti dalle masse e ha radici nelle masse. Non può un’organizzazione d’avanguardia sostituirsi alle masse o usarle strumentalmente.

Una vera direzione comunista la si misura se sa crescere e svilupparsi con le masse e sa trasferire ad esse la direzione della lotta e non se si vuole sostituire in modo cretino e settario ad esse… A meno che quegli organismi che si dicono di massa non si considerino il sindacato di qualche gruppo politico cervellone di cui loro sono le braccia.

da «Rosso. Quindicinale del Gruppo Gramsci» – anno I – numero 4 – 7 maggio 1973

Guarda: “Marzo 1973 – I giorni della Fiat“:

Guarda “Contratto“:

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